Resistenza a più pubblici ufficiali: reato continuato, concorso formale o un unico reato?
31 Ottobre 2018
Massima
Integra il concorso formale di reati, a norma dell'art. 81, comma 1 c.p., la condotta di chi usa violenza o minaccia per opporsi a più pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio mentre compiono un atto del loro ufficio o servizio. Il caso
L'imputato veniva condannato, in primo grado, per il delitto di cui agli artt. 81 e 337 c.p., per avere minacciato di morte e usato violenza contro due pubblici ufficiali che cercavano di bloccarlo mentre questi voleva aggredire un altro soggetto. Il Tribunale, sul punto, riteneva configurata la continuazione, ai sensi del secondo comma dell'art. 81 c.p., in relazione alla pluralità di fatti di resistenza commessi. La Corte di merito, confermando la sentenza del primo giudice, precisava che «la continuazione era da ricollegarsi non tanto alla pluralità delle condotte delittuose, quanto al fatto che l'illecito era stato consumato in danno di una pluralità di pubblici ufficiali». La sentenza veniva, dunque, impugnata con ricorso per cassazione, nel quale si lamentava principalmente l'inosservanza ed l'erronea applicazione della legge penale, nonché vizio di motivazione per aver ritenuto sussistenti una pluralità di fatti in continuazione a fronte di un'unica azione. La Sesta sezione della Corte di Cassazione, accertata l'esistenza di un contrasto interpretativo sull'applicabilità della disciplina di cui all'art. 81, comma 1, c.p., per il caso di resistenza commessa nei confronti di più pubblici ufficiali impegnati nel compimento del medesimo atto di ufficio, ed, in particolare, con specifico riguardo all'interesse giuridico protetto dalla norma, ha rimesso la questione alle Sezioni unite (Sez. VI, ordinanza del 12 dicembre 2017, n. 57249), che la decidevano con la pronuncia in esame. Ebbene, il Supremo consesso ha rilevato come per la soluzione del quesito sia necessaria una preliminare trattazione di due diversi temi di indagine, relativi allo studio della fattispecie di cui all'art. 337 c.p. e ciò sia sotto il profilo strutturale, che relativamente all'individuazione dell'oggetto del reato, quale bene primario sul quale ricade l'azione del reo, al fine di stabilire se l'offesa punita sia quella diretta all'atto amministrativo in se considerato ovvero consista nella opposizione, violenta e minacciosa, al pubblico ufficiale che materialmente esegue detta attività. La soluzione alla questione, una volta esaminati i contrapposti orientamenti, è nel senso che «le argomentazioni spese a sostegno della tesi per la quale l'opposizione sarebbe nei confronti dell'atto e non del pubblico ufficiale non possono essere ritenute valide, perché da un lato, non tengono conto della descrizione dell'illecito come configurato dal testo della norma e dall'altro, sul piano logico-giuridico, anche quando fanno riferimento all'interesse protetto, non evocano argomenti idonei a superare la lettera della legge. Può aggiungersi che non appare dirimente la considerazione che il delitto di resistenza assorbirebbe soltanto il minimo di violenza in cui si estrinseca l'opposizione per essere la tutela fisica o morale dello stesso assicurata da altre disposizioni in cui l'offesa superi il tasso minimo tollerabile». La questione
La questione affrontata riguarda il caso in cui il delitto di resistenza sia commesso, ai sensi dell'art. 337 c.p., nei confronti di più pubblici ufficiali che compiono il medesimo atto di ufficio. La condotta di chi usa violenza o minaccia, commessa con un'unica azione od omissione per opporsi a più pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio nel caso appena detto, configura un reato unico ovvero un concorso formale di reati o un reato continuato? Le soluzioni giuridiche
Secondo un primo orientamento interpretativo, «il reato di cui all'art. 337 c.p. si perfeziona con l'offesa ad ogni singolo pubblico ufficiale nei cui confronti viene esercitata la violenza o la minaccia nel momento del compimento di un atto dell'ufficio con il fine di ostacolarlo. Ne discenderebbe che, nel caso di un unico atto, contestualmente offensivo di una pluralità di pubblici ufficiali, è realizzata una pluralità di violazioni dell'art. 337 c.p., la cui sanzione andrebbe determinata in base all'art. 81 c.p.. La tesi si fonda sulla considerazione che l'azione delittuosa, pur se lede unitariamente l'interesse del regolare funzionamento della pubblica amministrazione, si risolve in altrettante offese al libero espletamento dell'attività di ciascuno dei pubblici ufficiali incaricati di compiere un dato atto. La pubblica amministrazione, agisce attraverso persone fisiche, ciascuna delle quali opera come organo della stessa, pertanto ogni pubblico ufficiale conserva una distinta identità suscettibile di offesa». Un orientamento opposto, invece, ritiene che «la resistenza troverebbe il suo momento consumativo nella “opposizione all'atto” (pubblico), sicché la violenza e la minaccia al pubblico ufficiale avrebbero carattere meramente strumentale nella realizzazione dell'illecito; in tal modo, la condotta del reo, incidendo in primis sull'atto, non potrebbe che essere unica, essendo unico l'atto amministrativo ostacolato, indipendentemente dal numero di pubblici ufficiali coinvolti nella sua esecuzione. Tale tesi, contrariamente alla precedente, valorizza l'elemento del “regolare andamento della pubblica amministrazione”, concentrando la propria attenzione sull'atto da eseguire, ritenendo che l'ostacolo al compimento dello stesso costituisce la lesione dell'interesse protetto dalla norma. La violenza o minaccia che integra un elemento costitutivo del delitto di cui all'art. 337 c.p., avverso il compimento di un atto di ufficio, non si identifica necessariamente in una minaccia o violenza contro la persona del pubblico ufficiale, potendosi la stessa esplicare anche in forme diverse da quelle riconducibili alle fattispecie di cui agli artt. 610 o 612 c.p, sotto forma di violenza o minaccia impropria. Ove l'offesa verso la persona fisica superi il minimo di violenza o minaccia in cui si estrinseca tale reato, allora la tutela fisica o morale del pubblico ufficiale viene assicurata da altre disposizioni».
Orbene, come già accennato, le Sezioni unite hanno ritenuto necessario, ai fini della risoluzione del quesito sottoposto, un'analisi che tenga conto:
Con riguardo alla fattispecie incriminatrice di cui all'art. 337 c.p., deve specificarsi che l'elemento materiale del reato è costituito da una condotta avente natura commissivo-oppositiva, esplicantesi nella violenza o minaccia rivolta, in modo diretto, indiretto o implicito, esclusivamente nei confronti di un pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio, al fine di impedirne l'azione o, comunque, coartarla; mentre l'elemento soggettivo è rappresentato dalla volontà di ostacolare il pubblico ufficiale nell'atto di compiere una funzione pubblica. In base a tale definizione, dunque, si ricava che mentre l'oggetto materiale del reato di resistenza a pubblico ufficiale è costituito, appunto, da ogni condotta, diretta a conseguire uno scopo oppositivo attraverso l'uso di violenza o minaccia nei confronti del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio che stia agendo per conto della pubblica amministrazione, per la definizione dell'oggetto giuridico tutelato, deve farsi riferimento ad altri dati. In primo luogo, deve tenersi conto che il reato de quo è ricompreso tra i delitti dei privati contro la pubblica amministrazione, e che pertanto a venire tutelato è il bene rappresentato dal regolare funzionamento della pubblica amministrazione. Ciò che si tutela, in altre parole, è la mancanza d'interferenze nel procedimento volitivo o esecutivo di colui che, incardinato nella pubblica amministrazione, la personifica. La protezione giuridica dei soggetti individuati dalla norma è giustificata proprio dalla necessità di tutelare la libertà di determinazione e di azione degli organi pubblici che, attraverso persone fisiche, agiscono. La norma, in definitiva, quindi, come peraltro argomentato anche dalla Corte costituzionale con sentenza n. 425 del 1996, punisce la maggior offesa arrecata alla pubblica amministrazione da una condotta del cittadino, violenta o minacciosa, mirante a impedire l'attuazione della sua volontà. Condotta che si concreta in un atteggiamento, anche implicito, ma percepibile, che sia da intralcio, impedisca o, comunque, comprometta anche parzialmente o temporaneamente la regolarità del compimento dell'atto dell'ufficio o del servizio, restando così esclusa solo una resistenza meramente passiva, come la semplice disobbedienza. Considerato, dunque, il fatto che l'elemento oggettivo del reato di resistenza sia costituito dalla violenza o minaccia al pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio in un certo momento, viene conferita centralità proprio alla persona del singolo soggetto operante che manifesta verso l'esterno la volontà della pubblica amministrazione. Tale conclusione è avvalorata anche da un breve considerazione riguardante la distinzione tra il delitto di resistenza a pubblico ufficiale, di cui all'art. 337 c.p., e quello di violenza e minaccia a pubblico ufficiale, di cui all'art. 336 c.p. Ed infatti, proprio l'elemento temporale valorizzato dalla sentenza in commento, è quello che distingue la fattispecie di cui all'art. 336 c.p., che vede la violenza o minaccia precedere il compimento dell'atto da parte del pubblico funzionario, da quella di cui all'art. 337 c.p., appunto, in cui la condotta viene attuata durante il compimento dell'atto d'ufficio e allo scopo di impedirlo.
Operate tali premesse, dunque, la soluzione al quesito posto alle Sezioni unite viene risolto nel senso che: «ove l'offesa sia stata posta in essere, nel medesimo contesto spazio-temporale, tramite violenza o minaccia esercitata distintamente nei confronti di ciascuno dei pubblici ufficiali intervenuti, sussiste certamente un concorso formale omogeneo di reati». Osservazioni
Con la sentenza in commento, nondimeno, viene analizzata, seppure in breve, anche la materia del concorso di reati di cui all'art. 81 c.p.. La necessità dell'analisi dell'argomento è data dalla circostanza che il giudice di merito, nel caso di specie, ha ritenuto sussistente l'istituto della continuazione, nonostante la condotta complessiva, diretta verso più soggetti, sia stata realizzata con un'unica azione delittuosa. Com'è noto, la norma, al comma 1, disciplina il c.d. concorso formale di reati che si esplica nelle due diverse forme di:
mentre al comma 2, prevede la diversa ipotesi di concorso materiale di reati o reato continuato, che si configura ogni qualvolta l'agente con più azioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, violi più volte la stessa o diverse norme di legge. La Corte specifica che si parla di “unicità di azione” (nel senso previsto dall'art. 81) non solo quando la stessa si realizzi effettivamente attraverso un unico atto (conforme all'ipotesi incriminatrice di volta in volta prevista) ma anche quando, costituisca la somma di una pluralità di atti, che siano contestuali nello spazio e nel tempo e abbiano fine unico. Orbene, se la consumazione di un reato si realizza ogni qualvolta l'agente commetta la condotta astrattamente prevista dalla norma incriminatrice, così realizzando l'offesa tipica e ledendo l'interesse protetto, è naturale conseguenza logico-giuridica che, ove l'azione leda più volte lo stesso bene causando una pluralità di lesioni o eventi omogenei, dovrà parlarsi di concorso formale omogeneo di reati (previsto dall'art. 81, comma 1, c.p.). E, quindi, perchè possa ritenersi commesso il reato in tale forma, è necessaria una valutazione del solo fatto storico, non essendo rilevante una specifica indagine sull'interesse tutelato dalla norma. Nondimeno, una voce fuori dal coro ha suggerito una tesi che distingua tra norme incriminatrici che tutelano beni altamente personali e norme che tutelano, di contro, beni di natura diversa, affermando che, mentre per i primi sarebbe sempre configurabile una pluralità di reati connessi alla particolare rilevanza degli interessi lesi, con riguardo ai secondo, invece, ciò andrebbe valutato di caso in caso. Appare subito evidente come tale alea non sia assolutamente accettabile, ponendosi un problema di violazione del principio di certezza del diritto. In tali casi, infatti, non si definiscono, in alcun modo, criteri oggettivi che consentono una concreta distinzione tra beni altamente personali e non. Pertanto, perché possa ritenersi configurato un concorso formale omogeneo di reati occorre esaminare il fatto complessivo e parcellizzarlo in quelli che possono considerarsi in sé stessi singoli eventi giuridici. Ogni singolo fatto, cioè, deve essere comprensivo di tutti gli elementi costitutivi (soggettivo e oggettivo) tipici della fattispecie considerata. Di conseguenza, dunque, non potendosi far dipendere la configurabilità del concorso formale omogeneo dalla semplice pluralità delle persone offese, è necessario, a tal fine, individuare un ulteriore elemento discretivo che consiste nella sussistenza di uno specifico atteggiamento psicologico diretto a realizzare l'offesa tipica nei confronti, distintamente, di più soggetti. In definitiva, la configurazione del concorso di reati sarà resa possibile solo da una valutazione del dato fenomenico, attraverso un'effettiva analisi del fatto da cui emerga che l'azione (unica nel senso sopra indicato) fosse concretamente diretta nei confronti di più soggetti. |