Arbitrato e tutela cautelare

06 Novembre 2018

L'art. 818 c.p.c. conferma la tradizionale estraneità della tutela cautelare rispetto ai poteri spettanti agli arbitri: soltanto i giudici ordinari sono competenti ad emettere provvedimenti cautelari. L'inciso concernente disposizioni di legge di segno diverso va riferito al potere cautelare degli arbitri nel rito societario, ove, all'art. 35, comma 5, d.lgs. n. 5/2003, è previsto che gli arbitri, se autorizzati dalla clausola compromissoria, possono sospendere l'efficacia delle delibere assembleari oggetto di impugnazione.
Il divieto agli arbitri di rilasciare provvedimenti cautelari

L'art. 818 c.p.c., sotto la rubrica: «Provvedimenti cautelari», stabilisce che: «Gli arbitri non possono concedere sequestri né altri provvedimenti cautelari, salva diversa disposizione di legge». La disposizione conferma la tradizionale estraneità della tutela cautelare rispetto ai poteri spettanti agli arbitri: soltanto i giudici ordinari sono titolari del potere di emettere provvedimenti cautelari. Perciò, qualora ritengano sussistenti i presupposti per la concessione di un provvedimento cautelare, le parti, come vedremo, devono rivolgersi al giudice che sarebbe competente a conoscere del merito.

Le ragioni poste a fondamento del divieto possono ricondursi a tre linee di pensiero:

  • mancanza di imperium; secondo tale tradizionale orientamento il divieto di adottare provvedimenti cautelari discende dalla mancanza di poteri coercitivi in capo all'arbitro, ossia dei poteri coercitivi riservati al giudice statale (Carnacini, 881; Verde, 358); l'opinione affonda le radici nell'osservazione di Piero Calamandrei: «Forse proprio per aver intuito che le misure cautelari attengono più che alla tutela dei diritti soggettivi, alla polizia del processo, la giurisprudenza si è dimostrata restia ad ammettere che agli arbitri possa esser conferito … il potere di conceder sequestri» (Calamandrei, Introduzione allo studio sistematico dei provvedimenti cautelari, Padova, 1936, 145);
  • mancanza di poteri di cognizione sommaria; secondo questa tesi gli arbitri non possono pronunciare provvedimenti sommari (e così, secondo la giurisprudenza, non possono adottare l'ordinanza di convalida di sfratto ed il decreto ingiuntivo: v. p. es. Cass. 16 gennaio 1991, n. 387; Cass. 2 ottobre 1992, n. 10839; Cass. 29 Gennaio 1993, n. 1142), sicché tale interdizione all'esercizio della cognizione sommaria andrebbe generalizzata e comporterebbe il divieto di adottare provvedimenti cautelari (Auletta, 362; Cecchella, Il processo cautelare, Torino, 1997, 37);
  • «inaffidabilità» degli arbitri; si sostiene, ancora, che il divieto di rilascio di provvedimenti cautelari si spiegherebbe con la «volontà di tenere fermo il principio di totale estraneità alla materia cautelare da parte di organi che non offrono quelle garanzie di indipendenza ritenute indispensabili per la pronuncia di provvedimenti destinati ad incidere immediatamente […] sulla realtà sostanziale» (Arieta, 750).

È bene subito sottolineare che l'art. 818 c.p.c. contiene una clausola di salvezza di disposizioni di legge di segno diverso: ed in effetti, come vedremo, taluni poteri cautelari sono oggi riconosciuti agli arbitri. Inoltre, gran parte della dottrina, proprio movendo da tale clausola, ed anche guardando agli altri ordinamenti europei, ritiene, almeno de iure condendo, che si debba consentire agli arbitri di adottare provvedimenti cautelari, sia pur sottoponendo tali provvedimenti al controllo dell'autorità giudiziaria mediante una procedura analoga a quella dell'exequatur.

Vi è inoltre da dire che la complessità del problema — ma anche la marginalità della questione sotto un profilo pratico — non consente di esaminare qui il tema dei poteri cautelari degli arbitri nell'arbitrato internazionale.

Il procedimento cautelare nelle controversie compromesse in arbitri rituali

Tenuto conto del divieto posto dall'art. 818 c.p.c., e fatta salva l'eccezione di cui si dirà, la parte che, in presenza di una controversia compromessa in arbitri, ambisca al rilascio di un provvedimento cautelare deve agire dinanzi al giudice ordinario, il quale farà in buona sostanza applicazione della ordinaria disciplina del procedimento cautelare uniforme.

La materia è regolata dagli artt. 669-quinquies, 669-octies, 669-novies e 669-decies c.p.c.. Secondo la prima delle menzionate disposizioni, in caso di controversia devoluta alla cognizione arbitrale, la domanda cautelare «si propone al giudice che sarebbe stato competente a conoscere del merito» (in ogni caso al tribunale anche qualora la causa sia di competenza del giudice di pace: art. 669-ter c.p.c.).

Trovano pertanto applicazione gli ordinari criteri di radicamento della competenza: in breve, cioè, la domanda cautelare si propone al medesimo giudice al quale essa sarebbe stata proposta se la controversia non fosse stata oggetto di compromesso o clausola compromissoria.

Secondo l'art. 669-octies, comma 5, c.p.c., che quanto ai termini rinvia ai precedenti commi 1 e 2, se è stato pronunciato un cautelare ante causam, e la controversia è devoluta alla cognizione arbitrale, il beneficiario del provvedimento cautelare deve introdurre il giudizio arbitrale entro il termine fissato dal giudice o, in mancanza, entro sessanta giorni. A tal fine, la parte «deve notificare all'altra un atto nel quale dichiara la propria intenzione di promuovere il procedimento arbitrale, propone la domanda e procede, per quanto le spetta, alla nomina degli arbitri».

Secondo l'art. 669-novies c.p.c. la mancata introduzione del giudizio arbitrale determina l'inefficacia del provvedimento cautelare rilasciato: tuttavia sorge in questo caso, come d'ordinario, il problema della distinzione tra cautelari anticipatori, per i quali il giudizio di merito non è indispensabile, e cautelari conservativi, per i quali, invece, occorre introdurre il giudizio di merito a pena di inefficacia del provvedimento adottato. Ed infatti, la regola dell'introduzione del giudizio di merito, in applicazione dell'art 669-octies, comma 6, c.p.c., non si applica «ai provvedimenti d'urgenza emessi ai sensi dell'art. 700 e agli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito».

Ulteriori ipotesi di inefficacia del provvedimento cautelare sono previste dall'art. 669-novies c.p.c.: l'estinzione del giudizio di merito (comma 1), l'omesso versamento della cauzione di cui all'art. 669-undecies c.p.c. e la «pronuncia di un lodo che dichiari l'inesistenza del diritto a cautela del quale la misura cautelare è stata concessa». È inoltre stabilito che il provvedimento cautelare pronunciato prima dell'introduzione del giudizio arbitrale italiano o estero perda efficacia se il beneficiario, una volta conclusosi detto giudizio, non presenti nei termini domanda di esecutorietà del lodo arbitrale. Ove il lodo dichiari inesistente il diritto sottoposto a cautela, l'inefficacia discende automaticamente dalla pronuncia del lodo, indipendentemente dal decorso dei termini per impugnare.

Competente a dichiarare l'inefficacia ed a rispristinare lo status quo ante è il giudice che ha emesso il provvedimento cautelare. Qualora sia stato proposto reclamo contro il detto provvedimento ed il reclamo sia stato rigettato, è da credere che la dichiarazione di inefficacia debba essere adottata dal giudice del reclamo, atteso l'effetto sostitutivo del provvedimento pronunciato in tale sede (Luiso, 263)

Secondo l'art. 669-decies c.p.c., se la causa di merito è devoluta alla cognizione arbitrale, i provvedimenti di revoca e modifica del cautelare sono richiesti al giudice che ha emanato il provvedimento cautelare medesimo.

L'art. 669-duodecies c.p.c., infine, che regola l'attuazione del procedimento cautelare, attribuisce il compito al giudice che ha emesso il provvedimento, aggiungendo che «ogni altra questione va proposta nel giudizio di merito», ossia, in caso di controversia compromessa in arbitri, nel giudizio arbitrale: è stato ritenuto che la menzione di «ogni altra questione» debba essere riferita alle opposizioni esecutive (Luiso).

Un'ultima notazione va fatta al procedimento di istruzione preventiva, che, in caso di compromesso o clausola compromissoria, si riteneva precluso dalle regole dettate dal procedimento cautelare uniforme. Occorre dire che detto limite è caduto giacché la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 3, comma 1, e 24, comma 2, Cost., l'art. 669-quaterdecies c.p.c., nella parte in cui, escludendo l'applicazione dell'art. 669-quinquies c.p.c. ai provvedimenti di cui all'art. 696 c.p.c., impedisce, in caso di clausola compromissoria, di compromesso o di pendenza di giudizio arbitrale, la proposizione della domanda di accertamento tecnico-preventivo al giudice che sarebbe competente a conoscere del merito (Corte cost., 28 gennaio 2010, n. 26).

L'arbitrato irrituale

È il caso di aggiungere che la competenza cautelare del giudice ordinario è oggi estesa anche all'ipotesi di arbitrato irrituale.

Affermava in passato la giurisprudenza della Suprema Corte che il principio secondo cui nel compromesso per arbitrato libero va ravvisata una rinuncia dei contraenti alla tutela giurisdizionale dei diritti relativi al rapporto controverso, non può non riferirsi anche alle misure cautelari, poiché, essendo i provvedimenti emessi in via cautelare preordinati ad un giudizio da svolgere dinanzi agli organi investiti di potere giurisdizionale e, quindi, presupponendo la possibilità di proposizione o la pendenza di un processo di merito relativo al diritto da tutelare, ove detto processo non sia proponibile per una libera scelta delle parti, non vi è spazio per l'emissione di un provvedimento diretto ad assicurare gli effetti del giudizio di merito (Cass. civ., 17 giugno 1993, n. 6757).

Orbene, nella sua originaria formulazione, l'art. 669-quinquies c.p.c. si limitava a colmare il vuoto di potestà cautelare tradizionalmente concernente gli arbitri rituali, attribuendo la cognizione della domanda di cautela, proposta prima o nel corso del giudizio arbitrale, al giudice che sarebbe stato altrimenti competente per il merito. Con una solo apparentemente marginale modifica, la l. 14 maggio 2005, n. 80, ha poi esplicitato la altrimenti esclusa ammissibilità della domanda cautelare in caso di controversia devoluta alla cognizione di arbitri irrituali.

In effetti, sia l'arbitrato irrituale che quello rituale sono riconducibili all'autonomia privata ed alla legittimazione delle parti a derogare alla giurisdizione per ottenere una decisione della lite di fonte consensuale, da collocarsi in posizione del tutto autonoma ed alternativa rispetto al giudizio civile. In particolare, mentre nell'arbitrato rituale le parti intendono ottenere un lodo suscettibile di essere reso esecutivo e di produrre gli effetti di cui all'art. 825 c.p.c., con l'osservanza del regime procedimentale di cui agli artt. 816 e ss., in quello irrituale esse si propongono di rimettere all'arbitro la soluzione di controversie insorte o insorgendo soltanto mediante una composizione amichevole o un negozio di accertamento, impegnandosi le parti stesse ad accettare la decisione come espressione della loro volontà. Tanto premesso, non poteva più consentirsi, anche a seguito dell'intervento della Corte costituzionale con la sentenza n. 320/2002, che il compromesso per arbitrato irrituale, determinando una rinuncia dei contraenti alla tutela giudiziaria dei diritti relativi al rapporto litigioso, comportasse anche il difetto del potere del giudice di statuire sulla eventuale domanda cautelare.

Sicché, la novella dell'art. 669-quinquies c.p.c. appare rivolta ad impedire che la scelta dell'arbitrato irrituale determina automaticamente un'intollerabile rinuncia alla tutela cautelare del diritto.

Il potere cautelare degli arbitri

Se di regola, nell'ambito di una controversia compromessa in arbitri, i poteri cautelari spettano al giudice statuale, in dipendenza del divieto di cui all'art. 818 c.c., quest'ultima norma fa salvi i casi in cui è la legge stessa a disporre diversamente.

A tal riguardo, il d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, introduttivo dell'oggi abrogato processo societario, contiene una disposizione, l'art. 34, sopravissuto all'abrogazione attuata mediante l'art. 54 l. 18 giugno 2009, n. 69, che ha istituito l'arbitrato societario, speciale forma di arbitrato destinato a definire controversie relative ai rapporti interni alle società commerciali: controversie tra i soci, tra i soci e la società, tra quest'ultima e gli organi sociali, con riferimento a diritti disponibili relativi al rapporto sociale. La norma stabilisce inderogabilmente modalità di formazione della clausola compromissoria statutaria.

Il successivo art. 35, sotto la rubrica: «Disciplina inderogabile del procedimento arbitrale», stabilisce tra l'altro, al comma 5, che: «La devoluzione in arbitrato, anche non rituale, di una controversia non preclude il ricorso alla tutela cautelare a norma dell'articolo 669-quinquies c.p.c., ma se la clausola compromissoria consente la devoluzione in arbitrato di controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari agli arbitri compete sempre il potere di disporre, con ordinanza non reclamabile, la sospensione dell'efficacia della delibera».

Si tratta di un'eccezionale ipotesi derogatoria della regola generale dettata dall'art. 818 c.p.c., secondo cui, come si è visto, l'adozione dei «sequestri» e degli «altri provvedimenti cautelari», in caso di controversia compromessa in arbitri, è devoluta alla competenza esclusiva dell'autorità giudiziaria ordinaria. La regola, che è espressione di un principio come abbiamo visto radicato, viene ribadita anche dallo stesso art. 35, comma 5, in cui viene precisato che la compromissione in arbitri di una controversia societaria non preclude, ai sensi dell'art. 669-quinquiesc.p.c., il ricorso della parte al «giudice che sarebbe stato competente a conoscere del merito» per il rilascio della tutela cautelare. Ed anzi, il ricorso alla tutela cautelare dinanzi al giudice ordinario è stata ammessa, con l'art. 35, prima ancora della novella dell'art. 669-quinquies c.p.c. di cui si è detto, anche nel caso di arbitrato societario «non rituale».

Ciò detto, il menzionato art. 35, comma 5, enuclea dunque una eccezione all'ordinaria regola codicistica, riservando agli arbitri l'autonomo potere di sospendere l'efficacia della delibera assembleare impugnata. La natura cautelare e, in particolare, inibitoria di tale misura sospensiva (v. Trib. Padova, 21 febbraio 2000, in Soc., 2000, 1119) rende, dunque, la previsione dell'art. 35, comma 5, unica nel sistema.

Bisogna anzitutto ricordare, in proposito, che, secondo la Suprema Corte, le controversie aventi ad oggetto l'impugnazione di delibere assembleari possono essere devolute alla cognizione di un collegio arbitrale, ove lo statuto sociale preveda una generica attribuzione allo stesso delle controversie che possono insorgere tra la società e ciascun socio, ovvero tra singoli soci, in dipendenza dell'attività sociale (Cass. civ., 28 agosto 2015, n. 17283).

Secondo un indirizzo della giurisprudenza di legittimità che appare tuttora fermo, non è compromettibile in arbitri la controversia avente ad oggetto l'impugnazione della deliberazione di approvazione del bilancio di società per difetto dei requisiti di verità, chiarezza e precisione. Invero, nonostante la previsione di termini di decadenza dall'impugnazione, con la conseguente sanatoria della nullità, le norme dirette a garantire tali principi non solo sono imperative, ma, essendo dettate, oltre che a tutela dell'interesse di ciascun socio ad essere informato dell'andamento della gestione societaria al termine di ogni esercizio, anche dell'affidamento di tutti i soggetti che con la società entrano in rapporto, i quali hanno diritto a conoscere la situazione patrimoniale e finanziaria dell'ente, trascendono l'interesse del singolo ed attengono, pertanto, a diritti indisponibili (Cass. civ., 13 ottobre 2016, n. 20674; Cass. civ., 24 ottobre 2014, n. 22715; Cass. civ., 10 giugno 2004, n. 13031). Apertura in senso opposto si rinvengono invece nella giurisprudenza di merito, con l'affermazione secondo cui l'impugnazione delle delibere assembleari di approvazione del bilancio di s.p.a. è deferibile ad arbitri anche se si discuta della violazione delle regole di chiarezza, veridicità e correttezza e di impiego delle riserve (Trib. 9 giugno 2010, in Giur. comm., 2012, 1, II, 220) il ragionamento si compendia in ciò, che le disposizioni di cui all'art. 35, comma 5, e dell'art. 36, comma 1, del d.lgs. n. 5/2003 hanno inequivocabilmente consentito la devoluzione in arbitrato di controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari, senza distinguere – a differenza dell'ipotesi generale prevista dall'art. 34, comma 1 (che ammette l'arbitrato solo per le controversie relative a diritti disponibili) – tra vizi che determinano l'annullabilità della decisione dei soci (art. 2377 c.c.) o la sua nullità (art. 2379 c.c.), ed, in quest'ultimo caso, senza distinguere tra i vizi che riguardano il procedimento seguito per l'adozione della delibera impugnata (art. 2379, comma 1, c.c., con riferimento ai casi di mancata convocazione e di mancanza di verbale) e quelli che investono il suo contenuto (art. 2379, comma 1, c.c., con riferimento ai casi di impossibilità o illiceità dell'oggetto) (Trib. Napoli 8 marzo 2010).

La giurisprudenza di merito si è altresì pronunciata sulla questione della sospensione delle delibere ai sensi dell'art. 2378 c.c. prima della costituzione del collegio arbitrale. È vero infatti che l'art. 35 citato pone una disposizione connotata dall'inderogabilità («se la clausola compromissoria consente la devoluzione in arbitrato di controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari agli arbitri compete sempre il potere di disporre … la sospensione dell'efficacia della delibera»); ma è altrettanto vero che la lettera dell'art. 2378 c.c. appare inequivoca nell'indicare che «la misura in parola potrà essere concessa soltanto in pendenza di arbitrato» (Izzo, Sulla sospensione dell'efficacia delle delibere assembleari prima della costituzione del collegio arbitrale, in Soc., 2012, 570). Ne consegue che la sospensione della delibera non può che essere disposta a processo pendente e non già ante causam (Trib. Milano 4 ottobre 2005, in Giur. comm., 2006, 1128; Trib. Catania 14 ottobre 2005, in Giur. it., 2005, 1475; Trib. Milano 3 giugno 2010, in Corr. giur., 2011, 1137; in senso diverso Trib. Milano 14 agosto 2010, in Corr. merito, 2010, 1155; Trib. Milano 17 marzo 2009, in Riv. arb., 2009, 311; Trib. Agrigento 4 novembre 2004, in Giur. comm., 2007, 222). Taluna delle decisioni menzionate ritiene in tale contesto ammissibile prima della costituzione del collegio, il ricorso all'art. 700 c.p.c..

Riferimenti
  • Arieta, Note in tema di rapporti tra arbitrato rituale ed irrituale e tutela cautelare, in Riv. dir. proc., 1993, 750;
  • Auletta, Cognizione sommaria e giudizio arbitrale, in Verde, Diritto dell'arbitrato, Torino, 2005;
  • Carnacini, Arbitrato rituale, in Nss. dig. it., Torino, 1958;
  • Luiso, Arbitrato e tutela cautelare nella riforma del processo civile, in Riv. arb., 1991, 263;
  • Verde, Diritto dell'arbitrato rituale, Torino, 2000, 358.
Sommario