La riservatezza in tema di mediazione
23 Ottobre 2018
Massima
Il principio di riservatezza riguarda le sole dichiarazioni delle parti riferite al contenuto sostanziale dell'incontro di mediazione e, cioè, al merito della lite e non, invece, la fase preliminare finalizzata alla identificazione delle parti, dei loro delegati e difensori. Nel processo è, pertanto, consentito a tale fine non solo l'utilizzo del verbale, ma anche la prova orale e la stessa testimonianza del mediatore volta ad accertare la partecipazione delle parti al procedimento, tutte le volte in cui il verbale di mediazione risulti lacunoso o il mediatore non abbia correttamente e dettagliatamente trascritto tutte le circostanze inerenti la partecipazione dei soggetti. Il caso
Dinanzi al tribunale di Udine il convenuto sollevava eccezione di improcedibilità della domanda attorea per la mancata presenza personale dell'attrice all'incontro di mediazione. Sorgeva, pertanto, la necessità di verificare, attesa la lacunosità del verbale, se il delegato della parte attrice avesse effettivamente esibito una procura speciale nonchè l'assenso prestato dalla controparte alla partecipazione all'incontro del soggetto delegato. Il giudice, rilevato che il fatto materiale della presenza del delegato non era contestato, mentre lo era l'avvenuta esibizione in quella sede della procura, e mancando nel verbale ogni riferimento al consenso espresso da tutte le parti a considerare il terzo come delegato dell'attrice, ammetteva sul punto l'esame testimoniale del mediatore e dell'assistente tirocinante. La questione
La pronuncia in commento, esaminando la problematica della utilizzabilità in giudizio del verbale di mediazione e della ammissibilità della prova testimoniale su quanto accaduto nel procedimento, approfondisce il contenuto e i limiti del principio di riservatezza di cui all'art.10 del d.lgs. n.28/2010. Il cd. dovere di riservatezza costituisce un argomento critico nei rapporti tra mediazione e processo. L'art.9 d.lgs. n.28/2010 ne disciplina gli aspetti sostanziali prevedendo quale principale obbligazione del mediatore (come di «chiunque presta la propria opera e il proprio servizio nell'organismo o comunque nell'ambito della procedura di mediazione») il mantenimento della riservatezza in ordine alle dichiarazioni rese e alle informazioni acquisite nel corso del tentativo di conciliazione. La ratio dell'imposizione di un regime di segretezza va individuata nella necessità di favorire quanto più possibile l'instaurazione, tra le parti presenti nel procedimento di mediazione, di un clima di libero, leale e sincero confronto e discussione – nelle sessioni congiunte e in quelle separate con il mediatore – tale da consentire ad ognuna di esse di aprirsi senza remore e timori, e di esporre il rispettivo punto di vista, con le relative aspettative e richieste, con una disponibilità propiziata ed agevolata dalla consapevolezza della non utilizzabilità (altrove), in difetto di consenso, delle dichiarazioni rese nella cd. black box della mediazione. L'art. 10 – rubricato “inutilizzabilità e segreto professionale” – disciplina la riservatezza sul versante processuale prevedendo accanto all'obbligo di non pubblicare le informazioni e le dichiarazioni rese nel corso del procedimento, un regime complementare di inutilizzabilità probatoria dell'informazione, tutelato attraverso l'estensione delle norme del codice di procedura e relative al segreto professionale. Per espressa previsione legislativa al mediatore si applicano le disposizioni dell'art. 200 c.p.p. e si estendono le garanzie previste per il difensore dalle disposizioni dell'art. 103 c.p.p. in quanto applicabili. Le eccezioni alla garanzia della riservatezza riguardano i seguenti casi, in presenza dei quali la stessa riservatezza non si ritiene operante: a) in presenza di un obbligo di legge che impone al mediatore di non applicare la riservatezza; b) nel caso in cui sussista un pericolo per la vita e l'integrità fisica e psicologica delle persone e dei bambini; c) in presenza di superiori esigenze di ordine pubblico; d) nel caso in cui le parti e il mediatore, di comune accordo, dichiarino di rinunciare alla riservatezza del procedimento. Con riferimento a detta ultima ipotesi, va puntualizzato che le norme sulla riservatezza delle informazioni e dichiarazioni rese in sede di mediazione sono state introdotte a tutela delle parti e quindi formano oggetto di un diritto disponibile, cui la parte può derogare rientrando pienamente nella disponibilità negoziale. Effettivamente è possibile che, nel caso delle sessioni separate, la parte autorizzi il mediatore a comunicare all'altra il contenuto delle dichiarazioni e delle informazioni o che nel caso di un successivo processo siano utilizzabili le dichiarazioni rese o le informazioni acquisite nel corso del procedimento di mediazione se vi è il consenso della parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni o, infine, che di comune accordo (ad es. imprese note al pubblico) le parti consentano, ad esempio per un fatto d'immagine o per pubblicità, la divulgazione erga omnes dell'esistenza del procedimento e dell'accordo. In conclusione, la prevista inutilizzabilità implica il divieto per il giudice di tenere conto di quelle informazioni e dichiarazioni, ai fini del proprio convincimento. Ne discende che le dichiarazioni e informazioni acquisite nel corso di detto procedimento non potranno essere utilizzate nel giudizio avente «il medesimo contenuto anche parziale , iniziato, riassunto o proseguito dopo l'insuccesso della mediazione, salvo consenso della parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni. Sul contenuto delle stesse dichiarazioni e informazioni non è ammessa prova testimoniale e non può essere deferito giuramento decisorio». Le soluzioni giuridiche
Già nell'ordinanza resa dal tribunale di Roma, del 25 gennaio 2016, giudice dott. Moriconi si precisava il “perimetro” del menzionato principio di riservatezza con argomentazioni che si ritrovano nella decisione in commento. Emerge, in particolare, come il principio di riservatezza che governa le dichiarazioni delle parti in mediazione, proprio in quanto finalizzato a tutelare la libertà di dialogo dei litiganti, deve essere riferito al solo contenuto sostanziale dell'incontro di mediazione, vale a dire al merito della lite non già a circostanze che attengono alle modalità di partecipazione delle parti alla procedura e/o allo svolgimento della stessa. Né potrebbe essere diversamente atteso che la verbalizzazione in sede di mediazione è necessaria per consentire al giudice di verificare la condotta delle parti, indispensabile in relazione alle previsioni del d.lgs. n. 28/2010 con riferimento alla procedibilità delle domande e, quindi, per sanzionare la eventuale mancata o irrituale partecipazione al procedimento. Sarebbe infatti una “aporia” assoluta prevedere che il giudice possa giungere ad una dichiarazione di improcedibilità della domanda o applicare la sanzione pecuniaria di cui all'art. 8 comma 4-bisd.lgs. n.28/2010 senza poter conoscere e valutare le circostanze fattuali e che tale irritualità integrano. Per tali ragioni il mediatore deve trascrivere ogni circostanza, quand'anche consistente in dichiarazioni delle parti, utile a consentire al giudice le valutazioni di competenza, e ove ciò non avvenga , sarà ammissibile una prova finalizzata alla ricostruzione dello svolgimento dei fatti eventualmente non verbalizzati dal mediatore. Così la parte che rifiuta di proseguire può esporne la ragione, chiedendo che venga trascritta, con il relativo obbligo per il mediatore di verbalizzarla. Il tribunale di Udine trae le conseguenze dei suesposti principi, ribadendo che il principio di riservatezza non può essere applicato alla fase preliminare della procedura, volta alla identificazione delle parti, dei loro delegati e difensori: necessaria al mediatore per verificare se vi siano i presupposti soggettivi per dar corso alla procedura di mediazione, e, quindi, all'informativa di cui al primo comma dell'art.8 del d.lgs. n.28/2010. Nel caso risolto dal tribunale di Roma con l'ordinanza del 14 dicembre 2015 veniva contestato all'avvocato di parte attrice la violazione del principio di riservatezza poiché aveva riportato nel verbale di udienza il contenuto di alcune PEC e dei verbali di mediazione, per evidenziare le motivazioni dell'assenza di alcune delle parti chiamate in mediazione. Il giudice, pur ricordando che il procedimento di mediazione è improntato alla riservatezza, ha affermato la liceità del comportamento del legale che al fine di evidenziale il comportamento irrituale assunto da alcune delle parti assenti in mediazione, aveva riportato nel verbale di udienza il contenuto delle loro posizioni limitatamente alle ragioni della mancata partecipazione e alle ragioni difensive che ne impedivano la conciliazione. Dette posizioni, secondo il giudice, poiché riferibili a circostanze che attengono alla possibilità di valutare la ritualità (o meno) della partecipazione (o della mancata partecipazione) delle parti al procedimento di mediazione, sono lecite, proprio perché necessarie a fornire al magistrato la corretta conoscenza delle posizioni assunte dalle parti e valutabili ai fini dell'applicazione delle sanzioni del caso (art.96 c.p.c. e art. 8, comma 4, d.lgs. n. 28/2010 secondo cui: «…Il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall'articolo 5, non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all'entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio»). Viceversa, è da considerarsi illecita l'eventuale trasposizione nel verbale di udienza delle dichiarazioni rilasciate dalle parti durante la mediazione e riferibili al contenuto sostanziale dell'incontro di mediazione. In precedenza – ord. 17.3.2014 – il medesimo tribunale capitolino, esaminando la questione della utilizzabilità in sede giudiziaria di un accertamento tecnico svolto in mediazione, aveva ritenuto che il risultato tecnico-specialistico del perito (o dell'esperto) non fosse da ritenere coperto dalla riservatezza che permea le dichiarazioni e informazioni fornite dalle parti in seno alla mediazione. Si legge nel provvedimento che i divieti previsti dalla legge hanno per oggetto esclusivamente le dichiarazioni delle parti (di cui le informazioni – di cui pleonasticamente parla la legge – sono solo uno dei possibili contenuti). Mentre l'attività del consulente in mediazione, all'esito degli accertamenti che il tecnico compie (che non potranno consistere nel raccogliere e riportare dichiarazioni delle parti o informazioni provenienti dalle stesse, perché questo non è un suo compito) si estrinseca (ed esaurisce) nella motivata esposizione dei risultati degli accertamenti tecnico-specialistici. Sulla traccia della citata pronunzia, con particolare riferimento alla producibilità in giudizio dei verbali (anche intermedi) di mediazione il tribunale di Roma, sez. VI, ord., 26 gennaio 2017 (dott. Nardone) si è pronunciato in senso favorevole, trattandosi di attività finalizzata a provare “fatti”. Parimenti per i documenti già prodotti in mediazione e, riproducibili nel successivo giudizio in giudizio in quanto prove ”precostituite” formatesi in un momento antecedente la mediazione. Senza contare che, diversamente ragionando, si arriverebbe all'assurdo di rendere del tutto inutile, la mediazione se l'effetto di qualunque produzione documentale effettuata in seno al procedimento conciliativo fosse quello di “bruciare” per la parte la possibilità di utilizzare il medesimo documento, a fini probatori, nel successivo giudizio contenzioso che la mediazione non fosse riuscita ad evitare. Osservazioni
La decisione in commento offre lo spunto per ribadire, indirettamente, come, da una parte, l'interesse alla riservatezza giochi un ruolo preponderante, se non esclusivo, al fine della conciliazione, assicurando o, almeno, facilitando il più possibile il raggiungimento dell'accordo, dall'altra, quanto sia forte la tendenza ad una “processualizzazione” dell'istituto che talvolta si percepisce anche in alcuni provvedimenti giudiziari. In una recente ordinanza del tribunale di Firenze, sez.III, 17 febbraio 2017 (Dr. Mazzarelli) il giudice, oltre ad invitare le parti a promuovere il procedimento di mediazione “demandata” ai sensi dell'art. 5, comma 2, d.lgs.n. 28/2010, ha posto in capo alle medesime l'onere di depositare, all'esito del procedimento di mediazione, una nota informativa a contenuto vincolato comunicando non solo «l'esito della mediazione» ma anche informazioni «in merito all'eventuale mancata (fattiva) partecipazione delle parti (sostanziali) senza giustificato motivo…in merito alle eventuali ragioni di natura preliminare che hanno impedito l'avvio dell'effettivo procedimento di mediazione… anche ai fini del regolamento delle spese processuali» nonché , si aggiunge «in merito ai motivi del rifiuto dell'eventuale proposta di conciliazione formulata dal mediatore». Le informazioni in ordine all'effettiva partecipazione al procedimento delle parti sostanziali sono coerenti con l'impostazione, ormai diffusa, nella giurisprudenza di merito, postulante la necessaria partecipazione personale delle parti al procedimento di mediazione (in questi termini, Trib. Firenze, 23 novembre 2016; Trib. Roma, 29 settembre 2016; Trib. Pavia, 26 settembre 2016; Trib. Vasto, 23 aprile 2016; Trib. Firenze, 19 marzo 2014; Trib. Verona, 28 settembre 2016). Così la relazione circa i motivi della mancata partecipazione al procedimento è stato disposto ai fini dell'eventuale applicazione delle sanzioni previste dall'art. 4-bis, d.lgs. n.28/2010. Non si condivide, invece, la richiesta di indicare le motivazioni che hanno portato al rifiuto della proposta conciliativa eventualmente formulata dal mediatore. Da una parte, infatti, l'art. 13, d.lgs. n.28/2010, che introduce un meccanismo per cui se la parte vittoriosa all'esito del giudizio ha rifiutato in mediazione una proposta il cui contenuto è del tutto analogo a quello della pronuncia giudiziale, il giudice esclude comunque la ripetizione delle spese, opera automaticamente, senza discrezionalità alcuna da parte del giudicante. Dall'altra sembra in contrasto proprio con l'art. 11 del d.lgs. n.28/10 che, in ossequio al principio di riservatezza, stabilisce che «Le parti fanno pervenire al mediatore, per iscritto ed entro sette giorni, l'accettazione o il rifiuto della proposta» e, ancora, che «Salvo diverso accordo delle parti, la proposta non può contenere alcun riferimento alle dichiarazioni rese o alle informazioni acquisite nel corso del procedimento». Richiedendo la legge che il verbale riporti la proposta del Mediatore scevra delle dichiarazioni rese dai mediandi e la mera dichiarazione degli stessi di accettazione o rifiuto della stessa. Diversamente le parti sarebbero private di quell'arma che invece è la vera forza dell'Istituto: la sicurezza, cioè, che tutto quanto verrà detto nella Stanza di Mediazione, non ne uscirà come invece, sarebbe, ove dovessero “dare conto”, finanche al giudice, delle ragioni del rifiuto dell'eventuale proposta. Tanto più che non potendo pretendere una verbalizzazione del mediatore sul punto, ciascuno potrebbe dare una propria versione dei fatti, senza che sia possibile verificare in giudizio quale sia quella esatta, posto che l'art. 10 dispone che «Sulle stesse dichiarazioni e informazioni non è ammessa prova testimoniale e non può essere deferito giuramento decisorio».
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