Gli accordi traslativi in deroga, ex art. 47, comma 5, l. n. 428 del 1990
05 Novembre 2018
Massime
L'accordo sindacale di cui all'art. 47, comma 5, l. 29 dicembre 1990, n. 428, realizza un effetto dispositivo dei diritti individuali, autorizzato dalla legge, che abilita l'autonomia collettiva a rimuovere un quadro legale altrimenti inderogabile. Si è di fronte ad un contratto collettivo cui la legge consente di produrre l'effetto legale di rendere disapplicabile l'art. 2112, c.c.
Come riconosciuto dalla Cassazione la norma introduce una deroga alla generale operatività dell'art. 2112 c.c. stabilendo che, nel caso in cui la continuazione dell'attività imprenditoriale non sia continuata o sia cessata, nel corso degli accordi conclusi nell'ambito delle consultazioni sindacali, previste dalla l. n. 428 del 1990, art. 47, primi tre commi, ai lavoratori il cui rapporto di lavoro continua con l'acquirente non si applica l'art. 2112, c.c., a meno che non sia l'accordo stesso a prevedere condizioni di miglior favore.
Ciò significa che le assunzioni da parte dell'impresa subentrante possono avvenire ex novo, senza conservazione dell'anzianità pregressa, senza applicazione del principio di cui all'art. 2103, c.c. e così via. Il legislatore ha previsto ampia possibilità per l'impresa subentrante di concordare condizioni contrattuali per l'assunzione ex novo dei lavoratori, in deroga a quanto prevede l'art. 2112, c.c. ed ha altresì previsto la possibilità di escludere parte del personale eccedentario dal passaggio. La soluzione giuridica
Nel dirimere la controversia posto al suo vaglio, la Corte d'appello di Venezia, pur dando atto della fondatezza del motivo di gravame concernente l'errata applicazione del comma 4 dell'art. 32, l. n. 183 del 2010, da parte del primo giudice, conclude comunque per il rigetto dell'appello proposto.
Ed invero, il Collegio veneziano, in primo luogo, accoglie la stigmatizzazione attorea, evidenziando come il Giudice di prime cure avrebbe errato nel delibare la decadenza dei ricorrenti facendo applicazione della norma di cui al predetto art. 32, comma 4, lett. c), poiché tale norma espressamente riguarda l'impugnazione della “cessione del contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell'art. 2112” e non, invece, il caso in cui, come quello sub specie, si ricorre avverso la “mancata” cessione del loro rapporto di lavoro in capo alla cessionaria, ed in cui pertanto non vi è alcuna cessione del contratto da impugnare.
L'interpretazione della norma deve, infatti, essere letterale, posto che le norme in materia di decadenza sono di natura eccezionale e comunque di stretta interpretazione, insuscettibili di applicazione estensiva e ancora meno analogica, imponendosi, dunque, di queste “un'interpretazione particolarmente rigorosa”, sia con riferimento alla fattispecie prevista dal quarto comma lettera c), sia con riferimento alla fattispecie di chiusura prevista alla lettera d).
L'interpretazione “estensiva” della norma offerta dal Tribunale non è dunque corretta, dovendo essa applicarsi, al contrario, ai soli casi nella stessa considerati, e non potendosi attribuire alla norma altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole, restrittivamente inteso, posto che “non è ammissibile, neppure attraverso una interpretazione logico-sistematica, un'operazione ermeneutica intesa ad assegnare un termine di decadenza per l'impugnazione di un atto risolutivo del rapporto di lavoro che non vi è stato, visto che gli appellanti chiedono, sulla scorta dell'art. 2112, c.c., il trasferimento del rapporto di lavoro in capo alla cessionaria”.
Nè potrebbe operare la decadenza dell'art. 32, comma 4, lett. d), visto che l'elemento comune alle ipotesi della lettera d) è la dissociazione fra titolarità formale e sostanziale del rapporto, e nel caso in esame, nessuna dissociazione “irregolare” ovvero “simulata”, nella quale la realtà dei fatti sia diversa dalla situazione formale, viene addotta.
Ciò posto, il Collegio ritiene tuttavia di dover respingere la domanda di ripristino funzionale del rapporto di lavoro con la cessionaria azionata dagli appellanti ai sensi dell'art. 2112, c.c., evidenziando come trattasi, nella fattispecie in esame, di una cessione di azienda c.d. in deroga, realizzata attraverso la complessa ed articolata procedura prevista dalla legge al cit. art. 47, comma 5, la quale consente un effetto dispositivo dei diritti individuali che abilita l'autonomia collettiva a rimuovere un quadro legale altrimenti inderogabile.
In particolare, la Corte evidenzia come “la norma introduce indubbiamente una deroga alla generale operatività dell'art. 2112, c.c. stabilendo che, nel caso in cui la continuazione dell'attività imprenditoriale non sia continuata o sia cessata, nel corso degli accordi conclusi nell'ambito delle consultazioni sindacali, previste dalla l. n. 428 del 1990, art. 47, primi tre commi ai lavoratori il cui rapporto di lavoro continua con l'acquirente non si applica l'art. 2112, c.c., a meno che non sia l'accordo stesso a prevedere condizioni di miglior favore. Ciò significa che le assunzioni da parte dell'impresa subentrante possono avvenire ex novo, senza conservazione dell'anzianità pregressa, senza applicazione del principio di cui all'art. 2103, c.c., e così via. In pratica, il legislatore ha previsto ampia possibilità per l'impresa subentrante di concordare condizioni contrattuali per l'assunzione ex novo dei lavoratori, in deroga a quanto prevede l'art. 2112, c.c., ed ha altresì previsto la possibilità di escludere parte del personale eccedentario dal passaggio.”,ricordando che “... la derogabilità, laddove prevista, anche peggiorativa del trattamento dei lavoratori, in base all'art. 47 citato, in deroga all'art. 2112 c.c., si giustifica con lo scopo di conservare i livelli occupazionali, quando venga trasferita l'azienda di un'impresa insolvente e si legittima con la garanzia della conclusione di un accordo collettivo idoneo a costituire norma derogatoria della fattispecie (Cass. 22 settembre 2011, n. 19282; Cass. 5 marzo 2008, n. 5929). Appare evidente come la priorità di tutela dal piano del singolo lavoratore (cui risponde l'esclusiva applicazione dell'art. 2112, c.c.) si sia spostata al piano dell'interesse collettivo al perseguimento” .
In ogni caso, continua la Corte, dalla lettura dell'accordo emerge che la condizione di essere liberata da ogni onere relativo alla solidarietà ex art. 29, d.lgs. n. 276 del 2003, e da qualsiasi richiesta ex art. 2112, c.c., mediante sottoscrizione di un verbale di conciliazione e rinunzia ai diritti ex art. 2112 c.c. da parte di tutti i lavoratori, fosse posta nell'esclusivo interesse della cessionaria, la quale ha, ciò nonostante, ritenuto di non avvalersene, dando atto, invece, dell'avveramento della condizione e procedendo al successivo acquisto dell'azienda.
Per questo motivo non può sostenersi che la mancata sottoscrizione del verbale di rinuncia da parte di alcuni lavoratori travolga l'accordo ex art. 47 tout court, che resta pertanto valido, con conseguente impossibilità di reviviscenza dell'art. 2112, c.c., in quanto espressamente derogata dalle parti e “convalidata” dalla procedura giudiziale.
Osserva, infine, il Collegio veneziano, come il cit. art. 47, comma 5, nulla disponga circa il contenuto specifico dell'accordo e l'indicazione dei criteri di selezione deilavoratori da trasferire, prevedendo unicamente che l'accordo riguardi ilmantenimento, anche parziale, dell'occupazione, peraltro sottolineando come gli appellanti genericamente deducano la violazione dei criteri dibuona fede e la necessità di evitare qualsiasi discriminazione, ma abbiano omesso di allegare alcuna specifica doglianza al riguardo.
Conclude dunque la Corte d'appello, evidenziando come la specificità della fattispecie di cui alla l. n. 428 del 1990, finalizzata ad incentivare l'assunzione di lavoratori ed a conservare posti di lavoro altrimenti destinati a venir meno per effetto dello stato di insolvenza dell'impresa cedente, escluda che nel caso di specie possano trovare applicazione criteri di scelta peculiari, in analogia a quelli previsti, per esempio, dalla l. n. 223 del 1991, art. 5, peraltro non citata dagli appellanti. Osservazioni
Tralasciando, in questa sede e per evidenti esigenze di contenimento della trattazione, ogni considerazione in merito ai passaggi motivazionali affrontati in via preliminare dalla Corte di appello di Venezia ed inerenti, da un lato, la sussistenza dell'interesse ad agire dei ricorrenti e, dall'altro, l'impossibilità di procedere ad una interpretazione estensiva del disposto di cui all'art. 32, l. n. 183 del 2010 (sul presupposto che le norme in materia di decadenza sono di natura eccezionale e comunque di stretta interpretazione, insuscettibili di applicazione estensiva e ancora meno analogica, imponendosi, dunque, di queste “un'interpretazione particolarmente rigorosa”, sia con riferimento alla fattispecie prevista dal quarto comma lettera c), sia con riferimento alla fattispecie di chiusura prevista alla lettera d), la principale questione giuridica di merito affrontata nella pronuncia in commento involge, senza dubbio, la tematica della validità degli accordi c.d. in deroga, stipulati ai sensi dell'art. 47, comma 5, l. n. 428 del 1990.
Come è noto, invero, la citata disposizione legislativa, nel quinto comma, prevede che: “qualora il trasferimento riguardi imprese nei confronti delle quali vi sia stata dichiarazione di fallimento, omologazione di concordato preventivo consistente nella cessione dei beni, emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa ovvero di sottoposizione all'amministrazione straordinaria, nel caso in cui la continuazione dell'attività non sia stata disposta o sia cessata e nel corso della consultazione di cui ai precedenti commi sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento anche parziale dell'occupazione, ai lavoratori il cui rapporto di lavoro continua con l'acquirente non trova applicazione l'art. 2112, c.c., salvo che dall'accordo risultino condizioni di miglior favore. Il predetto accordo può altresì prevedere che il trasferimento non riguardi il personale eccedentario o e che quest'ultimo continui a rimanere, in tutto in parte, alle dipendenze dell'alienante”.
Ora, appare evidente come l'attuale regolamentazione dei rapporti di lavoro in caso di trasferimento d'azienda rappresenti la risultante di una lunga e complessa opera di stratificazione normativa, caratterizzata dall'avvicendamento di disposizioni e pronunce interne e comunitarie, tutte accomunate dall'intento di garantire la continuità del rapporto di lavoro in capo al cessionario, se pur con le dovute eccezioni e precisazioni.
Ed invero, il fulcro della tutela ordinamentale in materia è rappresentato, senza dubbio, dall'attuale disposto dell'art. 2112, c.c. (così come modificato dall'art. 32, d.lgs.10 settembre 2003, n. 276, di attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla l. 14 febbraio 2003, n. 30), il quale, nel primo comma, sancisce a chiare lettere la regola generale per cui “In caso di trasferimento d'azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano”.
Per il legislatore, infatti, l'automatica prosecuzione dei relativi rapporti di lavoro in capo al cessionario, indipendentemente dallo strumento tecnico-giuridico attraverso il quale viene realizzato il trasferimento, non esige una preventiva manifestazione del consenso da parte dei lavoratori e ciò, si badi, anche in considerazione della funzione socio-economica cui deve assolvere il trasferimento d'azienda, la quale, di fatto, impedisce che a detto trasferimento possa applicarsi la disciplina dettata dagli artt. 1406 ss., c.c., posto che, come è stato a più riprese evidenziato in dottrina e giurisprudenza, gli adempimenti richiesti da tale disciplina e la necessità del consenso del contraente ceduto concretizzano un complesso di disposizioni poco permeabili alle esigenze dei processi di ristrutturazione aziendale, di riconversione industriale e di delocalizzazione delle imprese.
Su tali presupposti, dunque, l'art. 2112, c.c., è stato elevato a norma di composizione tra gli opposti interessi contenuti nel bivalente disposto dell'art 41, Cost., il quale, se al primo comma tutela la libertà di iniziativa economica del cedente e del cessionario, al secondo comma rimarca l'esigenza di protezione dei lavoratori, della loro utilità sociale e dignità, garantendo, quindi, il soddisfacimento di ambo gli interessi qualificati dei soggetti giuridici coinvolti nell'operazione di circolazione economica.
Senonchè e come è noto, tale bilanciamento di interessi meritevoli di tutela, perseguito con il disposto dell'art 2112, c.c., riguarda soggetti datoriali per così dire in bonis, visto che la prospettiva cambia notevolmente quando l'oggetto della vicenda traslativa è un'impresa sottoposta a procedura concorsuale.
In una dimensione concorsuale, infatti, da una parte, l'esercizio dell'attività di impresa risulta rimesso alla valutazione ed intervento degli organi della procedura e, dall'altro, la tutela dell'interesse individuale alla continuità del rapporto di lavoro si scontra con la necessità di proteggere l'interesse ultra individuale a preservare quanto più possibile l'integrità del complesso aziendale, al fine di agevolarne la commerciabilità, salvaguardando al contempo, almeno parzialmente, i livelli occupazionali.
Non a caso, la disciplina del trasferimento dell'azienda in crisi si presenta come blocco normativo autonomo, ispirato, come si leggeva già nella relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo recante la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali di cui al r.d. 16 marzo 1942, n. 267, ad una nuova prospettiva di recupero delle capacità produttive dell'impresa, attesa la confluenza di interessi economici e sociali più ampi, in un'ottica di risanamento e superamento della crisi aziendale, la cui applicazione può comportare l'allentamento, o addirittura la disapplicazione, delle garanzie individuali che normalmente presiedono al trasferimento.
Ora, come è noto, la genesi e l'evoluzione della disposizione in commento ha rappresentato, sin ab origine, la risposta del legislatore italiano alla condanna della Corte di giustizia per il mancato recepimento della Direttiva comunitaria di prima generazione sui trasferimenti di impresa (dir. 77/187/CEE), posto che, nella sua precedente formulazione, l'art. 47, comma 5, l. n. 428 del 1990, canalizzava in un'unica fattispecie le diverse ipotesi di regolamentazione in deroga all'art. 2112 c.c., ponendo sullo stesso piano la fattispecie delle procedure concorsuali con finalità liquidatoria e quella della crisi di impresa.
Ed invero, nei casi in cui l'organo amministrativo avesse accertato lo stato di crisi aziendale ai sensi dell'art. 2, comma 5, lett. c), l. 12 agosto 1977, n. 675, oppure in caso di trasferimento di imprese nei confronti delle quali fosse intervenuta la dichiarazione di fallimento, l'omologazione di concordato preventivo consistente nella cessione dei beni, l'emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa ovvero di sottoposizione ad amministrazione straordinaria, il raggiungimento, nel corso della consultazione sindacale, di un accordo tra cedente, cessionario e rappresentanti dei lavoratori, circa il mantenimento, anche parziale, dell'occupazione, consentiva la disapplicazione dell'art. 2112, c.c. nei confronti dei lavoratori che vedevano proseguire il proprio rapporto con l'acquirente, sempre che dall'accordo non risultassero condizioni di miglior favore per i lavoratori medesimi.
Senonchè, con la nota sentenza Spano, la Corte ha censurato le deroghe previste dalla disciplina italiana sui trasferimenti di imprese dichiarate in stato di crisi ex l. n. 675 del 1977, affermando che “un'impresa di cui sia stato dichiarato lo stato di crisi è oggetto di un procedimento che, lungi dal tendere alla liquidazione dell'impresa, mira al contrario a favorire la prosecuzione della sua attività nella prospettiva di una futura ripresa” .
In tali casi, dunque, non potrebbe essere giustificata alcuna ipotesi derogatoria, posto che, per un verso, l'impresa si troverebbe a fronteggiare una situazione di difficoltà economica che, in ogni cas,o consente il proseguimento dell'attività senza che si producano significative interruzioni, essendovi concrete possibilità di recupero, senza considerare poi, e per altro verso, come il procedimento di accertamento dello stato di crisi non implichi alcun controllo giudiziario o provvedimento di amministrazione del patrimonio dell'impresa.
Al contrario, nel caso di procedure concorsuali finalizzate alla liquidazione del patrimonio del cedente, le garanzie predisposte dalla Direttiva risulterebbero sacrificabili in nome dell'interesse alla salvaguardia dei livelli occupazionali, in quanto, essendo la cessione determinata da esigenze liquidatorie del patrimonio aziendale che portano a privilegiare la soddisfazione del ceto creditorio, si reputa opportuno liberare il complesso aziendale da quegli oneri economici e giuridici che potrebbero disincentivare il cessionario.
Senonchè, il fervido dibattito instauratosi all'indomani della menzionata condanna sovranazionale, è stato in parte smorzato dall'intervento della Direttiva 98/50/CE, interamente trasposta nella dir. 2001/23/CE, volto a sistematizzare, e in un certo senso a recepire, gli esiti della giurisprudenza comunitaria in tema di individuazione della fattispecie del trasferimento di impresa.
Il legislatore, infatti, si è premurato di introdurre una nuova disciplina dei trasferimenti d'azienda attuati nell'ambito di procedure concorsuali o in presenza di crisi aziendali, disponendo, da un lato, che, ferma restando la possibilità per gli Stati membri di disporre diversamente (ai sensi dell'art. 5, n. 1, dir. 2001/23/CE), si esclude l'applicazione degli artt. 3 e 4 della medesima Direttiva (relativi alla tutela dei diritti individuali dei lavoratori) per le ipotesi di trasferimento di imprese, stabilimenti o parti di imprese o di stabilimenti “nel caso in cui il cedente sia oggetto di una procedura fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente stesso e che si svolgono sotto il controllo di un'autorità pubblica competente” e prevedendo, dall'altro, la possibilità per gli Stati membri di introdurre nei rispettivi ordinamenti disposizioni che attribuiscono alla parti sociali la possibilità di stipulare accordi in deroga finalizzati ad autorizzare modifiche delle condizioni di lavoro, intese a salvaguardare le opportunità occupazionali garantendo la sopravvivenza dell'impresa.
A tale intervento ha fatto eco il legislatore nostrano, con la riformulazione dell'attuale versione dell'art. 47, modificata dall'art. 19-quater della l. 20 novembre 2009, n. 166, recante disposizioni urgenti per l'attuazione di obblighi comunitari e per l'esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee.
Nel tentativo di diversificare le ipotesi in cui, tramite processi di ristrutturazione, sia immaginabile il risanamento della situazione economica e finanziaria dell'impresa, da quelle in cui la prospettiva di prosecuzione dell'attività produttiva risulti di fatto assente o, comunque, subordinata ad una finalità di tipo liquidatorio, la crisi aziendale viene esclusa dal novero dei casi che giustificherebbero, seppur a seguito di un accordo sindacale che salvaguardi almeno parzialmente l'occupazione, la totale disapplicazione dell'art. 2112, c.c.
Ciò in quanto l'accertamento dello stato di crisi non è teso ad un fine analogo a quello perseguito nell'ambito di una procedura di insolvenza ex art. 5, n. 2, lett. a, della Direttiva e, soprattutto, non appare soggetto ad alcun controllo da parte di un'autorità pubblica competente.
A ben vedere, l'accertamento dello stato di crisi aziendale, ai sensi dell'art. 2, comma 5, lett. c), l. 12 agosto 1977, n. 675, è oggi destinatario di una disciplina che ribadisce la piena applicabilità dell'art. 2112, c.c., pur demandando all'autonomia collettiva la possibilità di modulare l'applicazione delle garanzie ivi previste (art. 47, comma 4-bis, l. n. 428 del 1990). Lo stesso vale per le aziende per le quali sia stata disposta l'amministrazione straordinaria, ex d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270, nell'ipotesi di continuazione o mancata cessazione dell'attività.
In tutti gli altri casi (qualora il trasferimento interessi aziende nei cui confronti sia intervenuta la dichiarazione di fallimento, l'omologazione di concordato preventivo con cessione di beni o quando sia stato emanato un provvedimento di liquidazione coatta amministrativa o di sottoposizione ad amministrazione straordinaria nel caso in cui la continuazione dell'attività non sia stata disposta o sia cessata), invece, il raggiungimento di tale accordo consente la disapplicazione della norma codicistica, salvo condizioni di miglior favore in esso previste.
Ebbene, facendo rigida applicazione del disposto del comma 5 dell'art 47, l. n. 428 del 1990, e sulla scorta di diversi precedenti specifici, anche recenti (vedasi, ex multis, le richiamate sentenze della Corte di cassazione n. 10066 del 2016 e n. 1383 del 2018) la Corte d'appello di Venezia, dopo aver dato atto che “L'accordo sindacale di cui all'art. 47, comma 5, l. 29 dicembre 1990, n. 428, realizza un effetto dispositivo dei diritti individuali, autorizzato dalla legge, che abilita l'autonomia collettiva a rimuovere un quadro legale altrimenti inderogabile.... introduc(endo)…. una deroga alla generale operatività dell'art. 2112, c.c. […] chesi giustifica con lo scopo di conservare i livelli occupazionali, quando venga trasferita l'azienda di un'impresa insolvente … apparendo evidente come la priorità di tutela dal piano del singolo lavoratore (cui risponde l'esclusiva applicazione dell'art. 2112, c.c.) si sia spostata al piano dell'interesse collettivo al perseguimento dell'agevolazione della circolazione dell'azienda quale strumento di salvaguardia della massima occupazione, in una condizione di obiettiva crisi imprenditoriale, anche al prezzo del sacrificio di alcuni diritti garantiti dall'art. 2112, c.c., pur sempre in un ambito tutelato di consultazione sindacale”, conclude per il rigetto della pretesa ripristinatoria avanzata dai lavoratori, evidenziando come non possa sostenersi che la mancata sottoscrizione del verbale di rinuncia da parte di alcuni lavoratori travolga l'accordo ex art. 47 tout court, che resta pertanto valido, con conseguente impossibilità di reviviscenza dell'art. 2112, c.c., in quanto espressamente derogata dalle parti e “convalidata” dalla procedura giudiziale.
Senonchè, qualcuno potrebbe osservare come gli accordi traslativi in deroga non possano, in ogni caso, ritenersi sottratti ai limiti dell'efficacia erga omnes che sono propri del nostro ordinamento, con la conseguenza che essi possono sempre essere soggetti alla contestazione da parte dei lavoratori che non siano aderenti alle organizzazioni sindacali sottoscrittrici, senza considerare poi che proprio l'incertezza sull'efficacia degli accordi sindacali de quo ha dato luogo alla pratica diffusa d'integrarli con atti plurimi di conciliazione individuale, ai sensi degli artt. 410 e 411, c.p.c., i quali risultano ammessi dallo stesso disposto del comma 2 dell'art. 2112, c.c., con riferimento alla liberazione del cedente dalle obbligazioni contratte nel corso del rapporto lavorativo.
Ulteriore spunto di riflessione potrebbe esser dato poi dal fatto che, malgrado vi siano state pronunce favorevoli alla validità degli accordi individuali, si tratterebbe in ogni caso di atti di transazione a contenuto abdicativo privi d'una reale materia controversa e diretti esclusivamente a derogare alle norme imperative dell'art. 2112, c.c., per arginare il rischio d'un possibile licenziamento, a fronte della perdita, da parte dei lavoratori, del diritto: 1) al trattamento economico e normativo preesistente dell'impresa in procedura, con l'annesso inquadramento, qualifica professionale ed anzianità di servizio; 2) alla applicazione del contratto collettivo a prescindere che il rapporto presso il cessionario sia disciplinato da altro contratto collettivo del medesimo livello; 3) alla solidarietà del cessionario per i crediti maturati presso il cedente in procedura, per i quali, in caso di fallimento, dovrà essere fatta istanza di ammissione al passivo e ciò con particolare riferimento al TFR e a tutte le indennità derivanti dalla cessazione del rapporto di lavoro.
Continua poi la Corte veneziana, asserendo che “il cit. art. 47, comma 5, nulla dispone circa il contenuto specifico dell'accordo e l'indicazione dei criteri di selezione dei lavoratori da trasferire, prevedendo unicamente che l'accordo riguardi il mantenimento, anche parziale, dell'occupazione” e che “La specificità della fattispecie di cui alla l. n. 428 del 1990, finalizzata ad incentivare l'assunzione di lavoratori ed a conservare posti di lavoro altrimenti destinati a venir meno per effetto dello stato di insolvenza dell'impresa cedente, esclude che nel caso possano trovare applicazione criteri di scelta peculiari, in analogia a quelli previsti, per esempio, dalla l. n. 223 del 1991, art. 5, peraltro non citata dagli appellanti".
Senonchè, anche questa affermazione della Corte d'appello in merito alla completa estraneità dell'accordo sindacale di cui al comma 5, dell'art. 47, l. n. 428 del 1990, rispetto ai criteri di scelta di cui all'art. 5, l. n. 223 del 1991, ed a qualsiasi diversa indicazione dei criteri che hanno presieduto all'individuazione e alla scelta dei lavoratori da trasferire al cessionario, suscita qualche perplessità.
Il comma cinque dell' articolo 47 in esame stabilisce, infatti, che l'accordo sindacale rappresenta la “condicio sine qua non” per consentire le deroghe all'art. 2112, c.c. e, pertanto, la mancanza dell'accordo determina, per l'impresa in procedura, l'applicazione totale ed integrale a favore dei lavoratori delle tutele ivi previste, ovverosia il subentro del cessionario nei rapporti di lavoro pendenti all'atto del trasferimento, la perdurante applicazione della relativa contrattazione collettiva applicata dal cedente (salva la sostituzione con altri contratti del medesimo livello applicabili dal cessionario), la solidarietà del cessionario per i crediti dei lavoratori verso il cedente al tempo del trasferimento.
Ebbene, se il perfezionamento dell'accordo comporta, peraltro, l'obbligo di osservare la disciplina di informazione sindacale prevista dei commi 1 e 2 dello stesso art. 47, appare evidente come, nell'ambito delle comunicazioni da inviare alle organizzazioni sindacali, dovrà essere indicato il numero dei lavoratori che saranno impiegati presso il cessionario con le relative condizioni economiche e normative che verranno applicate, nonché le eventuali misure riguardanti i lavoratori eccedentari che rimangono in capo alla procedura.
Su tali presupposti, dunque, considerato come la selezione tra lavoratori che vengono trasferiti e quelli eccedentari non possa certo avvenire arbitrariamente a discrezione del cessionario, ma debba trovare fondamento esclusivamente su criteri oggettivi al fine di consentire un controllo sulla eccezionalità della deroga, non vi è chi non veda come le parti possano (se non proprio debbano) certamente far riferimento sia ad eventuali diversi criteri individuati in sede di esame congiunto, ma sia, anche, ai criteri di cui all'art. 5, l. n. 223 del 1991, ovverosia alle ragioni tecniche, produttive ed organizzative, all'anzianità aziendale ed ai carichi di famiglia.
Ciò in quanto, generalmente, i lavoratori eccedentari, che rimangono in capo alla procedura, saranno con tutta probabilità oggetto di licenziamento e, pertanto, l'utilizzo di criteri obiettivi, come sono sicuramente quelli dell'art. 5, l. n. 223 del 1991, dovrebbe proprio evitare che detti lavoratori eccedentari possano fondatamente contestare il mancato trasferimento al cessionario, rispondendo, oltretutto, tale criterio obiettivo, ai generali principi di correttezza e buona fede che devono presiedere alla stipulazione, interpretazione e all'esecuzione di ogni accordo negoziale ex artt. 1337, 1365 e 1375, c.c. |