Tardivo rilascio dell'immobile locato: la Cassazione fa il punto in tema di “domande nuove”
02 Novembre 2018
Il caso. Una società immobiliare conviene dinnanzi al tribunale di Roma una Casa di Cura, locataria di un proprio immobile, per ottenere il risarcimento dei danni patiti per il ritardo nel rilascio dell'immobile, avvenuto tre anni dopo la scadenza del contratto, poiché ciò aveva determinato la perdita della possibilità di locare l'immobile a terzi. Il tribunale rigetta la domanda, ritenendo non provata l'esistenza del danno ed anche la Corte territoriale, successivamente adita, rigetta la domanda per mancanza di prove. La Società immobiliare ricorre in Cassazione con unico motivo, dolendosi del fatto che i giudici territoriali avevano ritenuto inammissibili i documenti prodotti unitamente alla memoria conclusiva depositata in primo grado, considerando invece formulata una domanda nuova, e che avessero ritenuto infondata la domanda di risarcimento anche sul rilievo che il contratto preliminare di locazione non dimostrava l'esistenza di un danno risarcibile, essendo «precedente di pochi mesi il rilascio».
Rimessione in termini. La Suprema Corte ricorda che, nel rito ordinario come in quello locatizio, è legittima la rimessione in termini della parte nel caso in cui un documento sia stato prodotto dopo il maturare delle preclusioni processuali, perché «il solo fatto di allegare quel documento agli atti costituisce di per sé una richiesta implicita di rimessione in termini». La preclusione riguarda solo i documenti prodotti in giudizio che si sono formati successivamente alla sua introduzione che erano già in possesso della parte prima che il giudice dichiarasse chiusa l'istruttoria.
Nessuna domanda nuova. Nella fattispecie concreta, i documenti prodotti erano successivi anche alla chiusura dell'istruttoria, e non solo all'introduzione della domanda: la società aveva già dedotto in giudizio, mediante il preliminare di compravendita, l'impossibilità di stipulare un diverso contratto di locazione con altra società che offriva un determinato canone annuale, in base al quale chiedeva il risarcimento del lucro cessante. Dunque tale deposito documentale, continua la Corte, non aveva introdotto alcun tema d'indagine, che piuttosto era quella originario, ossia «se e quali proposte contrattuali vantaggiose la Immobiliare abbia perduto, a causa del ritardato rilascio del suo immobile da parte della clinica». Il contratto preliminare costituiva dunque solo una nuova prova del danno.
I principi di diritto. La Suprema Corte accoglie dunque il ricorso e rinvia gli atti alla corte territoriale, che dovrà decidere applicando i seguenti principi di diritto: «(A) Nei giudizi soggetti al rito del lavoro, costituisce implicita istanza di rimessione in termini il deposito, con le note conclusive, di documenti formati successivamente tanto alla domanda, quanto al maturare delle preclusioni istruttorie; a fronte di tale produzione, pertanto, il giudice non può dichiararla inammissibile, ma deve valutare se ricorrano i presupposti di cui all'art. 153 c.p.c., ed in caso affermativo esaminare nel merito la rilevanza probatoria dei documenti tardivamente depositati. (B) Nel giudizio di risarcimento del danno (tanto da inadempimento contrattuale, quanto da fatto illecito) non costituiscono domande nuove: (a) la riduzione del quantum rispetto alla originaria pretesa; (b) la deduzione dell'aggravamento del medesimo danno già dedotto con la domanda originaria. La richiesta di risarcimento dei danni sopravvenuti al maturare delle preclusioni istruttorie, anche se di qualità e quantità differenti da quelli richiesti con la domanda originaria, costituisce invece una domanda nuova, ma anche ammissibile se ricorrano i presupposti della rimessione in termini, di cui all'art. 153 c.p.c.».
*Fonte: www.ridare.it |