La legittimazione dell’amministratore ad impugnare le delibere assembleari

23 Ottobre 2018

Il singolo amministratore che sia stato revocato non ha il potere di impugnare le deliberazioni assembleari che non siano state assunte in conformità alla legge, attesto che tale potere è per legge attribuito agli “amministratori” per la tutela degli interessi sociali e che pertanto, in una società retta da un consiglio di amministrazione, la legittimazione spetta all'organo nel suo complesso e non ad ogni suo componente.
Massima

Il singolo amministratore che sia stato revocato non ha il potere di impugnare le deliberazioni assembleari che non siano state assunte in conformità alla legge, attesto che tale potere è per legge attribuito agli “amministratori” per la tutela degli interessi sociali e che pertanto, in una società retta da un consiglio di amministrazione, la legittimazione spetta all'organo nel suo complesso e non ad ogni suo componente.

Il singolo amministratore, tuttavia, deve considerarsi legittimato ad agire per far valere la mancanza della giusta causa della deliberazione di revoca, ai soli fini risarcitori e non ripristinatori.

Il caso

Un Amministratore di una Banca aveva convenuto la Società avanti al Giudice di prime cure, al fine di ottenere l'annullamento della delibera assembleare con la quale veniva stabilita la sua revoca dalla carica di Consigliere della Società medesima.

Successivamente, il revocato amministratore, manente il giudizio di merito, richiedeva in via cautelare, innanzi al Tribunale di Roma, la sospensione dell'esecuzione della deliberazione assembleare di revoca, ai sensi dell'art. 2378 c.c.

In via subordinata, l'attore richiedeva, altresì, la sospensione dell'efficacia della medesima delibera, ai sensi dell'art. 700 c.p.c.

La Società costituitasi anche nel giudizio cautelare, chiedeva il rigetto del ricorso.

Il Giudice di prime cure, con ordinanza rigettava la domanda, assumendo a corollario della sua decisione, la circostanza per cui il ricorrente non avrebbe alcuna legittimazione attiva ad impugnare la delibera assembleare, né alcuno dei vizi lamentati può ricondursi ad una delle, residuali, ipotesi di nullità della delibera di cui all'art. 2379 c.c.

Le questioni

Il provvedimento oggetto del presente contributo, consente di affrontare una tematica particolarmente interessante e relativa alla legittimazione attiva degli amministratori delle società di capitali, guardando in special modo alla disciplina della società per azioni.

In linea generale, ampliando per un attimo il nostro campo visivo, si può senza timore di smentita, affermare che uno dei cardini su cui è incentrato il sistema del diritto societario post riforma del 2003, è il regime di responsabilità degli amministratori.

Il legislatore, infatti, ha trasformato l'amministratore da semplice gestore a “controllore” della società e, di conseguenza, ha necessariamente ampliato le ipotesi di legittimazione attiva di questa figura.

Esaurita la premessa di carattere generale e prendendo spunto dal provvedimento in oggetto, giunge il momento compiere qualche riflessione sull'attribuzione in capo agli amministratori della titolarità dell'azione di impugnazione delle delibere assembleari ai sensi dell'art. 2377 c.c., già prevista in capo ai soci, dissenzienti, astenuti o assenti, nonché al collegio sindacale.

I vizi di natura procedimentali, oggetto di disciplina della norma ora citata, sono in vero ricondotti, tradizionalmente, alla categoria dell'annullamento.

Affinchè possa riscontrarsi un'ipotesi di nullità, allora, è necessario che la delibera abbia oggetto illecito, impossibile, oppure che ricorra la fattispecie della mancata convocazione o della mancanza del verbale.

Il nuovo impianto codicistico, pertanto, esprime l'idea del legislatore di promuovere a regola generale l'annullamento, relegando, di contro, a categoria residuale la nullità delle deliberazioni (per le S.r.l., analoga disposizione è contenuta nell'art. 2479-ter c.c.).

Tutto ciò ha un diretto rilievo sulla disciplina della legittimazione attiva, in quanto solo nell'ipotesi di nullità – da ultimo delineata – la legittimazione all'impugnazione spetterebbe a chiunque vi abbia interesse.

Con l'art. 2377 c.c. il Legislatore non ha utilizzato espressioni felici (cfr ZANARONE, L'invalidità delle deliberazioni assembleari, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo – Portale, Torino, 1993, 219), provocando nell'interprete dubbi interpretativi circa la possibilità di riconoscere la titolarità dell'azione di annullamento al singolo amministratore, stante l'utilizzo della generica espressione “amministratori”. Secondo la dottrina nella detta espressione, è verosimile ricomprendere tutti gli organi di amministrazione, qualunque sia il modello adottato (cfr. F. CHIAPPETTA, Art. 2377 c.c.¸in Commentario alla riforma delle società, diretto da P. MARCHETTI-L.A. BIANCHI-F. GHEZZI- M. NOTARI, Milano, 2008, 272).

Così argomentando, allora, la ratio legis dovrebbe rintracciarsi a seguito di una interpretazione sistematica della normativa di governance e di controllo.

Il riferimento non può che andare ad una lettura combinata dell'art. 2377 c.c. con l'art. 223-septies disp. att. c.c. che equipara gli amministratori ai sindaci imponendo – quando possibile – l'applicazione analogica delle norme che a questi si riferiscono, anche agli altri organi di controllo (cfr. in dottrina SACCHI E VICARI, Invalidità delle deliberazioni assembleari, in Cagnasso e Panzani (a cura di), Le nuove S.p.a., Bologna, 2010, 654; O. CAGNASSO, L'amministratore collegiale e delega, in Trattato Colombo – Portale, vol IV, 256).

Se questa è la premessa, il corollario deve quindi risultare: così come viene espressamente esclusa la legittimazione attiva dei sindaci in forma non collegiale, allora anche quella del singolo amministratore deve essere negata.

In accordo con autorevole dottrina, il riferimento agli “amministratori” non deve essere letto come volontà del legislatore di introdurre una legittimazione disgiuntiva, ma come espressione generica volta a ricomprendere ogni modello di amministrazione.

Diversamente argomentando, si avrebbe una disparità di trattamento di difficile comprensione: sarebbe ingiustificata una regola diversa per gli organi di gestione rispetto agli organi di controllo, i quali, soli, avrebbero legittimazione ad impugnare esclusivamente nella loro collegialità. (cfr. V. SALAFIA, L'invalidità delle deliberazioni assembleari nella riforma societaria, in Società, 2003, 1177).

L'orientamento giurisprudenziale, che il provvedimento oggetto del presente lavoro segue, anche alla luce delle considerazioni che precedono, afferma che la legittimazione attiva degli amministratori deve riferirsi all'organo collegialmente inteso (cfr. sul punto Trib. Milano 21 ottobre 2005, Giur.it, n. 6/06, 1208; Trib. Milano 29 novembre 2011, in www.giurisprudenzadelleimprese.it).

La legittimazione degli amministratori ad impugnare deliberazioni assembleari si fonda, allora, sull'esigenza di tutela dell'interesse generale alla legalità societaria (cfr. Trib Roma, 1 ottobre 2013, n. 54413) e, pertanto, la forma più adatta di proposizione dell'azione non può che essere quella collegiale.

A quanto fin qui affermato, non può certo evitarsi un cenno alla statuizione della Suprema Corte di Cassazione che, con un suo obiter dictum, consente, brevemente, di affrontare il tema della legittimazione attiva sotto altro profilo.

Il riferimento va alla sentenza n. 259/2010, nella quale viene confermato il prevalente orientamento secondo cui la deliberazione assunta dall'assemblea non può essere impugnata dal singolo amministratore, stante la carenza di legittimazione a riguardo e posto che il potere di agire, in conformità alla legge, spetta al consiglio di amministrazione, “salvo che il consigliere sia stato immediatamente leso in un suo diritto dalla deliberazione”.

La Corte di Cassazione, ad una prima lettura del citato arresto, sembrerebbe aprire le porte ad una legittimazione in capo al singolo amministratore, così interpretando la locuzione “gli amministratori” non nel senso collegiale, ma individuale dei suoi componenti.

Con una più attenta lettura, e ben si comporta il Tribunale con il provvedimento in disamina, si può valutare quale sia il reale interesse leso dall'atto la cui impugnazione si discute.

L'art. 2383 c.c., infatti, ammette la revoca ad nutum dei singoli amministratori con decisione assembleare, ma questo esclude una tutela del diritto dell'amministratore a mantenere o essere reintegrato nella carica, stante la volontà del legislatore di garantire il rapporto fiduciario tra gestori e Assemblea (cfr. MINERVINI, Gli amministratori di società per azioni, Milano, Giuffrè, 1956, 470; AMBRIANI-MONTALENTI, L'amministrazione: vicende del rapporto, poteri, deleghe e invalidità delle deliberazioni, in Le società per azioni, Ambriani-Ambrosini-Cagnasso-Montalenti, Padova, 2010, 596)

L'unico interesse dell'amministratore, che può ritenersi meritevole di tutela, è il diritto al compenso per il lavoro svolto (cfr. in tal senso F. BONELLI, Gli amministratori delle società dopo la riforma, Milano, Giuffrè, 2004, 99.). Ne consegue, come anche affermato dal Tribunale di Roma in oggetto, che l'amministratore illegittimamente revocato, può essere tutelato solo sul piano risarcitorio.

In altri termini, se i soci sono titolari di un potere di revoca discrezionale, il cui errato o abusato esercizio impone l'obbligo risarcitorio, è per forza conseguente l'impossibilità di ipotizzare in capo all'amministratore un diritto al mantenimento dell'incarico e quindi una tutela reale.

L'unica impugnazione da riconoscere individualmente al singolo amministratore revocato, non riguarda la validità della deliberazione, ma esclusivamente la possibilità di far valere la tutela risarcitoria in caso di assenza di giusta causa della revoca.

Da quanto sopra esposto può, pertanto, affermarsi che l'unica legittimazione attiva che spetta all'amministratore – anche se revocato – è quella volta ad impugnare la delibera sotto il mero profilo della mancanza della giusta causa, il tutto ai soli fini risarcitori e non ripristinatori, svuotandosi altrimenti il contenuto dell'art. 2383 c.c.

Conclusioni

Quando si tratta di legittimazione attiva dell'amministratore, è opportuno operare una distinzione.

Qualora si discuta sulla legittimazione del singolo amministratore a far valere vizi assembleari, non riconducibili alla nullità della decisione, non può che concludersi, in accordo con il provvedimento del Tribunale in esame, per la carenza dell'attore all'impugnazione, salvo che la delibera sia direttamente lesiva della posizione dell'amministratore uti singulus.

È proprio questo l'unico caso in cui è possibile riconoscere una legittimazione attiva al singolo amministratore, quando cioè la domanda sia volta alla tutela, sul piano risarcitorio, di un proprio diritto.

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