La responsabilità degli amministratori per prosecuzione dell’attività d’impresa dopo la perdita di capitale sociale

Martino Liva
30 Ottobre 2018

L'organo amministrativo è tenuto a una vigilanza costante sulla sussistenza di una causa di scioglimento della società e, in particolare (per le società a responsabilità limitata), sull'accertamento delle fattispecie di cui agli artt. 2482-bis e 2482-ter c.c., che possono verificarsi, e normalmente si verificano, non solo al termine dell'esercizio, ma anche nel corso di esso. Una volta accertata l'esistenza di una perdita per oltre un terzo del capitale sociale, gli amministratori devono limitare gli atti gestori alla sola conservazione dell'impresa e convocare «senza indugio» l'assemblea.
Massima

L'organo amministrativo è tenuto a una vigilanza costante sulla sussistenza di una causa di scioglimento della società e, in particolare (per le società a responsabilità limitata), sull'accertamento delle fattispecie di cui agli artt. 2482-bis e 2482-ter c.c., che possono verificarsi, e normalmente si verificano, non solo al termine dell'esercizio, ma anche nel corso di esso. Una volta accertata l'esistenza di una perdita per oltre un terzo del capitale sociale, gli amministratori devono limitare gli atti gestori alla sola conservazione dell'impresa e convocare «senza indugio» l'assemblea.

L'Amministratore che, in costanza di perdite per oltre un terzo del capitale sociale prosegue l'attività, causando una totale perdita del patrimonio sociale, è responsabile del risarcimento del danno verso la società, da calcolare sulla base del c.d. criterio della differenza dei patrimoni netti; tuttavia non è anche "automaticamente" responsabile nei confronti del socio che abbia chiesto un risarcimento per danno diretto nei suoi confronti, ai sensi dell'art. 2476, comma 6, c.c., trattandosi di tipologie di danno ontologicamente diverse, non potendo infatti il danno diretto del socio essere quantificato come una misura percentuale del danno occorso alla società.

Il caso

Il caso oggetto della sentenza del Tribunale di Roma in esame, causato dalla citazione in giudizio da parte di un socio nei confronti dell'ex amministratore unico (e socio) e del liquidatore della società, trae origine dal dissesto patrimoniale e finanziario di una società a responsabilità limitata che, dopo essersi trovata nella condizione di integrale erosione del capitale, aveva poi provveduto - con ritardo - a convocare i soci in assemblea ex art. 2482-ter c.c. e, in assenza di ricapitalizzazione, deliberare la propria liquidazione volontaria con nomina di un liquidatore il quale, dopo alcuni mesi di inerzia, aveva fatto ricorso per la nomina di un liquidatore giudiziale.

Il Tribunale - con l'ausilio del consulente tecnico e sulla base delle scritture contabili - ha calcolato il reddito operativo mensile della società (confronto mensile tra costi e ricavi), per risalire al momento in cui si è verificata l'erosione del capitale per oltre un terzo per perdite, ravvisando una responsabilità dell'amministratore unico per aver omesso di convocare «senza indugio» l'assemblea (la perdita del capitale è stata infatti ravvista nel giugno 2010 e la convocazione dell'assemblea ex art. 2482-ter c.c. solo il 29 dicembre 2010), e aver continuato l'attività di impresa, nonostante la situazione non lo consentisse.

Per la valutazione del danno verso la società, il Tribunale ha utilizzato il cd. metodo della differenza dei patrimoni netti (contemperato), secondo cui il danno è calcolato come "differenza tra i patrimoni netti individuati nel momento in cui si verifica la causa di scioglimento e il momento del passaggio alla fase di liquidazione" (criterio adottato anche da Trib. Milano, 8 ottobre 2001, in Giur. It., 2002).

Non hanno trovato accoglimento, invece, le domande attoree di richiesta di risarcimento del danno diretto subito dal socio, avendo il Tribunale accolto la giurisprudenza per cui il danno diretto non può consistere nel mero riflesso del pregiudizio al patrimonio sociale, né di richiesta di condanna al risarcimento danni avanzata contro il liquidatore volontario derivante dalla (asserita) inerzia, a detta dell'attore, ad agire verso i responsabili del dissesto, che invece, secondo il Tribunale, da un lato non è stata dimostrata da allegazioni di parte attrice e dall'altro è meramente dipesa dalla completa assenza di risorse economiche della società.

Le questioni

La sentenza in esame, anzitutto, avalla l'orientamento più "rigoroso" circa l'effettiva portata dell'art. 2482-ter c.c.,norma che, come noto, impone agli amministratori di convocare «senza indugio» l'assemblea dei soci, laddove essi ravvisino l'integrale erosione del capitale per perdite. Infatti, la dizione legislativa, volutamente elastica, per i giudici romani "deve essere interpretata come convocazione per una data ragionevolmente prossima, tenuto conto delle circostanze del caso concreto". Volendo dare maggior concretezza alla norma, la dottrina più rigorosa tende a proporre una lettura dell'art. 2482-ter c.c. in connessione con l'art. 2631, comma 1, secondo periodo, c.c., da cui deriverebbe un obbligo per gli amministratori di convocare l'assemblea entro trenta giorni dal momento in cui sono venuti a conoscenza dell'integrale erosione del capitale (cfr. Orsi, Assemblea: omessa convocazione dopo trenta giorni, in Guida dir., 2002, n. 16, 74).

Ciò detto, è evidente che l'effettiva possibilità per gli amministratori di procedere a una convocazione «senza indugio», per proporre gli opportuni provvedimenti, risulta di fatto legata a una seria e costante attività di monitoraggio sulla situazione patrimoniale ed economica della società, da svolgere, per i giudici romani, non solo alla fine dell'esercizio, ma "anche durante l'esercizio", e con ancor più frequenza e accuratezza, "quando il patrimonio netto sta per raggiungere i minimi di legge" (in dottrina, C.A. Busi, Riduzione del capitale nelle s.p.a. e s.r.l., Milano, 2010). Quella proposta nella sentenza si tratta, in sostanza, della tesi - maggioritaria in giurisprudenza - che non attribuisce rilievo alla semplice aspettativa (salvo che questa abbia un fondamento assai concreto) dell'organo amministrativo di pervenire a un rapido ripianamento delle perdite per poter eludere la convocazione dell'assemblea (cfr. Trib. Udine 1 febbraio 1993 in Società 1993, 1075). E, del pari, non considera in linea con la lettera della norma ("Quando risulta che il capitale è diminuito") l'atteggiamento attendista dell'organo gestorio che rimandi "di default" ogni valutazione sull'entità della perdita, sino al termine dell'esercizio.

Posto, quindi, che la perdita rilevante deve essere rilevata anche nel corso dell'esercizio, la sentenza del Tribunale di Roma include una interessante chiave di lettura per stabilire il momento in cui gli amministratori dovrebbero riscontrare la stessa. Si tratta di calcolare il cd. reddito operativo mensile della società, attuando un confronto tra i costi e i ricavi operativi per ogni mese "al fine di verificare il momento in cui l'entità delle perdite accumulate ha eroso il capitale sociale sotto la soglia di legge". Così facendo, è possibile (o dovrebbe essere possibile), per gli amministratori calcolare le perdite operative accumulate e valutare, quindi, il momento in cui queste intaccano, per oltre un terzo, il capitale sociale. Proprio da quel momento (e non, ripetesi, dalla fine di quell'esercizio) scatta l'obbligo di convocare i soci e sottoporre loro la scelta se ricapitalizzare o liquidate la società.

L'obiettivo di fondo, fanno intendere i giudici, è quello di impedire ogni forma di illegittima prosecuzione dell'attività di impresa quando il capitale risulta ormai eroso, secondo il principio generale del nostro ordinamento che mira a far emergere la crisi d'impresa il prima possibile, per evitare che la società, una volta polverizzato l'investimento dei soci nel capitale di rischio, resti sul mercato sostanzialmente a danno dei creditori. Da tale riflessione generale, si comprende dunque la scelta del Tribunale di aderire all'indirizzo teso ad adottare il c.d. criterio della differenza dei patrimoni netti per quantificare il danno nei confronti della società. Il calcolo consiste infatti nella comparazione "dei patrimoni netti registrati alla data della (doverosa) percezione della causa di scioglimento da parte degli organi sociali e alla data di messa in liquidazione della società (o fallimento della stessa)". Si capisce, pertanto, come tanto più la società ritardi la data di liquidazione (o di fallimento), quanto più il danno sarà cospicuo, essendo infatti proseguita un'attività in perdita, sostanzialmente a danno dei soli creditori. Tale calcolo, a detta del Tribunale - in adesione a una recente giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. Civ. 20 aprile 2017, n. 9983, in questo portale) - non impone di dover individuare tutti i singoli atti e comportamenti di natura distrattiva, ma può ben esser fatto in via, per così dire, equitativa, poiché "in questi casi, non esistono atti di mala gestio, ma mala gestio tout court, data dalla continuazione illecita dell'attività di impresa".

Ultima questione di rilievo affrontata dai giudici del Tribunale di Roma riguarda il soggetto titolato a chiedere il risarcimento del danno derivante dall'illecita prosecuzione dell'attività d'impresa. Al riguardo, il Tribunale aderisce alla tesi giurisprudenziale, ormai maggioritaria (peraltro avallata, a seguito di un contrasto, anche da Cass. Civ., sez. un., 24 dicembre 2009, n. 27346) secondo cui il diritto al risarcimento, in questi casi, compete solo alla società e non già anche a ciascuno dei soci. Ciò, in quanto gli utili e, più in generale, il valore della quota di liquidazione, fanno parte del patrimonio sociale e, fino a diversa delibera in favore dei soci, non sono ricompresi nella sfera giuridica di questi ultimi. Pertanto, mancando un pregiudizio economico personale e diretto verso i soci - l'incidenza negativa sui diritti del socio nascenti dalla partecipazione sociale è infatti un effetto indiretto del pregiudizio derivante dall'azione illecita degli amministratori e non conseguenza immediata e diretta dell'illecito - solo la società risulterebbe essere il soggetto giuridico colpito direttamente dall'illecito.

Osservazioni

Pur non essendo citato nella sentenza, appare utile completare l'analisi trattando di un aspetto - affine alle vicende di causa e oggetto di dibattito giurisprudenziale - riguardante l'imperatività della procedura assembleare di cui agli artt. 2482-bis e 2482-ter c.c., in caso di perdite che intacchino il capitale per oltre un terzo. Esiste infatti una giurisprudenza, pronunciatasi per la verità in relazione all'art. 2447 c.c. ma le cui conclusioni si applicano anche alla s.r.l., secondo cui lo spontaneo versamento effettuato dai soci, in presenza di perdite rilevanti, rimuove il presupposto stesso dell'operazione sul capitale per perdite e fa venir meno la necessità di ricorrere alla procedura richiesta dal codice civile e, quindi, di convocare «senza indugio» l'assemblea (Trib. Genova 12 febbraio 2002, in Società, 2003, 616). Tale approccio, dal tenore "sostanzialista", è tuttavia stato criticato sia in dottrina che in giurisprudenza (cfr. C.A. Busi, Riduzione del capitale nelle s.p.a. e s.r.l., Milano, 2010, 506; App. Bari, 6 settembre 2006, in Giur. Comm. 2007, II, 128), essendo stato messo in luce come l'impianto legislativo abbia, per tale fattispecie, fatto una scelta a favore di rimedi necessariamente "tipici" (i.e. il procedimento di cui all'art. 2447 c.c. per le s.p.a. e all'art. 2482-ter c.c. per le s.r.l.), riservando al momento formale dell'assemblea dei soci ogni decisione circa la prosecuzione o lo scioglimento della società dell'attività. Ed evitando altresì che alcuni soci continuino a apportare risorse a fondo perduto per assecondare la prosecuzione (in perdita) dell'attività sociale impedendo agli altri soci di uscire dalla società stessa (rectius, di valutare nel contesto della delibera di azzeramento e ricostituzione del capitale per perdite se "seguire" la ricapitalizzazione oppure cessare di far parte della compagine sociale).

Conclusioni

La sentenza in esame è un interessante "vademecum" rispetto ai profili di responsabilità in cui possono incorrere gli amministratori per aver mancato di rilevare prontamente le perdite rilevanti ai sensi dell'art. 2482-ter c.c. e, conseguentemente, aver omesso di convocare «senza indugio» l'assemblea. In aggiunta, fornisce un'importante indicazione concernente sia il momento in cui gli amministratori devono riscontrare le perdite (attraverso il calcolo del reddito operativo mensile, da valutare anche in corso di esercizio) sia le modalità di calcolo del danno alla società (mediante il metodo della differenza dei patrimoni netti contemperato, avallato da ultimo anche dalla giurisprudenza di legittimità citata in commento).

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