La Cassazione interviene sulla corruzione del senatore affinché voti in contrasto con la linea del proprio gruppo
25 Ottobre 2018
Massima
Nei confronti del parlamentare, che riveste qualifica di pubblico ufficiale, non è configurabile il reato di corruzione ex artt. 319 – 321 c.p. per atto contrario ai doveri di ufficio con riferimento alle sue tipiche attività perché, essendo queste disciplinate in via esclusiva dal diritto parlamentare, non possono essere oggetto del sindacato giurisdizionale per valutarne la contrarietà o meno a detti doveri. È configurabile , invece, il reato di corruzione per l'esercizio della funzione ex art. 318 c.p. nel caso in cui riceva una indebita remunerazione per l'esercizio del proprio ufficio, non essendo in questione in tale caso la regolarità dei singoli atti di esercizio della funzione.
Il caso
La Corte interviene nella vicenda, di ampia notorietà per la sua eco giornalistica, consistita nella condotta dell'allora capo dell'opposizione che, in cambio di una ragguardevole somma di denaro, aveva “acquistato” la disponibilità di un senatore della maggioranza, perché costui esprimesse i propri voti contro la propria parte politica per contribuire alla caduta del governo. Nel corso del processo si era discusso in ordine alla qualifica soggettiva del parlamentare e alla possibilità di sindacarne l'attività, protetta da immunità ex art. 68 Cost. Secondo i giudici di merito, che avevano accolto la tesi dell'accusa, il fatto integrava una condotta di corruzione propria ex artt. 319 e 321 c.p.: l'oggetto dell'accordo, difatti, era consistito nella promessa di atti contrari ai doveri di ufficio, consistenti nella violazione del divieto di “mandato imperativo” ex art. 67 Cost. Violato tale impegno primario, non era poi necessario valutare il carattere dei singoli atti (voti etc.), in tale modo risultando superata la questione della (in)sindacabilità delle scelte. La Corte di cassazione, che ha deciso ai soli fini della responsabilità civile essendo nel frattempo il reato caduto in prescrizione, nel confermare la possibilità di configurare il ruolo di pubblico ufficiale del membro del parlamento, ha invece qualificato diversamente il fatto. Ha difatti escluso la possibilità di individuare la violazione di specifici doveri di ufficio, in particolare negando che vi sia una regola di divieto di “mandato imperativo” perché la norma dell'art. 67 Cost. non è un precetto diretto nei confronti del parlamentare, ed ha ritenuto che fosse integrato il reato di cui all'art. 318 c.p. quale corruzione per la vendita della funzione. La questione
Il tema fondamentale, affrontato nella sentenza in commento, è quello dell'individuazione dell'ambito nel quale, pur a fronte dell'accertata pattuizione per un determinato modo di esercizio del mandato, l'attività del parlamentare possa essere oggetto di sindacato in sede giurisdizionale e sulla base di quali parametri. Le questioni hanno quindi riguardato:
Le soluzioni giuridiche
La prima questione risolta riguarda la qualificazione soggettiva e l'ambito delle attività per la quale questa rilevi, tenuto conto dei vari compiti del parlamentare, non limitati alla partecipazione alla formazione delle leggi. La sentenza afferma che il parlamentare riveste la qualifica di pubblico ufficiale con riferimento alla sua complessiva attività (peraltro nel caso esaminato, oltre che senatore “semplice”, l'imputato rivestiva anche il ruolo di presidente della Commissione giustizia). Al riguardo, rileva innanzitutto il dato testuale in quanto l'art. 357 c.p. fa espresso riferimento allo svolgimento della funzione legislativa. Questa va interpretata in senso ampio, poiché la norma richiama evidentemente la tradizionale tripartizione dei poteri (pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa), per cui fa riferimento al complesso delle funzioni del potere legislativo: ovvero, la disposizione non intende limitare la funzione all'ambito strettamente inerenti al procedimento di formazione delle leggi, ma più in generale allo svolgimento di tutte le attività disciplinate dai regolamenti parlamentari. La sentenza rileva anche che, comunque, pur volendo ritenere un ambito ristretto della funzione legislativa, è evidente che si è sempre nell'ambito della pubblica funzione o pubblico servizio in senso lato poiché nessuno dei compiti connessi alla carica è riducibile all'espletamento di mansioni d'ordine o di prestazione d'opera materiale che, secondo la norma dell'art. 358 c.p., rappresenta il limite del ruolo pubblicistico. Alquanto complesse le soluzioni individuate in ordine al tema centrale, sia quanto alla esclusione della configurabilità della corruzione propria che, poi, alla configurabilità della corruzione impropria per la pattuizione sull'esercizio della funzione. Vi sono innanzitutto le varie ragioni che hanno portato i giudici di legittimità a negare la configurabilità del reato di corruzione ex artt. 319 e 321 c.p. per atto contrario ai doveri di ufficio:
In definitiva, il combinato disposto degli artt. 64, 67 e 68 Cost. comporta che il reato di corruzione propria quale “messa a disposizione della discrezionalità del parlamentare” non è mai configurabile perché la condotta di esercizio della funzione parlamentare per le varie ragioni dette non può essere oggetto di valutazione in sede giurisdizionale. La Corte di cassazione afferma, invece, che nel caso in questione, sia configurabile la corruzione impropria ai sensi del previgente art. 318, comma 1, c.p. in relazione all'art. 321 c.p., fatto tuttora sussumibile anche nella fattispecie delineata dal novellato art. 318 c.p. quale corruzione per l'esercizio delle funzioni. La sentenza ricostruisce, in piena adesione alla interpretazione corrente, la ipotesi di corruzione caratterizzata dalla mera pattuizione avente a oggetto lo svolgimento dell'attività del pubblico ufficiale, indipendentemente dal compimento di determinati atti. Considera, per quanto utile al caso di specie, che tale forma di corruzione, pur se è collegata alla attività di ufficio, riguarda il divieto “esterno” di non accettare una retribuzione per l'esercizio della funzione e non la violazione del dovere “interno” di rispetto delle regole di formazione dell'atto; questo, del resto, ben può essere il medesimo che sarebbe stato comunque adottato anche se non vi fosse stata la remunerazione dell'attività. Sulla scorta di tale ricostruzione giuridica, la Corte afferma che nel caso in esame viene in questione un comportamento che deve essere valutato secondo le regole ordinarie perché si è al di fuori dell'ambito disciplinato dai regolamenti parlamentari. Infatti oggetto della sanzione è la situazione di pericolo consistente nella pattuizione in sè rispetto all'esercizio della funzione indipendentemente da qualsiasi modalità del suo svolgimento. In pratica, ciò che viene sanzionato non è quella parte di condotta del parlamentare che è tutelata dalla immunità ovvero il libero esercizio delle attività di parlamentare. Ciò che viene sanzionato è, invece la violazione del divieto di remunerazione del munus publicum, che è un dovere esterno riferito ad ogni soggetto investito di pubbliche funzioni, tenuto a svolgerle con onore e disciplina, ai sensi dell'art. 54 Cost. Osservazioni
La decisione trova vari ed autorevoli precedenti sostanzialmente conformi nell'affrontare il tema della insindacabilità delle attività del parlamentare. Di particolare rilievo è la esistenza di decisioni della Corte Costituzionale sulle questioni principali, in un caso in cui la diversa qualificazione del fatto è inevitabilmente legata ad un diverso equilibrio nel confine tra attività parlamentare ed esercizio della giurisdizione. Innanzitutto, la sentenza in esame ha fatto riferimento, adeguandosi pienamente, alla sentenza Corte cost. n. 379 del 1996. Questa interveniva in sede di conflitto di attribuzione con la A.G. che intendeva procedere nei confronti di deputati “pianisti” (che votavano per conto di colleghi assenti) per reati di falso ed affermava che tali «[…] comportamenti dei membri della Camera […] sono tutti esaustivamente qualificabili alla luce del diritto parlamentare [...]», così fissando un fondamentale principio: qualsiasi comportamento/attività disciplinato dai regolamenti parlamentari non può essere in alcun modo sindacato in sede giurisdizionale. Quindi, la immunità parlamentare tutela in generale anche atti non tipizzati purché connessi alla funzione parlamentare. L'odierna sentenza fa, poi, ampio riferimento, con piena adesione, a un precedente in termini della stessa Corte (Cass. pen., n. 36769/2017) che, in un caso di un deputato corrotto per prestare un dato voto in sede di Consiglio d'Europa – che, peraltro, era un tipico caso di attività non collegata al procedimento di formazione delle leggi -, aveva affermato la impossibilità di sindacare in sé l'atto (il “voto” venduto) ma ritenuto possibile sanzionare l'ottenimento di una remunerazione per lo svolgimento della funzione. E' interessante la lettura della sentenza nella parte in cui, nel trattare il tema del confine tra autonomia del parlamento e giurisdizione penale, riporta anche il punto di vista di un componente della camera che ebbe ad intervenire su una autorizzazione a procedere (negata in un caso di corruzione di un parlamentare perché promuovesse un disegno di legge). È così stato ben rappresentato quali timori impedivano di consentire un ampliamento degli spazi delle condotte giudicabili secondo diritto ”comune” pur a fronte di una ben percepibile grave vicenda di corruzione: si intendeva evitare, ad ogni costo, un sindacato eccessivo sui motivi della attività legislativa rappresentandosi quale principio fondamentale l'esclusiva competenza del parlamento per lo svolgimento di una indagine sui motivi di un atto parlamentare tipico. È quindi chiara la rilevanza del tema in oggetto, dovendosi garantire la libertà del parlamentare anche a fronte di condotte indiscutibilmente prima facie illecite e non immediatamente giustificabili con i parametri delle libertà politiche. In definitiva, la soluzione adottata dalla Corte di cassazione con la sentenza in esame ha indiscutibilmente il pregio di individuare il profilo sanzionabile in una condotta che obiettivamente mal si prestava alla indifferenza penale evitando, però, qualsiasi interferenza nella valutazione di opportunità di singoli atti per i quali è evidente l'assenza di parametri di legittimità; a prescindere dalla regola dell' immunità, difatti, era difficile ipotizzare un parametro per potere affermare come l'imputato avrebbe dovuto esprimere i propri voti per non violare i doveri di ufficio. La soluzione proposta dai giudici di merito, difatti, solo apparentemente individuava una violazione rispetto a cui il merito dei singoli voti in aula era indifferente: affermare che vi era un “mandato imperativo” comportava che, per dimostrarlo, era necessario valutare le ragioni del parlamentare per ogni singolo voto. Ovvero proprio ciò che, come risulta dai principi generali riportati, deve essere evitato per evitare l'indagine sui motivi della attività legislativa. AMATO., Piero Alberto Capotosti e l'immunità parlamentare, 47, in Liber amicorum di Piero Alberto Capotosti, Bari, 2016, VALENTINI, Immunità parlamentari [aggiornamento-2013], in Digesto pen., Torino, 326 CIAURRO, Immunità parlamentari, in Rass. parlamentare, 2011, 1033 SABATINI, La Cassazione si pronuncia nuovamente sulla natura giuridica dell'immunità parlamentare (nota a Cass. pen., sez. V, 5 marzo 2010, n. 13198, Belpietro), in Cass. pen., 2011, 1008 CAMPEIS, La controversa natura dell'immunità parlamentare: scriminante o causa di esclusione della punibilità? (nota a Cass., sez. V, 15 febbraio 2008, Rutelli), in Giust. pen., 2008, II, 549 FORGIONE, Alcune considerazioni sulla natura giuridica delle cause d'immunità (nota a Cass., sez. V, 27 ottobre 2006, Boccassini), in Cass. pen., 2008, 1386 |