L’indennità “omnicomprensiva” per il caso di conversione del contratto a tempo determinato si applica anche al lavoro autonomo a termine

Luigi Di Paola
22 Ottobre 2018

L'indennità prevista dall'art. 32, l. n. 183 del 2010, nel significato chiarito dall'art. 1, comma 13, l. n. 92 del 2012, si applica anche nel caso di condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore a causa dell'illegittimità di un contratto di lavoro autonomo a termine, convertito in contratto a tempo indeterminato, poiché la predetta indennità consegue a qualsiasi ipotesi di riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in sostituzione di altra fattispecie contrattuale a tempo determinato.
Massima

L'indennità prevista dall'art. 32, l. n. 183 del 2010, nel significato chiarito dall'art. 1, comma 13, l. n.92 del 2012, si applica anche nel caso di condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore a causa dell'illegittimità di un contratto di lavoro autonomo a termine, convertito in contratto a tempo indeterminato, poiché la predetta indennità consegue a qualsiasi ipotesi di riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in sostituzione di altra fattispecie contrattuale a tempo determinato.

Il caso

Un rapporto di lavoro autonomo a termine viene convertito in rapporto subordinato a tempo indeterminato, con condanna del datore alla corresponsione, in favore del lavoratore, dell'indennità di cui all'art. 32, l. n. 183 del 2010; il lavoratore medesimo propone ricorso per cassazione, sostenendo che la predetta indennità è per legge riconoscibile solo nell'ambito del rapporto di lavoro sorto da contratto a termine già in origine di natura subordinata.

I giudici di legittimità rigettano sul punto il ricorso, confermando la sentenza impugnata.

La questione

La questione in esame è la seguente: l'art. 32, l. n. 183 del 2010 - nella parte in cui prevede che “Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604” - si applica anche nell'ipotesi di “conversione” di contratto autonomo a termine?

Le soluzioni giuridiche

La S.C. ritiene che ove sia fissato un termine di durata ad un rapporto di lavoro formalmente autonomo, il riconoscimento giudiziale della natura subordinata del rapporto in questione faccia scattare, quanto alla posta risarcitoria, la disciplina di cui all'art. 32, l. n. 183 del 2010.

Pertanto il lavoratore, oltre alla ricostituzione del rapporto, potrà conseguire una somma forfetaria anche qualora fosse trascorso un ampio lasso temporale tra il momento di formale scadenza del termine contrattuale e quello della pronuncia del giudice. In passato, invece, la regola – secondo un orientamento prevalente – era nel senso che il lavoratore, per effetto dell'accertamento della natura subordinata del rapporto, potesse pretendere le retribuzioni dal giorno di offerta della prestazione (la cosiddetta “costituzione in mora”) fino alla data di effettivo ripristino del rapporto.

La differenza di tutela, sotto il profilo risarcitorio, è quindi abbastanza netta.

La sentenza in commento è la prima della S.C. ad affermare il principio, anche se quest'ultimo è il derivato di un'impostazione già collaudata, pur in relazione ad altri settori.

Al riguardo, l'indennità, in origine certamente pensata – per le ragioni che verranno indicate infra – per i contratti di lavoro subordinato a termine dichiarati illegittimi, è stata ritenuta applicabile anche nell'ambito dei rapporti interinali irregolari (cfr. Cass. 17 gennaio 2013, n. 1148: “In tema di lavoro interinale, l'indennità prevista dall'art. 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183, nel significato chiarito dal comma 13 dell'art. 1 della legge 28 giugno 2012, n. 92, trova applicazione con riferimento a qualsiasi ipotesi di ricostituzione del rapporto di lavoro avente in origine termine illegittimo e si applica anche nel caso di condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore a causa dell'illegittimità di un contratto per prestazioni di lavoro temporaneo a tempo determinato, ai sensi della lett. a), del primo comma, dell'art. 3 della legge 24 giugno 1997, n. 196, convertito in contratto a tempo indeterminato tra lavoratore e utilizzatore della prestazione”); e poi, ancora, nell'ambito della somministrazione di lavoro irregolare (v. Cass. 1° agosto 2014, n. 17540: “In tema di somministrazione di lavoro, l'indennità prevista dall'art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183, è applicabile a qualsiasi ipotesi di conversione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato e, dunque, anche nel caso di condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore che abbia chiesto ed ottenuto l'accertamento della nullità di un contratto di somministrazione di lavoro, convertito in contratto a tempo indeterminato tra lavoratore ed utilizzatore della prestazione”).

In tempi recenti, l'indennità in questione è stata individuata quale posta risarcitoria da assegnare al lavoratore per l'ipotesi di contratto di formazione e lavoro dichiarato invalido (v. Cass. 21 giugno 2018, n. 16435: “Ai fini dell'applicazione dell'indennità di cui all'art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, rileva il duplice presupposto della natura a tempo determinato del contratto di lavoro dedotto in giudizio e della “conversione” del contratto medesimo, da estendere all'accertamento di ogni ragione che comporti la stabilizzazione del rapporto, anche se derivante da una deviazione dalla causa o funzione che gli è propria, come nell'ipotesi di nullità del termine finale apposto al contratto di formazione e lavoro per mancato adempimento dell'obbligo formativo”).

Quanto alla fattispecie di lavoro interinale (o somministrato), l'argomentazione centrale del descritto orientamento fa perno sul dato letterale della norma di riferimento, che adotta la locuzione “Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato”, senza precisare se il contratto convertito debba identificarsi proprio con quello stipulato a termine con il formale datore di lavoro; potendo così sostenersi che la “conversione” possa essere anche soggettiva, sì da interessare il rapporto con il diverso (e sostanziale) datore di lavoro. Tale opzione, come è noto, é stata successivamente accolta dal legislatore, il quale, con l'art. 38, d.lgs. n. 81 del 2015, ha previsto che nel caso in cui il giudice accolga la domanda con la quale il lavoratore chiede la costituzione del rapporto di lavoro con l'utilizzatore, condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno in favore del lavoratore medesimo, stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'art. 8, l. n. 604 del 1966.

Più semplice l'applicabilità della previsione in esame all'ipotesi di contratto di formazione e lavoro illegittimo, giacché il contratto in questione altro non è se non un “particolare” contratto a termine.

Quanto al caso deciso dalla sentenza in commento, ben può valorizzarsi, ancora, il dato letterale, evidenziandosi che dalla già riportata espressione “Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato” non si evince che il contratto in questione debba essere sorto formalmente nel segno della subordinazione, potendo quindi sostenersi che nell'area di operatività della norma rientri anche il contratto formalmente autonomo.

L'assimilazione delle varie ipotesi sembra, in via ulteriore, convalidata dal legislatore con l'introduzione della previsione dell'art. 28, comma 2, d.lgs. n. 81 del 2015, che - sostituendo il citato art. 32, l. n. 183 del 2010, ma con valenza in qualche modo anche interpretativa a valere per il passato - così dispone: “Nei casi di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno a favore del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604. La predetta indennità ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia con la quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro”.

Come è agevole notare, il termine “conversione”, connotato da un significato tipico, tradizionalmente attestante il riconoscimento della natura a tempo indeterminato di rapporti, sorti formalmente a termine, di natura subordinata, non è più riprodotto, e al suo posto compare la parola “trasformazione”, di taglio neutro, adattabile anche al contratto autonomo fittizio che occulti un rapporto di natura subordinata (e su tale ultima questione v. quanto si dirà anche infra).

Ovviamente, l'applicabilità dell'indennità omnicomprensiva all'ipotesi di rapporto autonomo a termine convertito in rapporto a tempo indeterminato, comporta l'operatività di tutti i principi elaborati dalla giurisprudenza negli ultimi anni con riguardo all'indennità stessa (natura risarcitoria e non retributiva, con conseguente decorrenza di interessi e rivalutazione a far data dalla pronuncia giudiziaria dichiarativa della illegittimità della clausola appositiva del termine, e quant'altro).

Osservazioni

Come è noto, l'introduzione nel sistema dell'indennità onnicomprensiva ha soddisfatto l'esigenza, sorta a seguito del noto contenzioso - sviluppatosi negli anni '90 - sui contratti a termine “Poste”, di contenere gli esborsi economici derivanti da numerosi provvedimenti giudiziali contenenti la declaratoria di illegittimità dei termini apposti a una lunga serie di contratti di lavoro.

Come è altrettanto noto, l'intervento dei provvedimenti in questione a distanza di anni dalla scadenza del termine - anche in ragione della mancanza, all'epoca, della previsione della decadenza entro cui far valere l'azione di impugnativa ad opera del lavoratore, nonché di una tendenza giurisprudenziale a ravvisare raramente la risoluzione del rapporto per mutuo consenso - ha comportato il pagamento, ad opera del datore, anche per un periodo consistente, di una retribuzione sostanzialmente “a vuoto” in favore dei dipendenti vittoriosi in giudizio.

La predetta esigenza di contenimento è stata soddisfatta anche nell'ambito della somministrazione di lavoro, dapprima, per come sopra visto, per via giurisprudenziale, successivamente per via legislativa.

Il sistema “indennitario” secco è così divenuto - una volta superato il vaglio di legittimità costituzionale (cfr. Corte cost. 11 novembre 2011, n. 303) - regola generale, trapiantata dal legislatore (con le note riforme introdotte dalla legge “Fornero” e dal “Jobs Act”) anche nel settore del licenziamento (ove intimato dalle grandi aziende).

L'impianto tradizionale, ossia quello incentrato sull'ordine di ripristino del rapporto e condanna del datore al pagamento di tutte le retribuzioni dalla messa in mora è pertanto venuto meno (o quasi, qualora si ritenga che esso sia tuttora applicabile in caso di nullità della somministrazione per difetto della forma scritta o di nullità di diritto comune, se ancora ritenuta esistente, del licenziamento).

Infatti, nell'ipotesi - residuale - del rapporto formalmente autonomo senza determinazione di durata, l'allontanamento del lavoratore viene per lo più considerato, ove il rapporto stesso sia ritenuto di natura subordinata, un licenziamento orale, sicché si applicherà la disciplina di quest'ultimo (ossia la tutela reintegratoria “piena”).

Il sistema sembra mostrare, tuttavia, una incongruenza ove il “formale” committente receda dal rapporto a termine prima della scadenza di questo. Qui, infatti, l'estromissione del lavoratore, non potendo essere valutata quale allontanamento disposto in virtù della scadenza del termine (pur illegittimamente apposto), può essere solo interpretata, una volta riqualificato il rapporto nel segno della subordinazione, quale licenziamento. E' pertanto sufficiente che il rapporto venga risolto anche un sol giorno prima della scadenza del termine perché, sul piano risarcitorio, divenga operativa una diversa disciplina.

Un'ultima annotazione.

L'indennità onnicomprensiva è stata introdotta per la prima volta con l'art. 32, l. n. 183 del 2010, recante “Decadenze e disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo determinato”. La collocazione topografica “neutra” della norma, inserita in un articolato eterogeneo concernente le più svariate materie, poteva rendere alquanto plausibile la tesi dell'applicabilità dell'indennità con riguardo a qualsiasi rapporto a termine, anche formalmente autonomo, poi trasformato in contratto a tempo indeterminato.

Attualmente, però, la predetta norma trova la sua “riproduzione” e parziale riformulazione – per come già visto - nell'art. 28, d.lgs. n. 81 del 2015, recante “Decadenza e tutela”. L'articolo in questione è posto nell'ambito del capo III, intitolato “Lavoro a tempo determinato”; la apparente ampiezza della locuzione è tuttavia ridimensionata nel primo comma dell'art. 19 (recante “Apposizione del termine e durata massima”), che connota tutta la disciplina contenuta nel predetto capo, ove è previsto che “Al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata”.

Potrebbe quindi obiettarsi, in effetti, che l'indennità omnicomprensiva costituisca un istituto riguardante solo il tradizionale contratto a termine che sia sorto già in origine nel segno della subordinazione.

Ma è pronta la replica che il legislatore ha previsto l'applicabilità dell'indennità anche in caso di somministrazione irregolare; il che dovrebbe portare a riconoscere la sussistenza di un principio di valenza indubbiamente generale che associa tutti i rapporti sorti a termine e poi “trasformati” a tempo indeterminato.

Sarebbe quindi questo un caso in cui la deroga introdotta dal legislatore ai tradizionali principi generali in ragione di una (peraltro oramai ampiamente superata) “contingenza” - rappresentata da un contenzioso abbondante (nonché “costoso” per la società Poste Italiane) - è gradualmente divenuta essa stessa un principio generale capace di governare situazioni, quale quella in esame, oggetto di un contenzioso di dimensioni per nulla eccezionali.

Potendo conseguentemente addirittura ipotizzarsi che il trattamento da riservarsi al datore che abbia stipulato un contratto formalmente autonomo a termine dichiarato illegittimo non possa essere più sfavorevole - pena una irragionevole disparità di trattamento - di quello espressamente accordato al datore di lavoro che abbia stipulato un contratto di lavoro subordinato a termine.

Il tutto sembra dare il segno di una sempre più marcata emancipazione del diritto del lavoro dalle tradizionali categorie del diritto civile.

Per riferimenti sul tema, v. I. Fedele, Il contratto di lavoro a tempo determinato, ne “Fonti e tipologie dei contratti di lavoro”, I, Lavoro, Pratica Professionale, diretto da P. Curzio, L. Di Paola e R. Romei, Giuffrè, 2018, 406 ss.

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