Il discrimen tra domanda nuova e specificazione di domanda già proposta in appello

15 Novembre 2018

La questione analizzata nell'ordinanza in commento concerne l'individuazione dell'esatta portata del divieto di introdurre in appello nuove domande sancito dall'art. 345 c.p.c.. In particolare, la Corte è chiamata a individuare il discrimen tra domanda nuova – inammissibile in appello – e specificazione di domanda già proposta.
Massima

Costituisce nuova domanda – inammissibile in appello – quella che alteri anche uno soltanto degli elementi di identificazione della domanda di primo grado, introducendo una diversa richiesta di attribuzione di un determinato bene (cd. petitum), o un diverso fatto costitutivo del diritto fatto valere in giudizio (cd. causa petendi), rispetto a quelli che hanno costituito oggetto del giudizio di primo grado.

Il caso

In un giudizio avverso l'intimazione di pagamento conseguente a cartella avente ad oggetto un credito dell'Inps, il tribunale accoglieva l'opposizione ritenendo sussistente la prescrizione del credito.

La Corte d'appello di Milano, in riforma della sentenza, rigettava l'opposizione, accertando l'insussistenza della dedotta prescrizione del credito.

Proponeva ricorso in Cassazione il contribuente deducendo la violazione e falsa applicazione degli artt. 345 e 437 c.p.c., in quanto l'Inps, pur avendo sollevato in primo grado solo eccezioni di natura processuale, avrebbe introdotto in appello questioni di merito nuove, onde la Corte avrebbe dovuto dichiarare inammissibile l'appello, ai sensi degli artt. 348-bise 436-bis c.p.c., perché fondato su domanda nuova.

La Corte di cassazione riteneva infondata la censura.

La questione

La questione analizzata nell'ordinanza in commento concerne l'individuazione dell'esatta portata del divieto di introdurre in appello nuove domande sancito dall'art. 345 c.p.c.. In particolare, la Corte è chiamata a individuare il discrimen tra domanda nuova – inammissibile in appello – e specificazione di domanda già proposta.

Le soluzioni giuridiche

L'ordinanza in commento, nel dichiarare infondato il ricorso basato sulla presunta inammissibilità dell'appello, consente di svolgere alcune considerazioni in tema di ius novorum e di elementi identificativi della domanda.

La locuzione ius novorum indica il diritto di proporre in appello nuove domande ed eccezioni o nuovi mezzi di prova.

Riconoscere un simile diritto significherebbe svilire la rilevanza del primo grado di giudizio – ove si esercita il diritto di difesa del convenuto nel contraddittorio delle parti – e configurare l'appello come nuovo giudizio sul rapporto controverso.

Mediante l'introduzione del divieto di nova in appello, sancito dall'art. 345 c.p.c., il legislatore, invece, mira ad evitare l'introduzione in giudizio di un nuovo thema decidendum sul quale non si sia formato in primo grado il contraddittorio.

La ratio del divieto in parola è quella di garantire la piena attuazione del principio del doppio grado di giurisdizione che, seppur privo di copertura costituzionale, preclude alle parti di ampliare o modificare il tema d'indagine discusso in prime cure.

Le riforme che si sono succedute negli anni hanno avuto come obiettivo quello di inasprire il divieto di nova in appello, così garantendo il contraddittorio tra le parti e la speditezza del processo.

Ed invero, la leggen. 353/1990 ha aggiunto, al preesistente divieto di nova, il divieto di nuove eccezioni e di nuovi mezzi di prova. La leggen. 69/2009 ha ulteriormente modificato la norma, prevedendo che in appello non possono essere prodotti nuovi documenti.

Dall'attuale formulazione dell'art. 345 c.p.c. si desume che il divieto di ius novorum in appello ha carattere assoluto, in quanto le nuove domande devono in ogni caso essere dichiarate inammissibili dal giudice con pronuncia declinatoria di rito; rimane, quindi, impregiudicata la possibilità di proporre la nuova domanda in un successivo giudizio, superando i dubbi interpretativi che poneva la precedente ed imprecisa formulazione della norma, la quale prevedeva che le domande nuove dovessero essere rigettate d'ufficio.

Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, il divieto di "nova" in appello è un divieto di ordine pubblico – secondo il brocardo “Pendente lite nihil innovandum” – e, pertanto, non trova deroga neanche nell'ipotesi in cui la controparte abbia accettato il contraddittorio sulle nuove domande (Cfr. Cass. civ., 27 febbraio 1998, n. 2157).

L'unica eccezione al divieto in parola è rappresentata dalla possibilità di chiedere per la prima volta in appello gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa.

La ratio di tale marginale eccezione è quella di bilanciare il principio del doppio grado di giudizio con le esigenze di celerità e di unitarietà del processo, evitando di frazionare in maniera eccessiva alcune domande tra loro strettamente connesse.

Dal divieto di nova sancito per il rito ordinario dall'art. 345 c.p.c. (cui corrisponde per il rito del lavoro l'art. 437 c.p.c.) è possibile desumere l'attuale natura e funzione del giudizio di appello.

La Suprema Corte (Cass. civ., Sez. Un., 23 dicembre 2005, n. 28498), difatti, tenendo conto della vigente struttura del giudizio di secondo grado e, in particolare, del divieto di cui all'art. 345 c.p.c., ha riconosciuto che il giudizio d'appello non rappresenta più – come era nel sistema del codice di rito del 1865 – un novum iudicium, cioè un riesame pieno nel merito della decisione impugnata, ma è volto a introdurre una revisio prioris instantiae, cioè un giudizio di impugnazione di una sentenza sulla base di vizi specifici dedotti dall'appellante, secondo il principio tantum devolutum quantum appellatum (cd. effetto devolutivo non automatico).

Svolte tali precisazioni di carattere generale, è necessario individuare un discrimen tra domanda nuova – inammissibile in appello – e specificazione o riqualificazione della domanda già proposta.

Secondo l'impostazione prevalente in dottrina e giurisprudenza, tale discrimen deve essere individuato facendo ricorso ai principi che regolano l'identificazione dell'azione.

In tale prospettiva, si sostiene che costituisce nuova domanda quella che alteri anche uno soltanto degli elementi di identificazione della domanda di primo grado, introducendo una diversa richiesta di attribuzione di un determinato bene (cd. petitum mediato), o un diverso fatto costitutivo del diritto fatto valere in giudizio (cd. causa petendi), rispetto a quelli che hanno costituito oggetto del giudizio di primo grado.

Con riguardo al petitum, la giurisprudenza di legittimità ha escluso che possa configurare mutamento di domanda non consentito ex art. 345 c.p.c. il mutamento dell'oggetto della pretesa che riguardi il provvedimento richiesto, cioè il petitum immediato (Cass. civ., 20 aprile 1995, n. 4465).

Con riguardo alla causa petendi, invece, la Suprema Corte, nell'ordinanza in commento, condivide e fa proprio l'orientamento giurisprudenziale prevalente (Cass. civ., sez. VI, ord., 24 aprile 2018, n. 10099), secondo il quale costituisce domanda nuova la deduzione di una nuova causa petendi, cioè il mutamento dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio, prospettando nuove circostanze o situazioni giuridiche che alterino l'originario tema di indagine, in violazione del principio del contraddittorio e del doppio grado di giudizio.

Sulla base di tali principi, si comprende il motivo per il quale la Suprema Corte, nell'ordinanza in commento, abbia disatteso la censura di inammissibilità dell'appello, osservando che le questioni di merito sollevate dall'Inps nel giudizio di appello non costituivano domanda nuova, non avendo l'ente modificato la pretesa creditoria, come formalizzata nella cartella di pagamento posta alla base dell'impugnata ingiunzione.

Giova precisare che le argomentazioni svolte avevano trovato parziale smentita in un precedente arresto giurisprudenziale, sia pure con riferimento al giudizio di primo grado (Cass. civ., Sez. Un., n. 12310/2015), secondo cui la modifica della domanda può riguardare anche i suoi elementi oggettivi (i.e. petitum e causa petenti).

Nel giudizio di primo grado, a differenza dell'appello, non è previsto un divieto espresso di domande nuove ma lo stesso si desume dall'art. 183, comma 5, c.p.c., che ammette la precisazione e la modifica delle domande già formulate.

La distinzione tra domanda nuova e modificata (mutatio ed emendatio libelli), tradizionalmente si basa sul principio secondo il quale sono ammissibili solo le modificazioni della domanda che non incidono né sulla causa petendi, né sul petitum.

Secondo l'orientamento giurisprudenziale in questione, invece, la domanda nuova è quella che si aggiunge alla domanda originaria, estendendo l'oggetto del giudizio; viceversa, la domanda modificata – non rilevando se siano modificati il petitum o la causa petendi – è quella che si sostituisce ed è alternativa alla domanda originaria, presupponendo che la parte abbia implicitamente rinunciato a quest'ultima, ritenendo la domanda modificata più rispondente ai propri interessi rispetto alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio.

Tale impostazione giurisprudenziale, pur avendo come obiettivo quello di garantire l'economia processuale e una maggiore stabilità delle decisioni, estendendo l'oggetto del giudizio, non è stata seguita dall'ordinanza in commento con riguardo ai nova in appello.

Osservazioni

L'appellante, per non violare il divieto di nova, deve fondare la domanda sul medesimo titolo originariamente dedotto e chiedere tutela per il medesimo bene della vita, senza allargare il tema di indagine del giudizio di primo grado.

È possibile introdurre in giudizio nuovi fatti costitutivi del diritto se la controparte proponga eccezioni nuove (se ammissibili), purché non configurino una nuova domanda.

É possibile, inoltre, riqualificare la domanda, purché l'attore invochi a fondamento della propria pretesa un presidio normativo ulteriore rispetto a quello originariamente richiamato, senza modificare i fatti che ne costituiscono fondamento.

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