La soggezione ad IVA degli accordi transattivi

15 Novembre 2018

Nel caso in cui le parti, soggetti passivi Iva, con accordi transattivi, abbiano reciprocamente rinunciato ai crediti che l'una vantava nei confronti dell'altra, impegnandosi altresì ad estinguere i giudizi pendenti, è configurabile un'operazione imponibile ai fini Iva, assimilabile ad una prestazione di servizi, corrispondente all'assunzione di obbligazioni rispettivamente di non fare e di fare, che trovano il proprio corrispettivo nella rinuncia e nell'impegno corrispondenti. L'assunzione di obblighi di fare, non fare e permettere costituisce quindi una prestazione di servizi ex art. 3 d.P.R. n. 633/1972, ed in quanto tale, deve pertanto essere assoggettata ad IVA.
Massima

Nel caso in cui le parti, soggetti passivi Iva, con accordi transattivi, abbiano reciprocamente rinunciato ai crediti che l'una vantava nei confronti dell'altra, impegnandosi altresì ad estinguere i giudizi pendenti, è configurabile un'operazione imponibile ai fini Iva, assimilabile ad una prestazione di servizi, corrispondente all'assunzione di obbligazioni rispettivamente di non fare e di fare, che trovano il proprio corrispettivo nella rinuncia e nell'impegno corrispondenti. L'assunzione di obblighi di fare, non fare e permettere costituisce quindi una prestazione di servizi ex art. 3 d.P.R. n. 633/1972, ed in quanto tale, deve pertanto essere assoggettata ad IVA.

Il caso

La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha risolto un rilevante contenzioso in tema di imposizione Iva sugli accordi transattivi.

Nel caso di specie, l'Anas e due società concessionarie, in occasione del rinnovo delle concessioni su tratte autostradali, rispettivamente di competenza di ciascuna delle due, avevano definito i precedenti rapporti obbligatori tra esse intercorsi, con accordi di tipo transattivo.

In particolare, una delle due società, all'atto della stipula della nuova convenzione, con scadenza al 2012, aveva rinunciato ai crediti che aveva maturato a titolo di mancati adeguamenti tariffari e l'Anas aveva a sua volta rinunciato al credito che vantava per canoni devolutivi.

Dal canto suo, l'altra società, al cospetto della proroga sino al 2037 della concessione, che sarebbe altrimenti scaduta nel 2007, aveva invece rinunciato al credito di cui era titolare nei confronti dell'Anas, per contributi compensativi di minori introiti di pedaggio.

Ne scaturiva quindi un avviso di accertamento, col quale l'Agenzia delle entrate recuperava, nei confronti dell'Anas l'Iva concernente queste operazioni.

L'Anas ricorreva dunque davanti alla Commissione Tributaria Provinciale di Roma, che annullava l'avviso.

La Commissione Tributaria Regionale del Lazio, di contro, accoglieva l'appello dell'Agenzia.

A sostegno della decisione, il giudice d'appello ricostruiva infatti la volontà delle parti, qualificandola come transattiva e, a fronte delle reciproche concessioni, riconosceva pertanto l'imponibilità delle operazioni ai fini Iva e, per conseguenza, la legittimità dell'avviso di accertamento.

Contro questa sentenza, infine, l'Anas proponeva ricorso per cassazione, denunciando, tra le altre, la violazione e falsa applicazione degli artt. da 1362 a 1371 e 1965 e ss. c.c., dell'art. 14, commi 3 e 4, del d.l. n. 333/92 e dell'art. 2 del decreto interministeriale n. 283/98, nonché l'insufficienza della motivazione della sentenza impugnata perché affetta da omissioni logiche e fattuali.

La ricorrente confutava, in particolare, la ricostruzione della volontà negoziale come compiuta dal giudice d'appello, il quale si era basato unicamente sul canone letterale e non già sul contesto negoziale e normativo, entro il quale le parti avevano operato, e delineato dallo schema predefinito che aveva segnato il contenuto delle convenzioni, il quale dava altresì conto della mancanza di pendenze tra le parti.

La questione

La censura proposta, secondo la Suprema Corte, per come formulata, era comunque inammissibile in relazione a entrambi i profili in cui era articolata:

- lo era quanto al profilo in diritto, perché s'infrangeva contro un tipico accertamento di fatto riservato al giudice del merito, laddove, in tema d'interpretazione del contratto, il procedimento di qualificazione giuridica consta di due fasi, delle quali la prima, appunto quella consistente nella ricerca e nella individuazione della comune volontà dei contraenti, è sindacabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione in relazione ai canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c. E la seconda, ossia quella concernente l'inquadramento della comune volontà nello schema legale corrispondente, che si risolve nell'applicazione di norme giuridiche e che può formare oggetto di verifica e riscontro in sede di legittimità, sia in relazione alla descrizione del modello tipico della fattispecie legale, sia per quanto riguarda la rilevanza qualificante degli elementi di fatto così come accertati, e sia, infine, con riferimento alla individuazione delle implicazioni sul piano degli effetti conseguenti alla sussistenza della fattispecie concreta nel paradigma normativo (da ultimo, Cass., ord. 5 dicembre 2017, n. 29111, nonché, con specifico riguardo alla transazione, 10 giugno 2005, n. 12320);

- e lo era anche quanto al profilo concernente il vizio di motivazione, perché si risolveva nella mera contrapposizione tra l'interpretazione offerta in ricorso e quella accolta nella sentenza impugnata, la quale non deve essere difatti l'unica astrattamente possibile, ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di un regolamento negoziale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l'altra (Cass. 28 novembre 2017, n. 28319).

Con altro motivo di impugnazione, la società contribuente lamentava poi la violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 6, 11 e 15 del d.P.R. n. 633/72, nonché dell'art. 14, commi 3 e 4, del d.l. n. 444/92, perché, sosteneva, in generale, il contratto di transazione individuato dal giudice d'appello non è compreso nel novero dei contratti nominati, le prestazioni scaturenti dai quali sono soggette a Iva e, in particolare, dal contratto in questione non derivavano obbligazioni di fare, di non fare e di permettere, correlate da nesso di corrispettività a controprestazioni.

Anche tale censura, secondo la Corte era tuttavia infondata.

Evidenziano infatti, a tal proposito, i giudici di legittimità che la direttiva Iva ha un amplissimo spettro di applicazione e, con specifico riguardo all'individuazione delle prestazioni di servizi imponibili, si limita a richiedere che i servizi siano prestati da un soggetto passivo in quanto tale e siano direttamente correlati al corrispettivo (tra varie, Corte giust. 3 settembre 2015, causa C-463/14, Asparuhovo Lake Investment Company 00D).

In questo contesto, quindi le categorie negoziali del diritto interno vanno connotate secondo la prospettiva tributaria, alla stregua della quale finiscono col perdere la loro complessità semantica: ciò che conta sono soltanto i tratti idonei a rivelare l'esistenza del presupposto d'imposta.

Ed è a questo fine che la Corte di giustizia sottolinea che la valutazione della realtà economica e commerciale costituisce un criterio fondamentale per l'applicazione del sistema comune dell'Iva, destinato a prevalere anche sul testo dei contratti (Corte giust. 20 giugno 2014, causa C.653/11, Commissioners Her Majesty's Revenue and Customs c. Newey, punto 40; 7 ottobre 2010, Loyalty Management UK e Baxi Group, C-53/09 e C-55/09, punti 39 e 40 nonché la giurisprudenza ivi citata), laddove la stessa Corte ha aggiunto che «la presa in considerazione degli elementi come la volontà di un soggetto passivo partecipante all'operazione è, salvo casi eccezionali, contraria agli scopi del sistema comune Iva, di garantire la certezza del diritto e di agevolare le operazioni inerenti all'applicazione dell'Iva dando rilevanza alla natura oggettiva dell'operazione di cui trattasi» (Corte giust. 11 luglio 2018, causa C-154/17, SIA «E LATS», punto 36).

In base all'art. 6, riprodotto dall'art. 24, 1° comma, della direttiva n. 2006/112/Ce, del resto, «Si considera "prestazione di servizi" ogni operazione che non costituisce una cessione di beni», laddove, in particolare, la prestazione di servizi pretende:

a.- la configurabilità di un rapporto giuridico da cui scaturiscano le attribuzioni patrimoniali;

b.- la reciprocità delle attribuzioni, data dalla sussistenza di un nesso diretto tra il servizio fornito al destinatario ed il compenso da costui corrisposto (tra varie, Cass. 9 giugno 2017, n. 14406 e, nella giurisprudenza unionale, da ultimo, Corte giust. 22 febbraio 2018, causa C-182/17, Nagyszénàs Telepeilésszolgàltadsi Nonprofit Kft).

Le soluzioni giuridiche

Nel caso in esame, dunque, in cui, con accertamento rimasto incontrastato, il giudice d'appello aveva acclarato che le parti, soggetti passivi Iva, avevano reciprocamente rinunciato ai crediti che l'una vantava nei confronti dell'altra e viceversa, impegnandosi altresì «...ad estinguere i relativi giudizi eventualmente pendenti», erasenz'altro configurabile l'operazione imponibile ai fini Iva, anche considerato che la prestazione di servizi consiste nella rinuncia al credito e nell'impegno ad estinguere il relativo giudizio pendente, che configurano obbligazioni rispettivamente di non fare e di fare e che trovano il proprio corrispettivo nella rinuncia e nell'impegno corrispondenti, assunti dalla controparte.

La sentenza in commento, peraltro, afferma di dissentire sul punto da un indirizzo emerso nella giurisprudenza della stessa Cassazione, secondo cui «...La pattuizione di un impegno negativo è ritenuta non imponibile perché l'applicazione dell'imposta in queste ipotesi normalmente si discosta dal paradigma di quella che è concepita come un'imposta generale sul consumo e dal meccanismo del suo funzionamento concreto» (Cass. 5 settembre 2014, n. 18764, resa appunto con riguardo all'imponibilità ai fini Iva di una transazione).

Secondo i giudici, infatti, l'imponibilità della pattuizione dell'impegno negativo, specificamente dell'impegno di non fare, difatti, è espressamente stabilita nel diritto unionale rispettivamente dall'art. 6 della sesta direttiva e dall'art. 25, lett. b) della direttiva di rifusione n. 2006/112/Ce e, nel diritto interno, dall'art. 3 del d.P.R. n. 633/72.

E, inoltre, l'imponibilità di una tale pattuizione non confligge affatto col funzionamento concreto dell'Iva: il sistema, infatti, è neutro, e caratterizzato, salvo il caso delle importazioni, dalla detrazione di imposta da imposta, in modo da consentire lo scorrimento dell'imposta fra i soggetti interessati e le relative operazioni imponibili, attraverso fasi mediante le quali il peso fiscale raggiunge il consumatore finale.

E d'altronde, evidenzia ancora la Corte, le sentenze della Corte di giustizia citate a sostegno di Cass. n. 18764/2014, cit., si riferivano, in realtà, a fattispecie diversa e del tutto disomogenea.

E diversa e irrilevante per il caso in esame era anche la fattispecie esaminata da Cass. 19 aprile 1996, n. 3729, la quale aveva escluso che costituisse prestazione di servizi ai fini tributari la corresponsione di una somma di denaro, nel quadro di un accordo transattivo volto a regolare tutte le questioni relative ad un cessato rapporto locativo, ma in base alla considerazione che l'accordo fosse svincolato dai fini dell'impresa.

In senso contrario al richiamato indirizzo, del resto, si erano poi invece espresse altre pronunce di legittimità (Cass. 15 marzo 2013, n. 6607, a proposito di un affare in cui l'originaria parte interessata all'acquisto era stata sostituita da un'altra per accordo remunerato e col consenso negoziale del venditore; e, da ultimo, Cass. 31 luglio 2018, n. 20233).

Osservazioni

L'indennità risarcitoria corrisposta per la risoluzione di un contratto o comunque per l'assunzione di obblighi di fare, non fare e permettere, costituisce dunque una prestazione di servizi ex art. 3 d.P.R. n. 633/1972, ed in quanto tale, deve pertanto essere assoggettata ad IVA.

Né, a smentire tale conclusione, come evidenziato anche nella sentenza in commento, vale richiamare la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, con la quale è stato precisato che l'indennità percepita, essendo (in quel caso) correlata ad un rapporto locativo esente da IVA, doveva seguire la stessa disciplina dei canoni di locazione.

Anche considerato che, a ben vedere, anche l'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale, che il locatore è tenuto a corrispondere al conduttore al termine della locazione, ha natura di indennizzo per la cessazione del vincolo giuridico, se corrisposta in assenza di una controprestazione, anche negativa, laddove, circa la natura dell'indennità la Circolare n. 24 del 19/05/1979 del Ministero delle finanze afferma che “siffatto compenso...non può assumere natura meramente risarcitoria e divenire perciò ai fini fiscali completamente irrilevante al pari delle indennità che assolvono una funzione reintegrativa del patrimonio appartenente al soggetto beneficiario.”.

In tali casi, andrebbe dunque sempre verificato se la risoluzione anticipata del contratto è stata unilaterale, o per inadempienza, o se piuttosto sia stata consensuale, concordata e pianificata da entrambe le parti.

In tale ultimo caso sussiste infatti senz'altro un vero e proprio rapporto sinallagmatico, in cui, di fatto, l'indennità costituisce il corrispettivo di quello che la sua attività ha rappresentato.

In tale evenienza, in conclusione, l'indennità, rappresenta il corrispettivo di un'obbligazione, che, ai fini dell'Iva, deve essere considerata alla stregua di una prestazione di servizi ex art. 3 del d.P.R. n. 633/1972 (cfr anche Ris. Agenzia Entrate 25/05/2007 n. 117).

Si evidenzia infine che la questione degli accordi transattivi può rilevare anche sotto il profilo delle imposte dirette.

Laddove infatti si tratti di somme di denaro (o altre utilità) riconducibili alla disposizione di cui all'art. 67, comma 1, n. 1) del TUIR, vanno assoggettati a tassazione tutti i redditi derivanti dall'assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere.

L'art. 6, comma 2, del Tuir stabilisce del resto che "i proventi conseguiti in sostituzione di redditi, anche per effetto di cessione dei relativi crediti, e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento di danni conseguenti alla perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti", il cheequivale a sostenere che le indennità ed i risarcimenti percepiti per il cosiddetto "lucro cessante" sono da assoggettare ad imposizione ai fini dell'imposta sul reddito, mentre le indennità ed i risarcimenti diretti a reintegrare altri danni di carattere non reddituale subiti dal percettore (cosiddetto danno emergente) non sono imponibili.

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