Ancora sulla valutazione del danno nelle azioni di responsabilità: un banco di prova per la coerenza dei concetti

Danilo Galletti
07 Novembre 2018

L'Autore prosegue, in questa terza parte del suo lavoro, con l'analisi del tema della valutazione del danno nelle azioni di responsabilità.
Il concorso del fatto colposo della curatela

A volte il convenuto nelle azioni risarcitorie della curatela eccepisce il concorso colposo della procedura (o della società fallita, tramite i suoi organi) nella produzione del danno, ai sensi dell'art. 1227 c.c. (la fattispecie oltrepassa i confini della responsabilità “classica” dell'amministratore o del sindaco, per coinvolgere tutti i casi in cui un terzo sia chiamato a rispondere per aver danneggiato la società decotta).

Come è noto, il disposto consta di due norme distinte: il primo comma attiene al concorso del danneggiato nella causazione del danno, dunque al nesso causale primario, e può essere anche oggetto di rilievo officioso da parte del Giudice; il secondo comma invece ha per oggetto le condotte doverose del danneggiato volte a ridurre le conseguenze pregiudizievoli del danno, trae fonte dal principio di autoresponsabilità (per una particolare sottolineatura del principio di autoresponsabilità, di recente, cfr. Cass., 14 maggio 2018, n. 11695) e di buona fede, ed è oggetto di un'eccezione in senso stretto (cfr., soltanto di recente, Cass., 6 maggio 2016, n. 9241).

Ora, in relazione alla norma di cui al primo comma, è assai difficile che il danno (inteso come evento) si possa essere prodotto col concorso della curatela (anche se non è impossibile: si pensi al professionista che rediga un parere alla società in bonis sulla possibilità di riscuotere un credito verso terzi, omettendo di evidenziare un termine di prescrizione che sta per perimersi; se sopravviene il fallimento di lì a poco, e la curatela omette di azionare tempestivamente il diritto in giudizio, l'evento dannoso è costituito dall'estinzione del diritto, fattispecie alla cui formazione concorre anche la procedura, col suo comportamento omissivo, colpevole o meno) , e dunque dopo il fallimento. Nel caso ove ciò avvenisse, tuttavia, l'applicazione dell'art. 1227 c.c., in modo da attenuare la responsabilità del danneggiante, sarebbe inevitabile, anche tramite il rilievo officioso del Giudice.

Dovrebbe invece escludersi la possibilità di fare applicazione dell'art. 1227 c.c. rispetto alla condotta degli organi della società fallita, i quali nella stragrande maggioranza dei casi potrebbero essere in astratto anche corresponsabili della formazione del danno.

Ritengo tuttavia che l'applicazione dei principi in materia di concorso nella causazione del fatto lesivo altrui (art. 2055 c.c.) e di lesione del credito (in specie, rispetto alla c.d. induzione all'inadempimento) possano e debbano trovare applicazione nella fattispecie, non potendo il danneggiante eccepire nei confronti della società il concorso, anche doloso, del fatto dei suoi organi.

D'altro canto, anche in materia di rappresentanza “legale” deve escludersi che il concorso, in danno del rappresentato, del fatto illecito pur doloso del rappresentante legale e del terzo possa escludere la responsabilità di quest'ultimo, posto che diversamente verrebbe meno la stessa esigenza di tutelare l'interesse del rappresentato (cfr. per tutti Bianca, Commento all'art. 1227, in Comm. c.c. Scialoja- Branca, Bologna- Roma, 417 ss., anche per l'affermazione per cui il concorso fra danneggiante e soggetto del cui operato il danneggiato debba rispondere - ad es. il dipendente dell'imprenditore ex art. 1228- 2049 c.c. - può generare riduzione del risarcimento ex art. 1227 c.c., e non già “assorbirne” la responsabilità).

Più complesso sembra il ragionamento da fare con riferimento al disposto di cui al secondo comma.

Sono molteplici infatti le condotte potenziali della Curatela che potrebbero essere assunte come idonee ad aggravare, o meglio non attenuare, le conseguenze lesive della condotta dell'agente.

Si pensi ad es. al caso, contiguo alla fattispecie descritta nel precedente paragrafo, in cui sia posto in essere un pagamento preferenziale, e la curatela non attivi il giudizio revocatorio che potrebbe condurre a recuperare quanto erogato.

Od ancora al mancato recupero colposo di un credito verso terzi, o più in generale al mancato conveniente realizzo di un cespite dell'attivo fallimentare (le risultanze dello stato passivo sono invece ritenute incontestabili, per i fini di cui all'art. 1227 c.c., da Cass., 29 dicembre 2017, n. 31204), ciò che comporta una possibile depressione dei valori dell'attivo realizzato, e dunque potenzialmente un maggior danno addossato al responsabile.

In linea generale, come si diceva poc'anzi, l'art. 1227, comma 2, c.c., si alimenta dal principio di buona fede e di autoresponsabilità; ciò fa sì che lo sforzo “esigibile” dal danneggiato possa compendiare anche specifici comportamenti attivi, rivolti a far salvo l'interesse della controparte, ma non richiedere un sacrificio apprezzabile del proprio (v. di recente Cass., 11 marzo 2016, n. 4865: “l'obbligo del creditore di cooperazione e di attivazione volto ad evitare l'aggravarsi del danno, secondo l'ordinaria diligenza ex art. 1227, comma 2, c.c., riguarda solo le attività non gravose, né eccezionali, o tali da non comportare notevoli rischi o sacrifici”).

L'onere di allegazione e della prova incombe, secondo i principi generali ed in forza della ricostruzione giurisprudenziale, sull'eccipiente danneggiante (cfr. ex multis Cass., 16 aprile 2013, n. 9137), il quale dovrà provare anche che le condotte richieste avrebbero concretamente attenuato le conseguenze lesive.

Va anche detto tuttavia che quanto all'intrapresa di azioni in giudizio, la S.C. ha da sempre un atteggiamento estremamente prudente, ragione per cui in linea generale “l'esercizio dell'azione giudiziaria costituisce una mera facoltà e non un obbligo del titolare” (ex plurimis V. Cass., 13 gennaio 2014, n. 470); e ciò ovviamente sulla base della riconosciuta ed ordinaria onerosità ed aleatorietà di ogni iniziativa giudiziaria (cfr. in argomento anche G. Facci, op. cit., 309 ss., il quale peraltro sembra fautore di una conclusione più aperta di quella qui sostenuta).

Il che vuol dire che, a tutto voler concedere, sarà solo una valutazione complessiva della situazione a legittimare l'accoglimento dell'eccezione, i cui presupposti dovranno comunque essere rigorosamente provati dal convenuto; così ad es. per la pretesa di vedere l'intrapresa di azioni giudiziarie, si dovrà dimostrare che le informazioni disponibili da parte della Curatela (frequenti sono infatti i casi in cui la Curatela si trova in regime di asimmetria informativa rispetto alle vicende amministrative della società decotta, laddove il convenuto può trovarsi in situazione di vantaggio informativo), le risorse economiche pure disponibili per finanziare tali iniziative, avrebbero imposto di procedere in sede giudiziaria, con più che buone probabilità di successo, e ridotte possibilità di débacle.

Va anche detto che taluni argomenti formali sembrano anche mettere in discussione la possibilità astratta che il convenuto sia legittimato a sollevare tali eccezioni: da un lato infatti la curatela potrebbe essere stata autorizzata ex art. 35 l.fall. dall'organo competente della procedura a non instaurare determinati giudizi, o comunque a procedere alla liquidazione attraverso determinate forme anziché altre; e benché sia difficile individuare una legittimazione del convenuto in giudizio a reclamare tali provvedimenti ex artt. 26-36 l.fall., non è irrilevante la volontà legislativa di rendere definitivi ed incontestabili tali provvedimenti, ed esclusivo in capo al solo Tribunale ogni potere di controllo sulla regolarità dell'operato del curatore (artt. 37-38 l.fall.).

Ma soprattutto, non appare affatto certo che il convenuto possa eccepire in particolare alla Massa creditoria, la quale agisce ex art. 2394 c.c. sostituita dalla curatela, un fatto colposo imputabile a quest'ultima; il curatore infatti non è un mero mandatario dei creditori, a cui gli stessi possano rivolgere ordini o direttive, e del cui operato dunque debbano rispondere come se si trattasse di un “ausiliario”.

Le immissioni da parte dei soci: conferimenti e finanziamenti

E' assai frequente che nel corso dei giudizi di responsabilità avviati contro ex amministratori, che siano anche soci della società fallita, questi ultimi eccepiscano, strumentalmente alla pretesa attenuazione del danno arrecato, di aver immesso nel patrimonio sociale somme di denaro, a titolo o di finanziamento, oppure di conferimento “atipico”, sotto forma di versamenti “a fondo perduto”.

La giurisprudenza di qualche Tribunale delle Imprese è solita in effetti attribuire valore alle poste erogate a titolo di finanziamento, che potrebbero essere oggetto di una vera e propria compensazione con il debito risarcitorio.

Tale ultima conclusione tuttavia dovrebbe a mio avviso essere rimeditata: e ciò a prescindere dalla scarsa importanza pratica che la questione assume nei casi più gravi, là dove l'importo dei danni arrecati ascende a livelli numerici molto rilevanti, e dunque anche la sua diminuzione a causa della eccepita compensazione sarebbe probabilmente assai limitata.

In realtà infatti mi pare che difettino radicalmente i presupposti legali della compensazione.

In teoria il credito del socio dovrebbe essere oggetto di accertamento con le forme della verifica dello stato passivo; e l'ammissione del credito di regresso/rivalsa del fideiussore non potrebbe neppure avvenire, prima del pagamento integrale del debito, se non, secondo talune applicazioni, nella forma condizionale, “con riserva”.

Ma in realtà una copiosa giurisprudenza, soltanto di recente messa in discussione da taluni precedenti del S.C. invero abbastanza “scheletrici” nella motivazione, reputa il convenuto in giudizio legittimato ad eccepire in via riconvenzionale l'effetto compensativo, al fine di paralizzare l'azione di condanna della curatela.

Tali finanziamenti tuttavia nella maggior parte di casi sono qualificabili come postergati ai sensi degli artt. 2467-2497-quinquies c.c., norme queste applicabili anche alla maggior parte delle s.p.a. fallite, a causa della struttura tipicamente “familiare” del capitalismo italiano [a tale conclusione peraltro la giurisprudenza recente è già pervenuta con decisione, affermando l'esigenza di un'applicazione “transtipica” della norma, con particolare riferimento a quelle s.p.a. ove il ruolo del socio e la sua “influenza” sull'impresa sia n concreto paragonabile a quella del socio di s.r.l. La giurisprudenza di merito era già giunta a tale conclusione affermando che “la disciplina di cui all'art. 2467 c.c., oltre a soddisfare esigenze di tutela dei creditori che possono in concreto ricorrere non solo nell'ambito di società a responsabilità limitata ma anche nell'ambito di società per azioni c.d. chiuse (come posto in luce da Cass. n. 14056/2015), non è di per sé una disciplina singolare o isolata nel complessivo disegno del diritto societario, ma appare invece del tutto coerente con le linee fondanti di tale disegno, prevedenti, per lo svolgimento di attività di impresa in forma societaria, l'immissione da parte dei soci di capitale di rischio e il rinnovo di tale immissione nel caso di perdita del capitale originario, sicché, in tale contesto di norme (relativo in particolare alla disciplina dei conferimenti e agli obblighi di ricapitalizzazione), la valenza anti-elusiva della postergazione dei finanziamenti dei soci ex art. 2467 c.c. appare espressione di un principio generale, volto ad evitare uno spostamento del rischio di impresa sui creditori; si tratta, quindi, di un principio generale esplicitato dal legislatore solo per le società a responsabilità limitata, quali società tendenzialmente e ontologicamente più esposte al rischio di sottocapitalizzazione in danno dei creditori, ma non per questo inapplicabile anche a società costituite in forma di società per azioni, laddove le stesse presentino, in concreto, situazioni organizzative che riecheggino quelle tipiche delle prime e, in particolare siano connotate da una base azionaria familiare o comunque ristretta; dalla coincidenza tra le figure dei soci e quelle degli amministratori; dalla connessa possibilità per il socio di apprezzare compiutamente (analogamente al socio di S.r.l. tipicamente dotato di poteri di controllo ex art. 2476, comma 2, c.c.) la situazione di adeguata capitalizzazione della società” (Trib. Milano, 28 luglio 2015, in Il caso, che riprendeva il decisum conforme di Cass., 7 luglio 2015, n. 14056); conf. Trib. Roma, 15 settembre 2015; Trib. Bologna, 9 marzo 2016. Più di recente era stato possibile scorgere forse qualche elemento di perplessità sull'applicazione “transtipica” dell'art. 2467 c.c. nella motivazione di Cass., 20 maggio 2016, n. 10509, in materia di società cooperative, ove però l'asserto non assurgeva al ruolo di ratio decidendi, ma configurava in sostanza un obiter dictum; eppure il tentennamento della S.C. aveva favorito un revirement in seno allo stesso Tribunale di Milano: sent. 16 novembre 2017, in giur. delle imprese; v. però infine, con motivazione assai “determinata”, difficilmente reversibile, Cass., 20 giugno 2018, n. 16291].

Allo stesso risultato dovrebbe giungersi quanto alle garanzie rilasciate dai soci, le quali siano state escusse con successo dai creditori, ciò che dà luogo al regresso/rivalsa del socio verso la società, nei limiti di quanto pagato. La norma infatti trova applicazione anche a tutte quelle ipotesi in cui il comportamento del socio sia qualificabile come finanziamento in senso economico e “materiale” [l'orientamento prevalente, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, reputa infatti che la norma, avente natura “materiale”, e non già “formale” (finanziamenti “in qualsiasi forma” effettuati), e dunque rivolta a sanzionare il risultato di un comportamento, e non già la forma assunta da una condotta negoziale, possa essere applicata anche là dove la funzione di “finanziamento” appartenga alla causa del rapporto in senso “concreto”, al di là della veste giuridica del negozio posto in essere (Cfr. Trib. Udine, 3 marzo 2011, in Banca borsa, 2012, II, 224; Trib. Padova, 16 maggio 2011, ivi; Trib. Reggio Emilia, 10 giugno 2015, in Il caso). In tal modo, può costituire “finanziamento” anche la prestazione di una garanzia concessa dal socio in favore di un finanziatore terzo, a beneficio della società (debitore garantito), e così pure la somministrazione di merci o di servizi, là dove il creditore per il prezzo degli stessi si astenga dal richiederne il pagamento. In entrambi i casi, infatti, la società da un lato ottiene una utilità patrimoniale di cui necessita, e dall'altro viene a beneficiare del “differimento” nell'esazione di una somma di denaro, ciò che costituisce appunto l'essenza economica di ogni finanziamento].

In astratto tali valutazioni potrebbero esaurire il discorso, dato che la compensazione come è noto presuppone la esigibilità di entrambi i crediti reciproci, laddove l'applicazione degli artt. 2467- 2497-quinquies c.c. comporterebbe, secondo un orientamento assai importante, la temporanea inesigibilità.

La natura sostanziale della disposizione si misurerebbe infatti, secondo l'orientamento ad es. del Tribunale delle Imprese di Milano, proprio sul piano della temporanea inesigibilità dell'obbligazione: in tal senso “il presupposto della postergazione ex art. 2467 c.c. è il ricorrere di una fase in cui la società, in relazione all'attività in concreto esercitata, abbia la necessità delle risorse messe a disposizione dai soci (finanziatori) e non sia in grado di rimborsarli, onde con l'art. 2467 c.c. è stato introdotto, per le imprese che siano entrate o stiano per entrare in una situazione di crisi, un principio di corretto finanziamento la cui violazione comporta una riqualificazione imperativa del prestito in prestito postergato (rispetto alla soddisfazione degli altri creditori … la condizione di inesigibilità del credito ex art. 2467 c.c. può essere eccepita dagli amministratori nei confronti del socio finanziatore solo laddove il finanziamento sia stato disposto e il rimborso richiesto in presenza di una situazione di specifica crisi della società, di per sé comportante proprio la conseguenza – in termini di posizione dei soci finanziatori – che la disciplina normativa pare mirata ad evitare, vale a dire la conseguenza che i soci – non conferendo capitale ma assumendo la veste di creditori vengano a traslare il rischio di impresa sugli altri creditori, così proseguendo l'attività sociale in danno di questi ultimi, che, normalmente in una tale situazione non sarebbero disponibili ad erogare finanziamenti” (Trib. Milano 14.3.2014, in giur. delle imprese; più di recente Trib. Milano, 13 giugno 2016, ivi). Sotto questo specifico punto di vista “la condizione di inesigibilità del credito ex art. 2467 c.c. va eccepita al socio finanziatore solo laddove il finanziamento sia stato erogato, e il rimborso richiesto, in presenza di una situazione di specifica crisi della società, che impone, da un lato, che il finanziatore (socio) resti assoggettato all'inesigibilità, prescritta dalla norma, destinata ad evitare che il rischio di impresa sia trasferito in capo agli altri creditori, e che l'attività sociale prosegua in danno di questi ultimi” (Trib. Milano 15.1.2014, ivi; Trib. Roma, 1 giugno 2016, ivi; conf. Trib. Santa Maria Capua Vetere 24.7.2013, in Banca, borsa, tit. cred., 2014, II, 336).

Ad ogni miglior conto, ritengo opportuno approfondire la tematica, perché non è affatto indiscusso che il credito rientrante nel campo di applicazione dell'art. 2467 c.c. sia realmente inesigibile dal punto di vista civilistico, e non piuttosto caratterizzato da una “qualità” afferente al suo “rango”, strumentale ad un processo di “graduazione” (conff. in vario senso Vattermoli, Crediti subordinati e concorso fra creditori, Milano, 2012, p. 128 ss.; Arcidiacono, I prestiti dei soci nella società di capitali, Torino, 2012, 132 ss.; Terranova, Commento all'art. 2467, in Comm. Nigro-Sandulli, Torino, 2004, 1449 ss., 1463 ss.; Mandrioli, La disciplina dei finanziamenti soci nelle società di capitali, in Società, 2006, 172 ss.; Bonfatti, Prestiti dei soci, finanziamenti infragruppo e strumenti ibridi di capitale, in Il rapporto banca-impresa nel nuovo diritto societario, Milano, 2004, 308; Panzani, La postergazione dei crediti nel nuovo concordato preventivo, in Fall., 2006, p. 681 s.).

D'altro canto però la compensazione del credito postergato con debito risarcitorio (compensazione solo giudiziale, ovviamente, perché il credito risarcitorio è sicuramente illiquido) comporterebbe a mio giudizio comunque una violazione della ratio dell'art. 2467 c.c.

Infatti, quello che la norma vuole è che il socio immetta risorse idonee a costituire un “conferimento” già nel momento in cui egli prende la decisione di finanziamento, e non già successivamente.

Nel momento successivo in cui il socio valuta come operare col suo credito, invece, egli può soltanto rinunziare al diritto alla restituzione, “convertendo” se si vuole il suo credito in versamento a fondo perduto, così di fatto rinunziando al credito stesso, senza con ciò urtare con le finalità della disposizione.

Qualsiasi scelta giuridica differente, ivi compresa la compensazione del credito con un debito correlato, che comporti l'acquisizione da parte del socio di un qualsiasi vantaggio patrimoniale, deve ritenersi invece violativa dei fini del disposto; vantaggio di cui non avrebbe potuto godere qualora avesse compiuto l'unica azione corretta nel momento in cui ha fatto la propria attribuzione alla società, ossia un conferimento, tipico od “atipico”; azione corretta che avrebbe anche potuto evitare l'insorgere dello stato di crisi (cfr. di recente in senso contrario il Lodo Arbitrale redatto il 30 marzo 2018 da Ilaria Pagni nella vicenda “Selcom”; il lodo è pubblicato in questo portale, con mie annotazioni).

D'altro canto il fatto che il socio non riceva così denaro non sembra sufficiente ad escludere che ciò configuri “restituzione” in violazione dell'art. 2467 c.c.; non sembra infatti che potrebbe parimenti sfuggire all'applicazione della norma la “restituzione” di una somma data a mutuo mediante datio in solutum (art. 1197 c.c.).

Il problema è apparentemente più semplice quanto alle immissioni di vero e proprio equity, ossia quando il socio- amministratore immette nel patrimonio sociale risorse senza mantenere alcun titolo per la loro restituzione, così incrementando il patrimonio netto.

Il fenomeno può avvenire mediante un'attribuzione delle somme per cassa, attraverso cioè un movimento finanziario che accresce le disponibilità liquide della società, oppure tramite la mera rinunzia ad un credito precedente (probabilmente già postergato ex art. 2467 c.c.), ciò che non dà luogo ad alcun vantaggio finanziario effettivo per l'impresa.

E' da escludersi che possa operare, per queste ipotesi, il principio della compensatio lucri cum damno: l'attribuzione del socio infatti non può essere in posta in correlazione diretta con il danno, non scaturisce insomma dallo stesso fatto, e dunque non può concorrere alla determinazione del risarcimento.

Diverso sarebbe il caso ove il socio imputasse espressamente l'attribuzione alla causale di ridurre il danno: ma in tal caso non si tratterebbe più di compensatio lucri, bensì di adempimento parziale.

L'erogazione tuttavia va ad incrementare il patrimonio netto, e dunque può inquinare il risultato cui conduce la teoria dei “netti patrimoniali”, come si osservava già in altra occasione (v. Brevi note sull'uso del criterio dei netti patrimoniali, cit., § 7).

La tecnica pertanto andrà emendata al fine di considerare tale “anomalia”: normalmente infatti le risorse immesse non vanno a finanziare nuovi processi produttivi, rectius non si inseriscono in disegno pianificatorio razionale di “regolazione della crisi”, che può comportare il suo superamento, ma al contrario vengono destinate all'estinzione di normali debiti di funzionamento, secondo la regola del “prevale chi fa la voce più grossa”, laddove l'attività d'impresa continua a produrre diseconomie e perdite di gestione.

In questi casi in realtà, come si già si notava nel mio precedente scritto, le immissioni aggravano il danno, in misura che la differenza fra i netti patrimoniali però semplicemente non può rilevare.

Le perdite di gestione infatti assorbono e “bruciano” anche quelle risorse, che sono stabilmente acquisite alla società, e dunque fanno parte definitivamente del suo patrimonio, nel momento in cui sono immesse, prima di essere distrutte.

Sarebbe come se un terzo facesse una donazione alla società, avente ad oggetto un bene strumentale, e l'amministratore nottetempo lo distruggesse a martellate; non v'è dubbio che anche quell'elemento dell'attivo dovrebbe essere ristorato.

In queste ipotesi l'utilizzo del criterio della “perdita incrementale” appare allora il più idoneo a misurare tale distruzione di ricchezza.

Il problema si presenta in modo solo apparentemente diverso quando il socio rinunzia ad un proprio credito verso la società; il beneficio in termini finanziari, come si diceva, è nullo, perché il socio comunque non avrebbe esatto il proprio credito (né avrebbe potuto, essendo nella maggior parte dei casi questi crediti postergati ex art. 2467 c.c., e rischiando per di più di integrare altrimenti la condotta del reato di bancarotta preferenziale); ciononostante non vi è dubbio che il passivo contabilmente diminuisca, e così il patrimonio netto si elevi, per effetto dell'operazione.

Non vi sono in questo caso risorse liquide che la illegittima prosecuzione dell'attività possa “bruciare”; tuttavia l'applicazione della teoria dei “netti” condurrebbe ad un falso risultato, perché comunque al momento della rinunzia il passivo della società si riduce.

E' anche questa materia per l'utilizzo della tecnica, alternativa ma affine, della “perdita incrementale”, che misurerà l'effettiva diminuzione del patrimonio, non inquinata dagli effetti della rinunzia.

Il danno subito dal patrimonio sociale

Uno dei problemi più seri che sono stati affrontati in questi ultimi anni attiene alla misurazione del danno nel caso in cui l'azione della curatela prospetti da una parte la illegittima prosecuzione dell'attività di impresa dopo la perdita del capitale sociale, e dall'altro una lesione subita non già dalla Massa creditoria, le cui pretese sia legittimata a rappresentare (artt. 2394 c.c.), ma dal solo patrimonio sociale, e dunque si ponga come azione a tutela di un diritto risarcitorio che il curatore ha “trovato” nel patrimonio della società fallita, potendo esercitarlo in forza dello spossessamento fallimentare (art. 42 l.fall.), oppure subentrando alla società fallita nel processo già in corso (art. 43 l.fall.).

Tale situazione può verificarsi ad es. se il curatore sceglie di subentrare nell'azione sociale già esercitata prima dal fallimento, da un socio di s.r.l. (art. 2476 c.c.), oppure dal collegio sindacale; o più probabilmente se egli trova l'azione dei creditori già prescritta, in presenza di una serie risalente di indici sintomatici inequivoci ed “apparenti”, laddove uno o più amministratori invece siamo rimasti in carica sino al fallimento. In taluni casi poi l'azione creditoria semplicemente non è esercitabile, se non dai singoli creditori (il dato appartiene ormai alla letteratura, ed anche alla giurisprudenza: cfr. Trib. Piacenza, 12 febbraio 2015, in Fallimento, 2015, 959; e già Trib. Massa, 14 agosto 2013, poi confermata dall'ord. 27 febbraio 2014, nella vicenda Cermec, in sede cautelare; in precedenza v. Trib. Pavia, 6 novembre 2002 e 2 gennaio 2003, in Società, 2004, 219; App. Milano, 14 gennaio 1992, in Fallimento, 1992, 1146; Trib. Milano, 13 novembre 1989, in Dir. Fall., 1990, II, 1169; Trib. Padova, 18 giugno 1987, in Giur. Comm., 1989, II, 839; Trib. Reggio Emilia, 19 giugno 1979, in Giur. Comm., 1981, II, 183; contra Trib. Milano, 23 dicembre 1968, in Giur. It., 1970, I, c. 283): si veda ad es. la pretesa risarcitoria del liquidatore giudiziale di concordato preventivo, ove come è noto difetta una norma come l'art. 2394bis c.c. [peraltro va altresì detto che, secondo un orientamento per nulla isolato, e che condivido, l'azione sarebbe esercitabile nell'esecuzione concordataria anche in assenza della deliberazione assembleare, la cui ratio storica è limitata al pericolo di abusi contro gli ex amministratori con azioni di responsabilità strumentali, che potrebbero compromettere la serenità dell'azione dei gestori di s.p.a.; ratio che nel concordato, sotto il controllo dell'Autorità Giudiziaria, così come in altre situazioni simili ove pure l'autorizzazione è espressamente considerata non necessaria dalla Legge (es. art. 2409 c.c.), non avrebbe ragione di essere; e la norma pertanto potrebbe essere oggetto di un procedimento di “riduzione teleologica”; cfr. in senso conf., sia pur sulla base di argomentazioni anche diverse, I. Pagni, La legittimazione alle azioni di responsabilità nel concordato preventivo, in Fallimento, 2015, 603 ss.; M. Fabiani, Le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori di società in concordato preventivo, ivi, 616 (ed anche nel più recente Fondamento e azione per la responsabilità degli amministratori di s.p.a. verso i creditori sociali nella crisi di impresa, cit.); Trib. Roma, 20 gennaio 1996, in Società, 1996, 913; di recente Trib. Trento, 10 giugno 2016, in Il caso; contra però Trib. Bolzano, 30 aprile 2015, Hobag, in Fallimento, 2015, 955; Trib. Milano, 19 luglio 2011, Norman95, in questo questo portale; G. D'Attore, Le azioni di responsabilità nel concordato preventivo, in Riv. soc., 2015, 15 ss.).

Ma il fenomeno ha validità generale: qualsiasi pretesa esercitabile dalla società nei confronti di un terzo prima del fallimento in realtà appartiene a questa categoria: ad es. professionisti che abbiano malamente preso parte a soluzioni concordatarie o comunque di “regolazione della crisi”; banche che si ritengano responsabili per abusiva concessione di credito [come è noto infatti la curatela non può in queste ipotesi avanzare pretese in rappresentanza della Massa, difettando una norma legittimativa specifica: Cass., Sez. Un., 28 marzo 2006, nn. 7029-7030-7031; di recente Cass., 9 luglio 2008, n. 18832, e soprattutto Cass., Sez. Un., 18 maggio 2009, n. 11396 (per una ricostruzione analitica del concetto di “azione di massa”, con conferma e specifico richiamo del precedente del 2006, sia pur a proposito dell'azionabilità delle garanzie prestate da terzi nel concordato preventivo); v. anche, più di recente, Cass., 3 giugno 2010, n. 13465 (a proposito di azione di responsabilità dei creditori sociali nei consorzi); nella giurisprudenza di merito cfr. App. Bari, 17 giugno e 2 luglio 2002, in Fallimento, 2002, 1159; Trib. Monza, 31 luglio 2007; l'azione è stata respinta di recente anche dalla giurisprudenza delle Corti di Appello di Bologna (sent. 17 marzo 2015, caso Parmalat) e di Milano (sent. 20 marzo 2015); cfr. anche Trib. Lucca, 10 marzo 2017, in Il caso; in termini più favorevoli tuttavia Trib. Milano, 22 maggio 2017, caso “Neon”, e 26 febbraio 2016, caso “Ventaglio”, entrambe in giur. delle imprese; Trib. Prato, 15 febbraio 2017, in Il caso. V. però per l'affermazione della possibilità astratta del concorso della banca ex art. 2055 c.c. nel fatto dell'amministratore della società (v. infra), riconoscibilmente pregiudizievole per quest'ultima, Cass., 31 marzo 2010, n. 7956, ove la S.C. ha ritenuto sanzionabile la condotta della banca che non sollevi obiezioni a fronte del comportamento dell'amministratore che versi un assegno sul c/c intrattenuto con la società, e poi prelevi la provvista per versarla su c/c “proprio”, ad estinzione della propria esposizione personale verso l'istituto (ma l'azione era stata intentata nell'interesse della stessa società, non dei creditori); v. anche Cass., 1 giugno 2010, n. 13413, la quale ha giudicato possibile un'azione di responsabilità esercitata da una Curatela fallimentare, a tutela del patrimonio della società fallita, esercitata nei confronti di una banca, sulla base del concorso dannoso del funzionario di quest'ultima e dell'amministratore della società decotta, sanzionato dalla condanna penale per bancarotta fraudolenta e ricorso abusivo al credito. Più di recente ha affermato la legittimazione della curatela, fondandosi sull'idea del concorso della banca ne fatto illecito degli amministratori ai sensi dell'art. 2394 c.c., Cass., 20 aprile 2017, n. 9983; di poco successiva alla pronunzia n. 9983 è la sentenza del Tribunale delle Imprese di Bologna, del 13 luglio 2017, caso “Carim” (in Il caso), la quale richiede un concorso qualificato della banca in uno specifico fatto illecito degli amministratori, non ritenendo sufficiente la prosecuzione dell'attività in termini non “conservativi”, così di fatto, mi pare, trasformando la condotta della banca in un illecito a struttura necessariamente dolosa; in argomento la S.C. si è poi pronunziata ancora con la sent. 2 maggio 2017, n. 11798 (caso “Seleco”), la cui motivazione non appare in contrasto con la decisione di aprile dello stesso anno (il ricorso è rigettato per motivi processuali); infine v. Cass., 14 maggio 2018, n. 11695, in una fattispecie ove l'attore non era la curatela del fallimento, ma un terzo: la S.C. richiede la prova che il terzo ignorasse in modo incolpevole lo stato di insolvenza, insistendo parecchio sul principio di autoresponsabilità. Cfr. in dottrina anche A. Jorio, Concessione abusiva di credito, fallimento, responsabilità della banca e legittimazione del curatore, in Giur. comm., 2018, I, 262 ss.], etc.

Il problema non è dunque dato dalla fonte contrattuale dell'obbligo che si ritiene leso, ma piuttosto dalla prospettazione della lesione subita dal patrimonio della società; analoga questione infatti si pone anche là dove la curatela agisca ai sensi dell'art. 2043 c.c., ma nei confronti di un soggetto terzo che abbia pregiudicato la società entrando in contatto “occasionalmente” con la stessa (e non sulla base di un rapporto qualificato pregresso con essa).

In queste ipotesi si è giustamente dubitato della possibilità di liquidare il danno con la stessa metodica tipica delle azioni “creditorie”, ossia misurando la differenza fra i patrimoni netti nei due momenti rilevanti dell'inizio e della fine della condotta lesiva.

Non v'è dubbio infatti che tale metodologia assecondi la percezione della perdita che subisce la Massa creditoria indistinta nel suo complesso, laddove invece per la lesione subita dal patrimonio sociale il problema è più complesso: una volta raggiunta e superata la quota “0”, infatti, esso diviene insufficiente a soddisfare i creditori, e prospetticamente non vi sarà più alcuna aspettativa di residuo utilizzabile per qualsiasi attività post liquidazione (anche questa problematica era stata da me brevemente accennata in Brevi note sull'uso del criterio dei netti, cit., § 8).

Nelle uniche fattispecie sinora portate all'attenzione della giurisprudenza di merito (cfr. Trib. Milano, 17 luglio 2015, in giur. delle imprese; e Trib. Milano, 26 febbraio 2016, Fall.to Ventaglio International, p. 97 della motivazione; v. anche Trib. Milano, 1 aprile 2016, cit., che rigetta una pretesa ex art. 2476 c.c. fondata sul “danno da dissesto”, in senso apparentemente ancora più limitativo), il Tribunale ha deciso nel senso per cui il danno potrebbe semmai essere rappresentato dall'ammontare delle plusvalenze “latenti”, ossia inespresse nel bilancio di esercizio (redatto come è noto secondo canoni di funzionamento), ma rappresentative del maggior valore realizzabile di determinati assets del patrimonio sociale rispetto al valore di libro; questo perché i soci, a causa della omessa convocazione dell'assemblea al fine di deliberare lo scioglimento della società per perdita del capitale sociale, non avrebbero modo di coprire le perdite riscontrabili, così salvaguardando il valore di quelle plusvalenze, e neppure potrebbero sciogliere subito la società, realizzare queste ultime nel contesto di un regolare procedimento di liquidazione.

La questione rischia dunque di divenire un grattacapo davvero serio, posto che la carenza di casistica su queste tipologie di azioni (in genere, come si diceva, “assorbite” nelle decisioni in favore delle azioni di cui all'art. 2394) ha sinora favorito una decisa sottovalutazione del problema, che adesso si ripresenta con tutta la sua virulenza, apparentemente senza che la scienza medica sia pronta a fronteggiare l'epidemia.

E' probabile che anche tale fattispecie possa essere ricompresa, a livello operativo, nel “fuoco” del principio affermato da Cass. Sez. Un., n. 1641/2017, posto che se davvero la diminuzione del patrimonio sociale di per sé costituisce un pregiudizio rilevante per la procedura, facendo diminuire l'attivo disponibile per il riparto, e non può esserci aggravamento del dissesto senza danno per il patrimonio sociale, allora difettano radicalmente i presupposti del problema.

Ma nel caso deciso dalle Sezioni Unite l'azione esercitata dalla Curatela si fondava sull'art. 2394 c.c., dunque su un'azione tipicamente “di massa”, e ci si domandava se un pagamento fosse lesivo della Massa; mentre nelle fattispecie che abbiamo prima passato in rassegna invece l'azione esercitata è quella “sociale”, o comunque per un titolo “contrattuale”.

Il problema d'altro canto non può essere superato neppure semplicisticamente, come qualche curatela è solita fare, prospettando solo la responsabilità del terzo come concorrente con quella (anche ai sensi dell'art. 2394) degli amministratori della società, i quali hanno proseguito illegittimamente l'attività sociale, così provocandone il deterioramento patrimoniale.

Infatti la soluzione non riposa purtroppo su concetti formali, ma di natura sostanziale.

Il concorso nel fatto illecito determina il vincolo solidale fra i concorrenti (art. 2055 c.c.), e dunque agisce sul piano della illegittimità della condotta, ma non influisce né sul danno risarcibile, né sulla legittimazione dell'attore.

La giurisprudenza infatti è solita dire che l'art. 2055 c.c. può essere applicato anche per titoli di responsabilità differenti, l'uno in ipotesi contrattuale, l'altro extracontrattuale; ma questo non comporta alcuna unificazione dei titoli (a differenza di quanto capita nel concorso “penalistico” ex art. 110 c.p.), che restano pur sempre distinti, ciascuno della propria natura (dunque senza alcun “assorbimento” dell'uno nell'altro), e ciascuno condizionato dalla ricorrenza dei propri specifici presupposti applicativi (prescrizione, etc.)(l'equivoco insorto, e che trapela da certi atti giudiziari, è dunque assai simile a quello del “cumulo” delle azioni ex art. 146 l.fall., su cui mi sono già intrattenuto).

Dunque se anche la banca avesse “concorso” con gli amministratori nell'aggravamento del pregiudizio scaturito al dissesto, non per questo il curatore potrebbe rivendicare nei confronti della stessa una lesione subita dalla Massa dei creditori, perché comunque difetta una norma legittimativa specifica, e perché comunque non può che lamentare un danno subito direttamente dal patrimonio della società, e non già da tutti i creditori.

Alla stessa condotta infatti, come si è già detto, possono corrispondere più danni- evento diversi, patiti anche da più soggetti distinti, ed a ciascun danno- evento più danni- conseguenza ancora differenti.

D'altro canto non si può evitare di misurarsi con il problema- zero, quello dell'azione sociale esercitata solitariamente, al fi fuori di qualsiasi concorso; qui infatti non ci si potrebbe mai cercare di nascondere dietro le gonne di un'azione “di massa” tipica; il problema va allora affrontato frontalmente ed ab origine.

Ritengo opportuno sgombrare subito il campo da un equivoco di fondo: quando ci si interroga sul danno nell'azione sociale, spesso si dà per presupposto che i reali danneggiati siano i soci, i quali verrebbero lesi nel proprio diritto al riparto finale post liquidazione, oppure nel valore della propria partecipazione (cfr. in argomento E. La Marca, Il danno alla partecipazione azionaria, Milano, 2012, passim).

Per questo motivo, probabilmente, si tende ad assumere con relativa certezza che una volta raggiunto il livello zero, le successive diminuzioni del patrimonio sociale resterebbero neutre.

E per lo stesso motivo si fa forse anche istintivamente riferimento (v. anche le citate sentenze del Tribunale delle Imprese di Milano) al fatto che i soci, se avessero saputo della reale condizione della società, avrebbero avuto la possibilità di ricapitalizzare la stessa società.

In realtà però l'esempio fatto appare già di per sé di scarsissima rilevanza pratica, perché nella realtà empirica del nostro capitalismo i soci tendono a coincidere con gli amministratori (o comunque questi ultimi agiscono “alle dipendenze” dei primi), e dunque è implausibile che sussista davvero una asimmetria informativa fra gli stessi: i gestori semplicemente occultano lo stato di dissesto perché così vogliono i soci, giacché questi non sono minimamente intenzionati a riequilibrare la situazione con nuovi apporti di equity.

Ma soprattutto, esso conduce a visualizzare un danno che in realtà riportano i soci, non la società. Danno che in realtà sembra afferire alla sfera applicativa dell'art. 2395 c.c. (e 2476, comma 6), non dell'art. 2393 c.c.

Le alterazioni del valore della partecipazione posseduta sono inoltre oggetto di azioni concorrenti da parte dei soci e della società soltanto in un caso, quello di cui all'art. 2497 c.c., che corrisponde ad una ratio affatto peculiare (v. per tutti La Marca, op. cit., 381 ss.). In tutti gli altri casi il socio può rivendicare solo il danno che subisce direttamente (sulla eccezionalità dell'art. 2497 c.c., sotto questo punto di vista, e sulla portata generale del limite di cui all'art. 2395 c.c., v. di recente Cass., 21 luglio 2016, n. 15025), laddove l'azione per restaurare il patrimonio sociale rispetto a tutti i soci spetta solo alla società.

La prospettiva in cui bisogna porsi, a proposito dell'art. 2393 c.c., è quella per cui il danno è subito dalla società, non dai soci (anche il socio di s.r.l. che agisca ex art. 2476 c.c. del resto aziona un credito che spetta alla società, ed il risultato della condanna profitta esclusivamente a quest'ultima). E detto questo purtroppo non se ne sa molto più di prima.

E' altrettanto intuitivo d'altro canto che l'annichilimento del patrimonio sociale rende sterile qualsiasi prospettiva di profitto, ossia inerente al suo aumento potenziale (la prospettiva è ancora solo quella dell'incremento del patrimonio sociale, non del lucro per i soci: l'utile prodotto infatti non necessariamente deve essere destinato alle economie private dei soci, soprattutto nelle società di capitali), fine cui la condotta degli amministratori deve necessariamente tendere. Ciò integra la componente del danno relativa al lucro cessante; ma parlando di società in stato di crisi, sarebbe assai arduo dimostrare che tali prospettive siano davvero concrete. E come sappiamo qualsiasi ragionamento inerente al danno risarcibile, ed al nesso di causalità fra danno e condotta reprensibile, deve essere connotato da concretezza per avere qualche possibilità di riuscire anche convincente.

Ciononostante, a me pare che, spostato il fuoco dai soci alla società, anche la prospettiva del danno emergente assuma una luce differente: per recuperare la redditività che costituisce la prospettiva funzionale normale della società (art. 2247 c.c.), infatti, occorrerà colmare prima il disavanzo, ed allora non mi pare che l'asserto per cui il danno tendenzialmente può coincidere con il deterioramento patrimoniale sia così inaccettabile: esso fra l'altro soddisfa anche le visioni più “tradizionali” della c.d. teoria della differenza.

È anche vero tuttavia che non tutto torna, ragionando come se la liquidazione del danno dovesse avvenire allo stesso modo che per i creditori: se la società in particolare ha già il patrimonio netto negativo quando la condotta degli amministratori diviene antidoverosa, il risarcimento fissato nella misura della diminuzione patrimoniale (se del caso previo addebito dei costi di liquidazione) non servirebbe, o meglio non basterebbe, a restaurare la posizione del danneggiato ante- illecito, e si avverte l'imbarazzo di predicare una soluzione che comporta semplicemente, nella migliore delle ipotesi, il riequilibrio della società, il cui valore però sarebbe pari … a zero.

E la realtà empirica ci insegna che porsi nella prospettiva del riequilibrio della situazione patrimoniale della società gravemente dissestata ha senso razionale soltanto se nel patrimonio della stessa c'è qualcosa, inespresso nei valori di bilancio, che ha senso conservare per trarne utilità in futuro.

Tuttavia anche l'idea delle plusvalenze latenti, che si rinviene nella motivazione di due precedenti meneghini sul tema, e che risponde a tale suggestione, potrebbe essere non molto persuasiva [si pensi all'ipotesi in cui, a patrimonio netto già ampiamente negativo, ed in assenza di qualsiasi plusvalenza “latente”, l'amministratore si rechi nottetempo nella sede sociale col braccio armato da una potente mazza, e si adoperi per distruggere quanti più macchinari è possibile: dovrebbe forse dirsi che tale condotta sia “neutra” per la società, pur potendo configurare il delitto di danneggiamento, arrecando danno soltanto ai creditori sociali? La portata distruttiva di questo esempio (che devo ad una discussione con Carlo Trentini), pur nella sua banalità, a me pare innegabile. D'altro canto appare anche di intuitiva evidenza che per la stessa società non può essere la stessa cosa trovarsi con patrimonio netto pari a - € 200.000 piuttosto che - € 20.000.000]; in fondo, a ben guardare, essa intercetta una caratteristica che non è assente nemmeno nel caso del danno subito dalla Massa creditoria: la condotta degli amministratori di prosecuzione dell'attività diviene infatti certamente antidoverosa ex art. 2394 c.c. soltanto nel momento in cui il patrimonio netto viene misurato in termini inferiori allo “0” contabile, ma ciò avviene applicando le regole del bilancio di esercizio, ossia i criteri “di funzionamento”; lo “0” che tali criteri contabili misurano pertanto attiva sì gli effetti di cui all'art. 2486 c.c., ma è ben possibile che taluni assets, esposti all'attivo al costo “storico”, presentassero in realtà, ancora in quel momento, un valore di realizzo più elevato (come noto, la riclassificazione di un bilancio secondo principi contabili differenti, espressivi dei valori di realizzo degli assets, può teoricamente comportare tanto un deprezzamento quanto un apprezzamento dell'attivo; in genere la riclassificazione in condizioni di cessazione della prospettiva di continuità aziendale conduce statisticamente ed in modo più frequente ad una diminuzione di valore; ma non è detto che ciò debba avvenire per tutti i cespiti iscritti all'attivo. L'assunto può sorprendere, perché la prassi applicativa della tecnica dei “netti patrimoniali” conduce quasi sempre ad una drastica svalutazione degli attivi, già abbattuti in modo da non far rispondere gli amministratori delle conseguenze svalutative che comunque si sarebbero prodotte, anche se gli amministratori avessero provveduto a chiedere tempestivamente lo scioglimento e la liquidazione della società).

Il mancato integrale realizzo di tali attivi, secondo il loro valore “latente”, potrebbe dunque essere legittimamente imputato agli amministratori.

Anche in questo caso l'onere probatorio per la curatela o comunque per la società non sembra affatto tenue: in sostanza si dovrà dimostrare non solo che il bene “valeva” x+y (dove x è il valore di libro, ed y la plusvalenza “latente”), al fine di ottenere la condanna degli amministratori al pagamento di y, ma anche [anche in questo caso non si tratterà necessariamente di una prova diretta, verosimilmente quasi impossibile (si pensi ad es. alla disponibilità di offerte di acquisto pervenute alla società in bonis, situazione difficile da riscontrare, se i gestori non le abbiano ricercate e sollecitate, col risultato che l'inerzia colpevole degli stessi andrebbe a detrimento del successo della prova), ma anche di una prova “logica”, che si potrà avvalere di presunzioni, e di massime di esperienza (ad es. l'esistenza nel contesto temporale di un florido mercato di beni di quel tipo). Non è affatto da escludere d'altro canto che si possa ragionare anche a questi fini in termini di chances (v. infra): l'omesso avvio del procedimento di liquidazione priva la società della possibilità di realizzare tali valori “potenziali” dell'attivo in modo vantaggioso; dunque il Giudice potrebbe convenientemente liquidare il danno in una misura pari ad un'aliquota di quel valore di y, “scontando” nella liquidazione equitativa le probabilità di realizzare quei ricavi; il processo potrebbe anche avvalersi forse di un ragionamento “a scalare”, che tenga conto della probabilità regressiva di realizzare valori sempre via via più elevati rispetto al book value) che lo stesso asset aveva buone possibilità di essere concretamente realizzato in quella misura.

Non sarà quindi forse sufficiente la redazione di una perizia di stima, su incarico delle Curatela (od anche mediante c.t.u.), con la logica dell'”ora per allora”, perché una cosa è il valore ed un'altra è il prezzo realizzabile; nei periodi di intensa crisi come quelli che stiamo vivendo fra l'altro quella forbice tende ad acuirsi, in forza dell'aumento di offerta di beni dello stesso tipo da una parte, e della diminuzione di domanda dall'altra (anche per effetto della riduzione di numero degli utilizzatori, soprattutto per beni specifici e tipici di settori in crisi congiunturale).

L'esempio non è dunque forse del tutto soddisfacente, e sicuramente non esaurisce i termini del problema; ciononostante esso aiuta a comprendere un aspetto del fenomeno molto importante: come si diceva poc'anzi il danno risarcibile ex art. 1223 c.c. non si estende solo sino alla differenza aritmetica fra il livello numerico dello stesso nei due momenti rilevanti ai fini del giudizio.

Sono risarcibili infatti anche i pregiudizi subiti per aver perso delle utilità, pur suscettibili di ristoro in termini economici, ed eppure non già appostate all'attivo: il livello del patrimonio netto, dunque, tanto misurato secondo canoni “di funzionamento”, quanto “di liquidazione” (ossia secondo i criteri dell'OIC n. 5 e adesso n. 11), non costituisce mai un tetto massimo della risarcibilità, e questo proprio perché è di responsabilità civile che stiamo discorrendo, ossia di un istituto che vive in un contesto sistematico i cui principi non possono essere semplicemente ignorati a causa della “specialità” del settore di riferimento, ed il danneggiato è la società, non i soci.

Né tantomeno costituiscono un limite invalicabile al risarcimento i valori “venali” degli assets di cui la società è titolare, ed anche questo la giurisprudenza civile lo afferma con convinzione da tempo (v. supra).

Se ad es. un asset specifico abbia un valore di realizzo [è superfluo dire che l'ammortamento già eseguito nei bilanci della società ha anch'esso un valore molto relativo ai fini di ciò che stiamo dicendo, corrispondendo esso ad un ideale meramente astratto e “standardizzato” (dunque necessariamente distante dalla realtà specifica e concreta) di residua utilizzabilità del bene] modesto, ma sia difficilmente reperibile sul mercato, in quanto esso è un prototipo, è stato autoprodotto internamente all'azienda, o comunque non è più presente in modo abbondante sul mercato, è più che legittimo che l'ammontare del risarcimento sia ragguagliato alle risorse economiche necessarie per procurarsene un altro, anche al limite considerando il costo integrale di ricostruzione dello stesso.

Il bene della società nel caso che stiamo esaminando per la verità non è stato distrutto; ciononostante le utilità che lo stesso poteva apportare al patrimonio sociale sono state inertizzate dalla condotta dell'amministratore, che ha dissipato il patrimonio sociale gravandolo di un passivo insostenibile; sicché verrà meno con certezza il “potere” della società di utilizzarlo nel processo produttivo.

Uscendo dalla metafora “materiale”, si immagini una società che sia titolare di una concessione amministrativa assai ambita, che tuttavia non può essere ottenuta ex novo facilmente, ad es. perché il regime normativo è mutato, oppure perché il rilascio di quei titoli richiede la dimostrazione di rilevanti requisiti di esperienza, che la società col fallimento o comunque con la cessazione forzata dell'attività ovviamente non può più possedere (forse l'esempio delle SOA potrebbe apparire calzante). Tale asset non necessariamente sarà presente nell'attivo della società; eppure, quand'anche lo fosse, è possibile dunque che la perdita per la società derivante dalla sua “inertizzazione” per dissesto sia superiore a quanto espresso nell'attivo.

Il discorso potrebbe forse essere estremizzato con riferimento alla componente immateriale dell'azienda sociale, espressa dall'avviamento e dagli altri intangibles [oppure, in prospettiva più suggestiva, e non mainstream, dal “valore dell'organizzazione” (VoR): cfr. sul punto Ant. Rossi, Il valore dell'organizzazione nell'esercizio provvisorio dell'impresa, Milano, 2013, passim, che discorre di una componente di valore ulteriore rispetto alla sommatoria di patrimonio netto ed avviamento, componente che misura essenzialmente il valore dell'attività “creativa” dell'imprenditore nello stipulare i rapporti contrattuali dell'impresa; il tutto in una visione come si vede molto più “moderna” dell'impresa, che spesso si esaurisce in un fascio di rapporti rappresentati da contratti di impresa].

Sarebbe dunque così incongruo proporre di stimare il danno, in questi casi, facendo riferimento ai flussi reddituali che ci si poteva attendere dalla prosecuzione di quella concessione amministrativa, con una struttura debitoria “ragionevole” (il concetto non deve sorprendere, stante la formulazione dell'art. 2467 c.c.), o comunque non completamente disequilibrata (a differenza di quella oggetto della condotta denunziata degli amministratori)?

E facendo un passo in più, sarebbe assurdo ipotizzare di liquidare il danno subito dalla società in misura pari all'entità del canone che la stessa avrebbe potuto ragionevolmente esigere da un affittuario dell'azienda [come è noto infatti nell'affitto di azienda chi la assume in godimento non risponde dei debiti pregressi, se non marginalmente, in relazione a quelle passività che siano “inserite” in contratti in cui l'affittuario subentri ex art. 2558 c.c., e che non siano ancora completamente eseguiti dal lato attivo (cioè non siano divenuti meri “debiti” ex art. 2560 c.c.). Dunque l'affittuario riceve un compendio che è “depurato” dalle conseguenze principali della mala gestio degli amministratori, quelle che hanno inciso sulla debitoria, ed è disposto dunque ad erogare un canone che ne prescinde, e che dunque può forse misurare in modo approssimativo il valore “residuo” dell'azienda] reperito sul mercato? Con adeguati correttivi, in modo da adeguare il risultato alla realtà concreta della situazione, ad es. attualizzando il canone per un numero idoneo di annate (un correttivo, dato che anche in questa ipotesi il processo concausale, nella forma dell'analisi delle alternative controfattuali favorevoli, presuppone la cooperazione di terzi la cui condotta è “discrezionale” (v. infra), potrebbe forse discendere anche in questo caso dal ragionare in termini di chance, così contribuendo ad adattare la liquidazione equitativa alla situazione concreta).

L'avvocato del diavolo potrebbe dire: ma non è un'alternativa “irreale”, quella della liquidazione ove si rinviene un affittuario disponibile ad acquisire l'azienda, quando in realtà la società è fallita con un passivo enorme? Come si sarebbe potuto sostenere il peso finanziario di quel passivo avendo come unici ricavi i canoni di affitto?

L'obiezione sarebbe tuttavia in realtà malcentrata, perché qui non si tratta di ipotizzare cosa si sarebbe potuto fare alla fine della condotta illecita degli amministratori, bensì all'inizio: ossia al momento in cui il patrimonio netto discende al livello “0”, ed esso è ancora teoricamente sufficiente per coprire tutte le passività; insufficiente lo diviene soltanto dopo, ma se gli amministratori avessero adottato la condotta alternativa corretta l'affitto (almeno in molti casi) sarebbe stata una soluzione ancora plausibile; dunque si tratta di un'alternativa controfattuale astrattamente ragionevole, e “valida”: saranno semmai i convenuti a dover dimostrare perché nel caso concreto essa non fosse praticabile (ad es. perché i contratti d'azienda più importanti contenevano clausole di scioglimento in caso di trasferimento anche del godimento dell'azienda, etc. ).

Ma l'obiezione è utile anche per introdurre un tema credo determinante per queste ipotesi, soprattutto in un periodo di crisi strutturale e prolungata come quello che stiamo vivendo.

L'impresa di cui stiamo discorrendo è senza dubbio un'impresa in crisi, che supera ampiamente la “soglia critica” di permanenza sul mercato (tant'è vero che essa avrà normalmente perso la continuità aziendale) nel momento in cui perde il suo capitale, ed i soci sono per definizione incapaci o non interessati a riequilibrarla con immissioni di equity sufficienti a riportare il patrimonio netto al livello minimo necessario.

L'ordinamento giuridico che si è adattato a questo contesto di crisi dopo le Riforme del 2005-2007, tuttavia, non visualizza più come unica soluzione possibile per questi casi quella del fallimento: le alternative controfattuali in cui si concentrano le condotte alternativamente corrette sono infatti molto più complesse.

Gli amministratori potrebbero infatti decidere (e forse sono anche onerati) di ricorrere ad uno strumento giuridico di “regolazione della crisi”: un rimedio stragiudiziale, ad es. un piano attestato di risanamento (art. 67 l.f.), un accordo di ristrutturazione (art. 182bis l.f.), oppure giudiziale (concordato preventivo).

Tali soluzioni sono senz'altro “costose”, nel senso che esse assorbono, in misura differente e relativa allo specifico contesto, risorse economiche, in termini di costi professionali, oppure di perdite di valori, che incidono sul patrimonio sociale, oppure di sacrifici necessari per i creditori, od ancora per i soci (chiamati ad es. a ricapitalizzare in parte la società, così finanziando parzialmente la ristrutturazione, oppure a subire diminuzioni della propria quota di partecipazione sociale in caso di aumenti di capitale riservati, etc.).

L'osservazione mette in evidenza come a questi specifici fini il danno per la società possa divaricarsi da quello per i creditori: difficilmente questi ultimi accetteranno sacrifici che non si accompagnino a parallele “rinunzie” del soggetto economico, ma in ogni caso i due profili, che quasi sempre si trovano confusi a causa del “cumulo” delle due azioni esercitate dalla curatela, vanno tenuti distinti.

Nel momento in cui il capitale viene perso, ed il patrimonio scende sotto lo zero, sorge l'obbligo degli amministratori di adottare una condotta alternativa corretta fra quelle possibili, nel novero delle ipotesi già scrutinate; se il patrimonio sia già gravemente deteriorato, probabilmente l'unica ipotesi percorribile sarà quella liquidatoria (ed addirittura fallimentare, se non sia più possibile “assicurare” ai creditori il 20%), nel qual caso difficilmente potrà residuare qualcosa in capo alla società al termine della ristrutturazione (la possibilità giuridica di conservare qualche elemento dell'attivo al debitore al termine del procedimento concordatario è come noto assai discussa, e verte sul ruolo sistematico dell'art. 2740 c.c.); siamo nel dominio delle situazioni ove l'applicazione del canone delle plusvalenze “latenti” è forse giustificato.

Ma nella maggioranza dei casi la considerazione della situazione iniziale (ossia in “t1”) metterà in evidenza la possibilità teorica di procedere ad una ristrutturazione “in continuità”, che consenta di proseguire l'attività di impresa direttamente in capo alla stessa società, che così potrà pianificare il recupero del break even ed il ritorno alla redditività, oppure in capo a terzi, tramite la continuazione “indiretta” dell'attività, ad es. con la formula dell'affitto di azienda e del successivo acquisto finale.

La prosecuzione illegittima dell'attività, con la conseguente distruzione di ricchezza, priverà allora normalmente di attendibilità quegli scenari inizialmente plausibili, sostituendo agli stessi delle ipotesi concorsuali via via più deteriori.

E' questa diminuzione nelle prospettive di recupero della redditività a misurare il danno riportato dal patrimonio sociale, pari ad una parte sola della diminuzione patrimoniale.

E si vede bene anche come, allora, normalmente il danno riportato dai creditori sociali, pari a tutta quella diminuzione, sia superiore a quello subito dalla società (e solo indirettamente dai soci), condizione che del resto misura tipicamente la pericolosità di queste situazioni, l'incentivo all'azzardo morale, e la normale grave esternalizzazione del comportamento negligente degli amministratori.

E evidente che lo sforzo di astrazione che si richiede alla curatela può essere assai rilevante, e tale da rendere la prova quasi impossibile, ove si pretenda dal fallimento di dimostrare tutti gli elementi costitutivi di entrambi gli scenari (quello iniziale, in t1 per intenderci, e quello finale in t2), corrispondenti a differenti soluzioni concorsuali di regolazione della crisi; il curatore dovrebbe cioè dimostrare che un determinato piano di concordato sarebbe stato possibile in t1 (con tutte le ovvie difficoltà insite anche nel fatto che le alternative “concretamente praticabili” sono diverse, e forse innumerevoli), e non più in t2.

La gravità dello sforzo richiesto sarebbe amplificata altresì dall'esigenza di tenere in considerazione anche, nella proiezione dei fattori concausali che influenzano i singoli scenari, il comportamento prevedibile dei creditori sociali, chiamati in ipotesi ad esprimersi sulle varie soluzioni regolatorie “astratte”, e dei soci, in ipotesi disponibili ad immettere ulteriori risorse nella ristrutturazione, in determinati scenari, e non in altri.

Ma in fondo, se ben si riflette, tali soluzioni operative non sono tanto più complesse di quelle ad es. presupposte dalla tecnica della “perdita incrementale netta”, ove pur si deve indagare in ordine ai costi di una ipotetica liquidazione “ordinaria” ed “ordinata” del patrimonio sociale, così proiettando il relativo scenario alternativo a quello realizzatosi, in modo da sviluppare gli esiti della condotta alternativa corretta [condotta alternativa corretta che adesso potrebbe avvalersi anche della possibilità teorica di rinvenire, nel contesto di una soluzione concordataria pianificata dal debitore, offerte concorrenti per singoli assets od agglomerati degli stessi (art. 163bis l.f.), oppure anche proposte concorrenti (art. 163 l.fall.); cfr. in argomento F. Brizzi, Proposte concorrenti nel concordato preventivo e governance dell'impresa in crisi, in Giur. comm., 2017, I, 335 ss.].

Ed anche nel nostro caso centrale, ai fini della prevedibilità degli esiti, e della efficienza della disciplina, è la decisione giudiziale di allocazione degli oneri probatori (anche nel caso della “perdita incrementale netta” e dei “costi di liquidazione”, l'individuazione e la prova di questi ultimi non possono essere a carico della curatela, fra l'altro notoriamente in posizione di deficit informativo rispetto ai dati necessari per proiettare addirittura uno scenario liquidatorio ipotetico in un dato momento antecedente il fallimento; sarà semmai onere del convenuto allegare e dimostrare che una parte del danno arrecato si sarebbe comunque prodotta, anche ove fosse stata adottata la condotta alternativa corretta; il debitore infatti fornisce così la prova dell'esistenza di una causa a lui non imputabile che ha prodotto parte del danno, e tale onere incombe solo su di lui, ai sensi dell'art. 1218 c.c. Trattandosi di un elemento che attiene al nesso di causa fra condotta e danno- evento, la relativa valutazione non sarà tuttavia preclusa nemmeno al Giudice ex officio, se gli elementi di fatto necessari risultino comunque apud acta).

A me pare che l'applicazione dell'art. 1218 c.c. porti alla luce come normalmente la condotta dell'amministratore che prosegue l'attività sociale in condizioni di perdita integrale del capitale sociale, sino a che l'ente fallisca, sia astrattamente idonea, secondo l'id quod plerumque accidit, a cagionare alla società un danno da perdita integrale delle alternative di regolazione extrafallimentare della crisi (ciò non può invece dirsi, come si diceva poc'anzi, quando le condizioni del patrimonio sociale rendano ragionevolmente impraticabile una soluzione ristrutturatoria al momento in cui la condotta diviene antidoverosa, ossia in t1; la prova di tale elemento di fatto deve a mio avviso essere fornita dalla curatela, in quanto esso informa la attendibilità dell'inferenza sulla regolarità causale).

Sul piano processuale alla Curatela sarà sufficiente allegare e dimostrare la diminuzione patrimoniale intercorsa fra t1 e t2, e la praticabilità in astratto di una ristrutturazione in modo da assicurare la prosecuzione “economica” dell'attività in t1.

Sarà invece onere del convenuto, ai sensi dell'art. 1218 c.c. (se del caso anche attraverso l'intervento officioso del Giudice, libero di valutare l'incidenza del nesso causale sulla base degli elementi risultanti dagli atti), dimostrare che nell'ipotesi alternativa, corrispondente alla condotta corretta, sarebbe stato possibile recuperare all'attivo una parte soltanto di tale somma, attraverso i sacrifici ragionevolmente richiedibili al ceto creditorio, attraverso un percorso ristrutturativo che comunque avrebbe assorbito dei costi.

Una valida proxy per stimare tale danno potrebbe forse anche essere costituita, in via ipotetica, dalla stima dell'entità attualizzata dei canoni di affitto che la società avrebbe potuto in ipotesi realizzare (se del caso “percepita” anche tramite c.t.u.), diminuita dei costi che comunque la ristrutturazione avrebbe comportato.

Una componente rilevante, nella valutazione del processo causale, sarà in questi casi costituita dalla previsione del comportamento ipotetico dei creditori nell'ambito del processo di ristrutturazione, là dove occorra l'espressione della loro volontà, a maggioranza o nelle forme dell'art. 182-bis l.fall. Ciò rende ovviamente sempre “incerto” lo scenario ristrutturativo, perché qualsiasi soluzione ad es. concordataria, per quanto astrattamente “ragionevole”, avrebbe potuto comunque infrangersi contro l'ostracismo di un'aliquota sufficiente di creditori, ostracismo giustificato da componenti fattuali che in molti casi sono semplicemente ignote ad un osservatore “esterno”.

Ritengo che a tale situazione ben si attagli tuttavia la tecnica di valutazione della c.d. chance (un accenno alla perdita di chance è contenuto anche nelle sentenze del Tribunale di Milano già citate in precedenza): ciò di cui è privata la società, a causa della negligenza degli amministratori, è infatti proprio la possibilità, non meramente virtuale, ma concreta, di procedere ad una ristrutturazione adeguata e razionale.

Come è noto, e come si diceva prima, la liquidazione del danno da perdita di chance corrisponde, nella ricostruzione dottrinale e giurisprudenziale, al ristoro di un elemento attuale, non futuro, del patrimonio del debitore.

Secondo la dottrina più sensibile a tale modello concettuale, il ristoro della chance non corrisponderebbe ad un'attenuazione della rigorosità del procedimento eziologico (cfr. ancora M. Bona, op. cit., 40 ss.), né all'affermazione della risarcibilità di un mero “rischio di danno”, ma ad una valutazione qualitativamente diversa della situazione pregiudizievole.

In realtà, a me pare che la tecnica risarcitoria imperniata sulla chance entri tipicamente in gioco quando nel novero dei fattori concausali rilevanti nella produzione del danno giocano anche, in modo potenzialmente decisivo, comportamenti umani connotati da un'elevata discrezionalità, e quindi difficilmente prevedibili, almeno secondo modelli stocastici che presuppongano livelli di previsione elevati.

Tale è tipicamente la situazione del voto concordatario, ove il comportamento dei creditori è astrattamente prevedibile, ma sempre in modo limitato, perché non sono noti e non possono esserlo tutti gli elementi di fatto razionali, ed al limite anche irrazionali, che determinano quella decisione, intrinsecamente “discrezionale”, anzi “arbitraria”.

Si tratta del resto di un tipico accorgimento di diritto “pretorio”, che va assunto negli stessi termini in cui esso viene elaborato, senza poterne rifiutare l'applicazione a casi specifici solo perché si ritenga “auspicabile” che la liquidazione del danno avvenga qua in modo più asettico e “preciso”.

Di conseguenza a mio avviso il Giudice ben potrà tenere conto del grado di probabilità, ossia del grado di serietà della chance che l'aspettativa del debitore a conseguire successo in una proposta di ristrutturazione presentava, adattando e graduando così l'importo del risarcimento.

L'utilizzo della chance, e la riduzione proporzionale del livello del risarcimento imputato, consentirà poi al Giudice anche di addossare a ciascun corresponsabile, in relazione alla misura della sua concreta partecipazione all'aggravamento del dissesto, la giusta quota di debito risarcitorio. E' chiaro infatti che la “chance ristrutturativa” si ridurrà in proporzione al decorrere del tempo dal momento in cui maturano i presupposti di fatto che rendono necessaria la soluzione regolatoria della crisi.

L'accertamento del danno tramite c.t.u.

Data la normale complessità delle valutazioni da compiere, è più che evidente che la determinazione del danno, nelle azioni in discorso, sia affidata quasi sempre alle risultanze di un'idonea c.t.u. disposta dal Giudice.

Anche in questo contesto tuttavia si registrano spesso prassi operative che non sembrano allineate con i principi regolatori del processo civile, per come ricostruiti dalla giurisprudenza.

Come è noto la consulenza tecnica è uno strumento essenzialmente officioso, che vale a sopperire ad un deficit informativo che appartiene al Giudice, prima ancora che alle parti, e dunque non necessita di alcuna richiesta specifica; anzi, la parte la quale “chieda” che sia disposta una c.t.u. in realtà non fa che sollecitare l'esercizio di un potere officioso del Tribunale.

Un buon quesito normalmente delimiterà l'operato del Consulente, determinando quale criterio tecnico sia da seguire al fine di addivenire alla determinazione del danno, poiché i criteri sono diversi, e spesso alternativi fra di loro (ma quando essi appaiono tutti astrattamente applicabili, forse non è insensato verificare l'esattezza del criterio principale facendo uso anche di quelli alternativi, e comparando i risultati fra di loro; questa tecnica del resto è abbastanza diffusa ad es. nella valutazione delle aziende, e risponde all'esigenza di ridurre l'eccesso di discrezionalità di cui dispone altrimenti il perito, soprattutto se è lasciato anche arbitro nella scelta del criterio da applicare. La scelta del criterio da indicare nel quesito può poi essere discussa dal Giudice col Consulente inizialmente, anche al di fuori del contraddittorio con le parti, perché il c.t.u. è il perito del Giudice, e l'unico obbligo che insorge sul Tribunale è quello di sottoporre poi le proprie decisioni all'attenzione delle parti, che potranno formulare le eventuali osservazioni); in sede di assegnazione del quesito normalmente si pone anche il problema della sfera del materiale istruttorio utilizzabile.

Gli oneri allegatori e probatori della procedura attrice in giudizio come si è visto sono assai gravosi, e non possono pertanto essere ulteriormente estesi e dilatati, sul presupposto della agevole conoscibilità di elementi di fatto assai complessi, e sui quali, lo si ribadisce, insiste una diffusa e frequente asimmetria informativa fra la curatela e gli stessi convenuti, i quali hanno invece direttamente partecipato alla formazione dei fatti oggetto dell'accertamento.

Soprattutto, non vi è motivo che gli stessi debbano essere più rigorosi di quanto invece avviene in settori limitrofi, sulla base di acquisizioni ormai stabili del processo civile.

Il novero delle produzioni che è opportuno che la Curatela effettui in giudizio è sicuramente cospicuo, ed interessa non solo e non soltanto i bilanci pubblicati, le situazioni patrimoniali straordinarie redatte, la Relazione ex art. 33 l.fall., completa degli eventuali allegati, il cui valore probatorio peraltro è assai contestato (la Relazione è atto pubblico e non vi è motivo per cui le attestazioni di fatti constatati direttamente dal curatore, o di dichiarazioni di terzi dallo stesso ricevute, non rivestano natura fidefacente; non si verte infatti in materia di responsabilità penali, e dunque il valore dell'atto non può che essere quello attribuitogli dal diritto civile. Sarà comunque di certo prudente documentare comunque i fatti ivi attestati (come sarebbe già opportuno fare negli allegati alla Relazione, anche al fine di agevolare il parallelo lavoro di ricostruzione dei fatti penalmente rilevanti da parte della Procura ella Repubblica), e verificare le dichiarazioni rese da terzi attraverso la loro induzione come testimoni, anche al fine di consentire il contraddittorio: ciò che può apparire univoco tramite la lettura di un verbale potrebbe non sembrarlo più quando all'autore della dichiarazione vengono poste domande volte a chiarire o confermare talune assunzioni tacite che il lettore è abituato a formulare), ma anche il libro giornale relativo ai periodi oggetto di considerazione, i mastrini relativi alle partite in considerazione, il libro degli inventari (che può illuminare la ragione di determinate capitalizzazioni, o denunziarne la irrazionalità e/o immotivatezza), i libri sociali, le domande di ammissione allo stato passivo (dalle quali spesso si può ricostruire la “stratificazione” anche qualitativa del passivo nel tempo, e la diversa decorrenza degli interessi per i crediti privilegiati e chirografari), l'inventario fallimentare, i rapporti semestrali ex art. 33 l.fall., e poi tutti i documenti amministrativi o contrattuali che siano rilevanti per dimostrare i fatti specifici.

Al riguardo spesso sorge solo durante le operazioni peritali l'opportunità di acquisire un determinato documento, che non appartiene già al processo; frequente è allora la convinzione che l'acquisizione da parte del c.t.u. (e soprattutto la sua considerazione ai fini delle operazioni) sia interdetta, stante la lettera dell'art. 198 c.p.c.

In realtà però la norma non risulta applicabile alle c.t.u., come ricostruite da una giurisprudenza oramai consolidata (cfr. a partire da Cass., Sez. Un., 4 novembre 1996, n. 9522), che abbiano natura non già meramente “deducente”, bensì “percipiente”, ossia la cui funzione sia quella di far percepire al Giudice un fatto di natura tecnica, che solo il c.t.u. può percepire, tramite le “lenti” del proprio sapere tecnico, oppure di dedurre l'esistenza dei fatti principali del processo dai fatti secondari, anche attraverso la loro diretta “percezione” da parte del Consulente (in dottrina v. per tutti E. Vianello, La consulenza tecnica d'ufficio, Milano, 2015, 68 ss., 91 ss.).

A tali fini si possono utilizzare anche documenti non prodotti dalle parti, e questo anche senza il loro consenso previsto dall'art. 198 c.p.c. (v. soltanto di recente Cass., 15 marzo 2016 n. 5091: “è consentito derogare finanche al limite costituito dal divieto di compiere indagini esplorative, "quando l'accertamento di determinate situazioni di fatto possa effettuarsi soltanto con l'ausilio di speciali cognizioni tecniche, essendo in questo caso consentito al c.t.u. anche di acquisire ogni elemento necessario a rispondere ai quesiti, sebbene risultante da documenti non prodotti dalle parti, sempre che si tratti di fatti accessori e rientranti nell'ambito strettamente tecnico della consulenza, e non di fatti e situazioni che, essendo posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti, debbano necessariamente essere provati dalle stesse”), quando la c.t.u. (proprio come nel nostro caso) è “percipiente”, ossia costituisce anche uno strumento di acquisizione della prova, non soltanto di valutazione della stessa.

Le c.t.u. contabili, come quella sul danno nelle azioni di responsabilità, sono il terreno ideale per queste valutazioni “percipienti”. Le scritture contabili, in particolare, schede e/o mastrini, indagano fatti accessori del giudizio, non primari, sicché la loro produzione ed utilizzo per il c.t.u. deve ritenersi sempre possibile.

In tal modo, attraverso una ragionevole ripartizione degli oneri allegatori e probatori nel processo, nonché utilizzando le massime di esperienza e le regole presuntive di cui il diritto della responsabilità civile da tempo si avvale, sarebbe forse possibile pervenire ad un trattamento equilibrato delle azioni di responsabilità esercitate soprattutto nei fallimenti, in modo da non deprimere il diritto di difesa dei convenuti, dando luogo a fenomeni di “falso positivo”, ma anche da non sterilizzare le aspettative di recupero di attivo da parte delle Masse creditorie.

Prospettive de iure condendo

La legge delega di riforma organica delle procedure concorsuali, elaborato dalla Commissione presieduta da Renato Rordorf, ed approvata con L. n. 155/2017, sancisce ora opportunamente una esplicita delega a determinare “i criteri di quantificazione del danno risarcibile nell'azione di responsabilità promossa contro l'organo di amministrazione della società fondata sulla violazione di quanto previsto dall'articolo 2486”.

A prescindere dall'omesso riferimento agli organi di controllo, la delega sembra riferibile tanto all'azione sociale, quanto a quella dei creditori, e la sua attuazione potrebbe consentire di rimuovere per sempre le asperità interpretative ed applicative che tormentano da tempo i sonni di Giudici e professionisti.

Al contempo, l'individuazione di criteri semplici, il più possibili elastici ma anche oggettivi, che si collochino nell'ambito dell'art. 1226 c.c., riducendo la sfera di discrezionalità del Giudice senza privare quest'ultimo del potere insostituibile di adattare il processo valutativo alle particolarità della fattispecie concreta, potrebbe assicurare la necessaria efficacia preventiva rispetto all'insorgere delle situazioni di dissesto, e soprattutto all'aggravamento del pregiudizio che viene ora normalmente scaricato sulla Massa creditoria, prevenzione che il sistema normativo deve svolgere, al fine di risultare efficiente.

La lettura del principio di delega appare d'altro canto in sintonia con l'altro, che instaura “il dovere dell'imprenditore e degli organi sociali di istituire assetti organizzativi adeguati per la rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi per l'adozione tempestiva di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi ed il recupero della continuità aziendale” (art. 14), potrebbe al riguardo essere assai utile (cfr. V. De Sensi, Adeguati assetti organizzativi e continuità aziendale: profili di responsabilità gestoria, in Riv. soc., 2017, 311 ss.).

Forse si potrebbe anche ipotizzare un regime giuridico in cui (quest'idea è nata durante una conversazione con l'amico Ivan Demuro), nel corso del giudizio di responsabilità attivato dal curatore (o comunque dal legittimato), il convenuto sia ammesso a provare di aver preventivamente adottato assetti organizzativi “adeguati” nella prospettiva della prevenzione della crisi, con onere integralmente a suo carico; in caso di successo nel fornire tale prova, la liquidazione del danno potrebbe essere agganciata per legge al pregiudizio scaturito da singole operazioni che l'attore dimostri abbiano danneggiato specificamente il patrimonio sociale o la Massa, secondo le regole ordinarie, escludendosi così la possibilità di liquidare una voce risarcitoria riferita alla mera prosecuzione illegittima dell'attività.

Qualora invece il convenuto fallisca nel suo onere probatorio, il percorso liquidativo potrebbe essere fissato dalla disciplina riformata, con riferimento espresso al danno da prosecuzione dell'attività, attraverso uno o più criteri “sintetici”, ad es. la differenza fra i netti patrimoniali, oppure la “perdita incrementale”, anche se del caso consentendo esplicitamente al Giudice di applicare dei “correttivi equitativi” (come ad es. dei demoltiplicatori), od in taluni casi espressamente individuati persino il deficit fallimentare (potrebbe essere utile altresì disciplinare con norme speciali la disciplina delle allegazioni probatorie, ad es. consentendo al c.t.u. di esaminare le scritture contabili della società fallita, anche in carenza di produzioni ad opera delle parti, facendo comunque salvo il contraddittorio. Il modello potrebbe essere costituito da quello dell'art. 121, comma 5°, d. lgs. n. 30/2005, che consente alle parti, nei processi “brevettuali”, di esibire direttamente al c.t.u. nuovi documenti; e ciò ovviamente con esclusivo riferimento ai documenti non inerenti alla prova di fatti che debbano essere allegati dalle parti), anch'esso opportunamente adattato ed “elasticizzato”; il tutto facendo salva la prova secondo le regole generali del danno scaturito da specifici atti ed operazioni.

In tal modo l'ordinamento incentiverebbe in modo virtuoso l'adozione di assetti organizzativi, concedendo ai gestori della crisi rilevanti benefici processuali in caso di prova dell'adempimento (il congegno normativo potrebbe assomigliare a quello introdotto dal d. lgs. n. 231/2001, ove pure l'adozione di modelli “idonei” assicura ai responsabili rilevanti benefici processuali; in quel sistema tuttavia l'adozione del modello è formalmente un onere, non un obbligo; il che però non esclude che il modello organizzativo ex lege 231 possa costituire un “assetto organizzativo” ex art. 2381 c.c., così che la sua adozione venga a costituire altresì un obbligo per il diritto comune), e lasciando ai Tribunali delle Imprese, competenti in via esclusiva a trattare tali giudizi, e sicuramente in possesso delle competenze tecniche necessarie, in forza della specializzazione, il compito di applicare la disciplina, equilibrando il sistema.

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