La Corte costituzionale e l'indennità da licenziamento illegittimo nel sistema del “Jobs Act”
14 Novembre 2018
Massima
E' costituzionalmente illegittimo l'art. 3, comma 1, d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della l. 10 dicembre 2014, n. 183) – sia nel testo originario sia nel testo modificato dall'art. 3, comma 1, d.l. 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella l. 9 agosto 2018, n. 96 – limitatamente alle parole "di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, ”. Il caso
In controversia promossa da una lavoratrice, avente ad oggetto domanda di impugnativa di licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo, il Tribunale di Roma solleva questione di legittimità costituzionale, tra l'altro, dell'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015 - il quale dispone che “Salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità” -, nella parte in cui delinea un meccanismo automatico, incentrato sull'anzianità di servizio, di determinazione dell'indennità.
La Corte costituzionale dichiara la illegittimità costituzionale della disposizione, anche nel testo (parzialmente) modificato dall'art. 3, comma 1, d.l. n. 87 del 2018 (c.d. “decreto dignità”), convertito nella l. n. 96 del 2018, ove è previsto che “All'articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, le parole ‘non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità' sono sostituite dalle seguenti: ‘non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità' ”. La questione
La questione in esame è la seguente: è conforme alla Costituzione, l'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015, che fissa, nell'ipotesi di declaratoria di illegittimità del licenziamento con applicazione della tutela “indennitaria forte” per i lavoratori assunti dal 7 gennaio 2015 (da ora “i nuovi assunti”), un criterio standardizzato di liquidazione dell'indennità basato esclusivamente sull'anzianità di servizio? Le soluzioni giuridiche
La Corte costituzionale afferma che la disposizione in questione è affetta da illegittimità, limitatamente alle parole "di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio", formula due chiarimenti ed offre una importante “indicazione”.
Il primo chiarimento è che “l'indennità” di cui all'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015 ha natura risarcitoria ed è omnicomprensiva.
Il secondo è che il licenziamento illegittimo, pur se efficace, costituisce un atto illecito, essendo adottato in violazione della norma imperativa di cui all'art. 1, l. n. 604 del 1966, ove è previsto che “il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell'art. 2119 del Codice civile o per giustificato motivo”.
Se ne desume che il licenziamento illegittimo, pur espressione di un potere mal esercitato, si risolve comunque in un inadempimento contrattuale.
L'indicazione (che ovviamente entra a far parte della norma dichiarata parzialmente incostituzionale) è che nel rispetto dei limiti, minimo e massimo dell'intervallo in cui va quantificata l'indennità - la quale, anche dopo la pronuncia, continua ad essere la somma di mensilità “da intendersi relative all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR” -, il giudice “terrà conto innanzi tutto dell'anzianità di servizio”, nonché di altri criteri, desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti, quali il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell'attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti. Osservazioni
La Corte, in primo luogo, esclude che la disposizione denunciata violi il principio di uguaglianza - secondo quanto prospettato dal giudice a quo, sul rilievo che la tutela dei lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 sarebbe ingiustificatamente deteriore rispetto a quella dei lavoratori assunti nella stessa azienda prima di tale data -, facendo perno sul noto insegnamento (su cui v., tra le altre, Corte cost. n. 25 del 2012) secondo cui “non contrasta, di per sé, con il principio di uguaglianza un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche”, nonché sull'argomentazione (presente, ad esempio, in Corte cost. n. 273 del 2011) che spetta “alla discrezionalità del legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza, delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme”.
E, nel caso, il canone di ragionevolezza è rispettato, poiché la modulazione temporale dell'applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015 ha una plausibile ragione giustificatrice, integrata dallo scopo perseguito dal legislatore, che è quello “di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione" (alinea dell'art. 1, comma 7, l. n. 183 del 2014).
In sostanza, poiché “l'introduzione di tutele certe e più attenuate in caso di licenziamento illegittimo è diretta a incentivare le assunzioni a tempo indeterminato, appare coerente limitare l'applicazione delle stesse tutele ai soli lavoratori assunti a decorrere dalla loro entrata in vigore, quelli, cioè, la cui assunzione avrebbe potuto essere da esse favorita”.
In secondo luogo è esclusa la disparità di trattamento tra i lavoratori privi di qualifica dirigenziale e i dirigenti, non soggetti alla nuova disciplina del d.lgs. n. 23 del 2015; ciò in quanto la diversità del lavoro dei dirigenti medesimi comporta che, anche nel sistema vigente, essi non sono comparabili alle altre categorie dei prestatori di lavoro di cui al comma 1 dell'art. 2095, c.c.
In terzo luogo, è ritenuta infondata la questione in riferimento agli artt. 76 e 117, comma 1, Cost., per il tramite del parametro interposto dell'art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, poiché nessun elemento consente di ritenere che la censurata disciplina “sia stata adottata in attuazione del diritto dell'Unione, in particolare, per attuare disposizioni nella materia dei licenziamenti individuali”, non avendo l'Unione medesima, con riguardo a tale disciplina, in concreto esercitato la propria competenza ai sensi dell'art. 153, par. 2, lett. d), del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, né ha adottato, mediante direttive, prescrizioni minime.
Di più stringente rilievo le argomentazioni di sostegno alla ritenuta fondatezza della questione.
Prima su tutte quella imperniata sulla violazione del principio di uguaglianza sotto il profilo dell' “ingiustificata omologazione di situazioni diverse”, nel senso che la predeterminazione dell'indennità in misura uniforme per tutti i lavoratori con la stessa anzianità, a fronte di pregiudizi eventualmente di varia entità, determina un trattamento “uguale” di situazioni in realtà diversificate.
Che i pregiudizi possano essere diversi da caso a caso è attestato, secondo la Corte, dalla comune esperienza, che fa registrare una pluralità di fattori incidenti sul pregiudizio da licenziamento ingiustificato, tra i quali l'anzianità nel lavoro è solo uno dei tanti. Ed è lo stesso legislatore, in varie norme di settore (art. 8, l. n. 604 del 1966, art. 18, comma 5, l. n. 300 del 1970), ad aver individuato tali molteplici fattori, quali, oltre quello dell'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell'impresa, il comportamento e le condizioni delle parti (ma qui c'è da dire che, in realtà, tali fattori incidono sulla misura del risarcimento, ma non tutti sul pregiudizio; ad esempio, i criteri del numero dei dipendenti occupati e delle dimensioni dell'impresa hanno riguardo alla posizione datoriale, onde commisurare il costo del licenziamento alle reali capacità dell'impresa di farvi fronte).
In definitiva, in una vicenda che coinvolge la persona del lavoratore nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, “non possono che essere molteplici i criteri da offrire alla prudente discrezionale valutazione del giudice chiamato a dirimere la controversia”. Ed “all'interno di un sistema equilibrato di tutele, bilanciato con i valori dell'impresa, la discrezionalità del giudice risponde, infatti, all'esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, pure essa imposta dal principio di eguaglianza”.
La Corte aggiunge, poi, da un lato, che la disposizione censurata, che introduce una liquidazione legale forfetizzata - ossia in misura rigida, non graduabile in relazione a parametri diversi dall'anzianità di servizio - dell'indennità, contrasta altresì con il principio di ragionevolezza, sotto il profilo dell'inidoneità dell'indennità medesima a costituire un “adeguato” ristoro (in modo tale da realizzare un altresì adeguato contemperamento degli interessi in conflitto) del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un'adeguata “dissuasione” del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente.
E, dall'altro - così prevenendo ipotetiche iniziative volte a censurare sotto ulteriori profili la norma -, che “non contrasta con tale nozione di adeguatezza il limite di ventiquattro (ora trentasei) mensilità, fissato dal legislatore quale soglia massima del risarcimento”.
Ne consegue che il giudice potrà assegnare una posta risarcitoria più elevata di quella che sarebbe stata riconoscibile sulla base della norma censurata (determinando, ad esempio, l'indennità in dieci mensilità nell'ipotesi di lavoratore con due anni di servizio), manon potrà oltrepassare la soglia massima.
La parte più significativa della pronuncia è però quella finale, ove la disposizione censurata è scrutinata alla stregua degli artt. 4, comma 1, e 35 Cost.
Sul punto è affermato che l'irragionevolezza del rimedio previsto dal comma 1 dell'art. 3, d.lgs. n. 23 del 2015 assume, in realtà, un rilievo ancor maggiore alla luce del particolare valore che la Costituzione attribuisce al lavoro, per realizzare un pieno sviluppo della personalità umana. Il diritto al lavoro e la tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni “comportano la garanzia dell'esercizio nei luoghi di lavoro di altri diritti fondamentali costituzionalmente garantiti. Il nesso che lega queste sfere di diritti della persona, quando si intenda procedere a licenziamenti, emerge nella già richiamata sentenza della Cass. n. 45 del 1965, che fa riferimento ai “principi fondamentali di libertà sindacale, politica e religiosa” (punto 4. del Considerato in diritto), oltre che nella sentenza della Cass. n. 63 del 1966, là dove si afferma che “il timore del recesso, cioè del licenziamento, spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti” (punto 3. del Considerato in diritto).
Il recupero di concetti e prospettive - in un momento storico in cui la protezione del lavoratore sembra invece concepita come riflesso di quella del datore, mediante il progressivo e generalizzato alleggerimento dei vincoli delineati dal sistema riformatore degli anni ‘70 - di lontano sapore, pare suonare come monito rivolto al legislatore ad intervenire – eventualmente in futuro – con estrema cautela sulla disciplina sui licenziamenti nelle aziende medio grandi, onde contenere quel “metus” che, ove dilagante, potrebbe alterare in modo eccessivo a favore del datore le dinamiche del rapporto di lavoro.
E, forse, è proprio nell'intento di richiamare il legislatore, mediante la rivitalizzazione dei concetti in questione, ad una particolare attenzione nel modulare le diverse discipline per il futuro, che la Corte ha evidenziato, in successione, i plurimi profili di illegittimità della disposizione censurata.
Peraltro le svariate violazioni della disposizione alla Costituzione non si fermano qui.
Vi è, infatti, in ultimo, quella agli artt. 76 e 117, comma 1, Cost., in relazione all'art. 24 della Carta sociale europea, ove è previsto - in linea con quanto affermato dalla stessa Corte sulla base del parametro costituzionale interno dell'art. 3, Cost. (e realizzandosi, in tal modo, un'integrazione tra fonti) -, che, per assicurare l'effettivo esercizio del diritto a una tutela in caso di licenziamento, le Parti contraenti si impegnano a riconoscere “il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione” (primo comma, lettera b).
Alcune annotazioni finali
Alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015, farà presumibilmente seguito, ove venga sollevata la questione, quella delle disposizioni di analoga fattura, quale l'art. 4, comma 1, del citato d.lgs., ove è previsto che “Nell'ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all'articolo 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 o della procedura di cui all'articolo 7 della legge n. 300 del 1970, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità […] di importo pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità”.
In proposito, la Corte non ha evidentemente ravvisato quel nesso di “consequenzialità”, tra la norma dichiarata parzialmente illegittima e quella di cui al richiamato art. 4, che avrebbe consentito, diversamente opinando, di dichiarare illegittima, direttamente, anche quest'ultima.
Non dovrebbero invece esservi interventi sulle norme che fanno semplice richiamo all'art. 3, comma 1, del citato d.lgs. - come ad esempio il successivo art. 9 (il quale prevede che “Ove il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all'articolo 18, ottavo e nono comma, della legge n. 300 del 1970, non si applica l'art. 3, comma 2, e l'ammontare delle indennità e dell'importo previsti dall'articolo 3, comma 1, dall'art. 4, comma 1 e dall'articolo 6, comma 1, è dimezzato”) - poiché nel richiamo stesso può ritenersi automaticamente compreso il “ritocco” operato dalla pronuncia in commento.
La seconda annotazione è che, pur a seguito della pronuncia, il giudice dovrà sempre far riferimento, nel quantificare l'indennità, in primo luogo all'anzianità di servizio, la quale costituisce, secondo la Corte, parametro indefettibile.
Ciò implica che, ove il predetto parametro non fosse considerato, la valutazione giudiziale sarebbe errata.
Può discutersi se il giudice possa continuare ad applicare un qualche automatismo tra mensilità da riconoscere ed entità dell'anzianità, stabilendo, ad esempio, che a due anni di anzianità corrispondono quattro mensilità, secondo un sillogismo matematico.
Al quesito sembrerebbe doversi dare risposta negativa, avuto riguardo al tenore complessivo della sentenza, ove è netto il ripudio del criterio fondato su un meccanismo automatico.
Ma potrebbe, per converso, sostenersi che tale criterio, nel caso - applicato dal giudice al di fuori di un obbligo di legge –, dovrebbe intendersi utilizzato in via di fatto al fine di tenere debitamente distanziati ipotetici elementi di arbitrarietà da quella che deve essere una valutazione autenticamente discrezionale; peraltro, a stemperare l'automatismo, e a mantenere la valutazione sui giusti binari, vi sarebbe il ricorso agli altri criteri.
Non può escludersi, in astratto, che una particolare valorizzazione di questi ultimi (si pensi al caso di una grande azienda che abbia intimato un licenziamento per giustificato motivo in evidente carenza dei presupposti, ai limiti della pretestuosità) possa far schizzare verso l'alto, ossia fino al massimo, l'importo risarcitorio, anche per un dipendente con pochissimi anni di servizio.
Sicché il parametro dell'anzianità, in non pochi casi, non potrà offrire alcun margine di certezza circa il costo del licenziamento illegittimo, e ciò in contrasto con l'obiettivo, perseguito in origine dal legislatore, di rendere prevedibile - mediante l'assegnazione al criterio dell'anzianità di un ruolo centrale nell'opera di liquidazione del danno - il costo in questione.
C'è quindi da immaginare che il “nuovo” contenzioso avrà ad oggetto il sindacato sulla liquidazione dell'indennità, che andrà in ogni caso riconosciuta (almeno nella soglia minima), anche ove il lavoratore nulla abbia dedotto - in punto di presupposti e condizioni - in proposito, giacché essa, in virtù della lettera della norma (ove è disposto che nei casi in cui risulta accertata la illegittimità del licenziamento, il giudice “condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità”), è necessaria conseguenza della declaratoria di illegittimità del licenziamento.
Peraltro, sul versante della prova dell'entità del danno non dovrebbero esserci problemi quanto ai parametri, in qualche modo, verosimilmente “noti”, ossia l'anzianità di servizio, le dimensioni dell'azienda, il numero dei dipendenti; un effettivo onere di allegazione del lavoratore potrà essere invece ritenuto necessario quanto all'ulteriore parametro del comportamento e condizioni delle parti.
La terza annotazione di taglio generale.
La Corte muove dalla premessa che la tutela prevista dalla disposizione censurata non è specifica, ma per equivalente.
Deve però evidenziarsi che, nel sistema del diritto civile, la tutela per equivalente garantisce al danneggiato una tutela, nella sostanza, equiparabile, appunto, a quella in forma specifica; e ciò accade, per lo più, in ipotesi di danno “istantaneo”, determinato, ad esempio, dalla distruzione, ad opera dal danneggiante, del bene non agevolmente reperibile sul mercato, sicché il giudice accorda al danneggiato l'equivalente in denaro del valore del bene stesso.
Invece, in materia di licenziamento, sanzionato (ancora, in alcune ipotesi) con tutela reale, l'indennità non è un bene equivalente al posto di lavoro (tant'è che il danno è permanente fin quando il lavoratore non venga reintegrato); la tutela indennitaria, quindi, offre qualcosa in meno di quella reale.
Del resto, se è pur vero, come ricorda la Corte, che il diritto alla stabilità del posto “non ha una propria autonomia concettuale, ma è nient'altro che una sintesi terminologica dei limiti del potere di licenziamento sanzionati dall'invalidità dell'atto non conforme”, tuttavia, la attuale presenza nel sistema della tutela reintegratoria, implica che il bene perso dal lavoratore è, comunque, il posto di lavoro, e quest'ultimo rappresenta ancora oggi il punto di riferimento oggettivo del danno.
Pertanto può affermarsi che la tutela indennitaria prevista, in via esclusiva, per gran parte delle ipotesi di illegittimità del licenziamento, costituisce - se non una riduzione di responsabilità di matrice legale - una sorta di “limitazione preventiva del danno” per l'ipotesi che quest'ultimo possa essere in concreto superiore alla soglia massima di legge.
Per riferimenti sul tema dell'indennità ex art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015, v. L. Di Paola, La disciplina sanzionatoria, in “Vicende ed estinzione del rapporto di lavoro”, III, Lavoro, Pratica Professionale, diretto da P. Curzio, L. Di Paola e R. Romei, Giuffré, 2018, 387 ss. |