Intercettazioni tra presenti mediante captatore informatico. La S.C. sulla motivazione del provvedimento autorizzativo
19 Novembre 2018
Massima
In ossequio ai canoni di proporzione e ragionevolezza, a fronte della forza intrusiva del mezzo usato (il c.d. captatore informatico), la qualificazione, pure provvisoria, del fatto come inquadrabile in un contesto di criminalità organizzata deve risultare ancorata a sufficienti, sicuri e obiettivi elementi indiziari che ne sorreggano, per un verso, la corretta formulazione da parte del pubblico ministero e, per altro verso, la successiva, rigorosa, verifica dei presupposti da parte del giudice chiamato ad autorizzare le relative operazioni intercettative. Il pubblico ministero non è tenuto a esplicitare la modifica delle modalità esecutive delle intercettazioni di tal ché la collocazione della microspia, che costituisce uno strumento tecnico ricompreso naturalmente nello sviluppo delle operazioni materiali esecutive, non necessita di alcun nuovo provvedimento di autorizzazione da parte del giudice. Il caso
Nell'ambito della cosiddetta inchiesta Consip, il tribunale della libertà di Napoli ha rigettato le richieste di riesame dell'ordinanza con cui è stata applicata, nei confronti di Alfredo Romeo e Ivan Russo, la misura cautelare degli arresti domiciliari in quanto ritenuti gravemente indiziati di plurimi reati di corruzione. Il procedimento penale nell'ambito del quale si innesta l'incidente cautelare deriva da un altro filone investigativo che riguardava presunte infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore della gestione degli appalti nelle strutture sanitarie pubbliche napoletane. In particolare, l'ipotesi investigativa è che anche l'aggiudicazione della gara d'appalto relativa al servizio di pulizia dell'ospedale Cardarelli di Napoli - ottenuta da una società riconducibile a Romeo Alfredo - sia stata illecitamente condizionata dalle indebite ingerenze del crimine organizzato. Proprio la necessità di verificare l'esistenza di eventuali infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici induceva il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Napoli ad autorizzare operazioni di intercettazione telefonica sull'utenza in uso al Romeo, già indagato per i reati previsti e puniti dagli artt. 353-bis e 610 c.p., aggravati dalla circostanza prevista ex art. 7 della legge 203 del 1991. Impugnando per cassazione la sentenza di tribunale della libertà, i difensori degli indagati denunciavano, tra l'altro, la violazione della legge processuale in relazione agli artt. 125, 185, 266-bis, 267, 271, 273, 335, 406 c.p.p., art. 15 Cost. e art. 8 Cedu, nonché vizio di motivazione in relazione alle intercettazioni disposte attraverso il captatore informatico. Con la sentenza in commento, la Corte di cassazione - pur ritenendo in parte fondato il ricorso e annullando l'ordinanza impugnata con rinvio per un nuovo esame -, quanto ai motivi di ricorso oggetto di interesse in questa sede non ha ritenuto fondate le eccezioni difensive, ritenendo superabili le argomentazioni spese dagli indagati. La questione
La prima questione che si intende affrontare in questa sede involge il tema della consistenza motivazionale del provvedimento con il quale il giudice autorizza operazioni di intercettazione di conversazioni mediante captatore informatico. Secondo la difesa, le intercettazioni di conversazioni tra presenti realizzate mediante virus spia sarebbero state disposte facendo formalmente riferimento a un reato di criminalità organizzata (attraverso il richiamo all'art. 7 della legge 203 del 1991) per il quale, tuttavia, nella sostanza, non esisteva alcun reale coinvolgimento di Alfredo Romeo. In altre parole, nel caso de quo difetterebbero quelle solide basi indiziarie nei confronti del soggetto monitorato in grado di giustificare l'utilizzo, da parte degli inquirenti, di un mezzo di ricerca della prova così fortemente intrusivo come il captatore informatico. La seconda questione, invece, riguarda la tematica della rilevanza giuridica delle modalità tecniche con le quali vengono effettuate le intercettazioni. Secondo la difesa, nel corso delle attività materiali di intercettazione sono mutate le modalità esecutive delle operazioni (gli investigatori sono passati dal virus spia alle microspie tradizionali) senza alcuna intermediazione giurisdizionale, con conseguente inutilizzabilità delle intercettazioni effettuate. Le soluzioni giuridiche
Quanto alla prima questione, i giudici di legittimità hanno osservato che ciò che deve essere verificato da parte del giudice nel momento in cui autorizza operazioni di intercettazione di conversazioni è la consistenza dell'ipotesi accusatoria, della qualificazione del fatto ipotizzato e della struttura della base indiziaria, prescindendo dal quantum di colpevolezza: si tratta di una verifica che deve essere compiuta in relazione all'indagine nel suo complesso e non con riferimento alla responsabilità di ciascun indagato. Quanto, invece, al mutamento delle modalità con cui le captazioni furono eseguite, i giudici chiariscono come il pubblico ministero non era tenuto a esplicitare la modifica delle modalità esecutive delle intercettazioni. Di conseguenza, la collocazione di una microspia tradizionale (che costituisce uno strumento tecnico ricompreso naturalmente nello sviluppo delle operazioni materiali esecutive) in luogo di una cimice informatica non necessita di alcun nuovo provvedimento di autorizzazione da parte del giudice.
Osservazioni
Di particolare rilevanza, innanzitutto, è il tema della consistenza del contenuto motivazionale del provvedimento con il quale il giudice autorizza operazioni di intercettazione di conversazioni tra presenti mediante captatore informatico. L'impiego del mezzo altamente tecnologico, infatti, non muta il problema principale della disciplina delle intercettazioni, ossia il bilanciamento tra i diritti costituzionali confliggenti, individuali e collettivi, che deve trovare spazio proprio nella motivazione del provvedimento autorizzativo (L. GIORDANO, Dopo le sezioni unite sul “captatore informatico”: avanzano nuove questioni, ritorna il tema della funzione di garanzia del decreto autorizzativo, in Dir. pen. cont.).
Come noto, l'art. 15 Cost. non si limita a proclamare l'inviolabilità della libertà e della segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione (comma primo) ma enuncia anche espressamente che «la loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge» (comma secondo). Nel precetto costituzionale trovano perciò protezione due distinti interessi: quello inerente alla libertà e alla segretezza delle comunicazioni, riconosciuto come connaturale ai diritti della personalità definiti inviolabili dall'art. 2 Cost., e quello connesso all'esigenza di prevenire e reprimere i reati, vale a dire a un bene anch'esso oggetto di protezione costituzionale. La sintesi di tali interessi è contenuta proprio della motivazione del provvedimento con il quale il giudice autorizza lo svolgimento delle operazioni di intercettazione. Sin dalla prima sentenza in materia, la Corte costituzionale ha sottolineato che «è al magistrato che la legge riconosce il potere di disporre l'intercettazione e dalla legge stessa sono desumibili i limiti di siffatto potere»; «del corretto uso del potere attribuitogli il giudice deve dare concreta dimostrazione con una adeguata e specifica motivazione del provvedimento autorizzativo», con la seguente precisazione: «la richiesta di provvedimenti autorizzativi della intercettazione va valutata con cautela scrupolosa giacché da provvedimenti del genere deriva una grave limitazione alla libertà e segretezza delle comunicazioni» (Corte cost., 6 aprile 1973, n. 34). In questo senso, la motivazione del provvedimento autorizzativo assolve a una ineliminabile funzione di garanzia: mediante essa deve essere esplicitato il collegamento tra l'indagine e la persona monitorata, sola circostanza in grado di giustificare la compressione del diritto alla libertà ed alla segretezza delle comunicazioni. L'aspetto più denso di significato dell'obbligo di motivazione di cui agli artt. 15 Cost. e 267, comma 1, c.p.p. coincide proprio con l'indicazione, da parte del giudice, del criterio di collegamento tra l'indagine in corso e il soggetto da intercettare (L. GIORDANO, Dopo le sezioni unite sul “captatore informatico”, cit.). Come noto, i requisiti che devono essere esplicitati nel decreto di autorizzazione a effettuare operazioni di intercettazione dipendono dal tipo di reato per il quale si indaga. Per la generalità dei reati previsti ex art. 266, comma 1, c.p.p., è necessario motivare la presenza di gravi indizi di reato, nonché l'assoluta indispensabilità di tale mezzo di ricerca della prova ai fini della prosecuzione delle indagini. Inoltre, qualora si renda necessario effettuare l'intercettazione di conversazioni tra presenti (c.d. ambientali) nel domicilio privato, occorre dimostrare il fondato motivo di ritenere che nel domicilio medesimo si stia svolgendo l'attività criminosa. In ipotesi di delitti di criminalità organizzata (o ad essa equiparati) tali requisiti si attenuano, poiché l'intercettazione è ammessa a condizione che vi siano sufficienti (anche se non gravi) indizi di reato e che tale strumento sia necessario (e non indispensabile) per lo svolgimento delle indagini. Inoltre, in questo caso le intercettazioni di conversazioni tra presenti effettuate nel domicilio non richiedono la dimostrazione dell'attualità della condotta criminosa. Ovviamente, anche le intercettazioni effettuate mediante captatore informatico devono essere assistite da idoneo provvedimento autorizzativo dotato di congrua motivazione. In particolare, proprio a causa della eccezionale forza intrusiva di tale innovativo strumento tecnologico - ancor prima della riforma Orlando che ha tipizzato questo tipo di tecnica di intercettazione, pretendendo un quid pluris motivazionale rispetto alle tecniche tradizionali - è opportuno che «la qualificazione, pure provvisoria, del fatto come inquadrabile in un contesto di criminalità organizzata, risulti ancorata a sufficienti, sicuri e obiettivi elementi indiziari che ne sorreggano, per un verso, la corretta formulazione da parte del pubblico ministero e, per altro verso, la successiva, rigorosa, verifica dei presupposti da parte del giudice chiamato ad autorizzare le relative operazioni intercettative» (Cass. pen. Sez. unite, 28 aprile 2016, n. 26889, Scurato). Detto ciò, tuttavia, non si può pretendere di mutare la consistenza qualitativa dell'onere probatorio richiesto dalla legge processuale, passando dai gravi (o sufficienti, a seconda dei casi) indizi di reato ai gravi indizi di reità. A differenza di quanto è previsto per le misure cautelari, nella motivazione di un provvedimento giurisdizionale di autorizzazione a effettuare intercettazioni non è richiesta la prova della responsabilità di un reato a carico di una determinata persona, sia essa indagata piuttosto che semplicemente persona informata sui fatti. Anzi, l'individuazione del responsabile è appunto lo scopo per il quale è disposta l'intercettazione (Cfr. P. TONINI, Manuale di procedura penale, XIX Ed., Milano, 2018, p. 401). Questa conclusione è confermata dalla semplice osservazione che mediante tale invasivo mezzo di ricerca della prova può essere monitorata sia la persona indagata, sia un terzo, semplicemente perché “collegato” ai fatti oggetto di accertamento. Qualora la connotazione probatoria del provvedimento autorizzativo fosse declinata in senso soggettivo, in chiave di valutazione prognostica della colpevolezza, non sarebbe mai possibile intercettare persone non iscritte nel registro degli indagati. Ovviamente, la consistenza dell'onere motivazione del provvedimento autorizzativo muta a seconda del fatto che la persona monitorata sia o meno iscritta nel registro degli indagati. Nel primo caso, ossia in ipotesi di intercettazione di persona indagata, sarà necessario e sufficiente verificare la consistenza dell'ipotesi accusatoria e la corretta qualificazione del fatto ipotizzato. In ipotesi di soggetto non indagato, invece, oltre alla base indiziaria oggettiva è necessario che il giudice indichi ed esplichi chiaramente l'interesse investigativo sottostante, ossia le ragioni di collegamento diretto o indiretto tra il soggetto ed il fatto di reato oggetto di accertamento: “è necessario che si indichino i motivi per i quali il soggetto terzo che si intende intercettare dovrebbe essere informato sui fatti e perché si ritiene che vi possano essere conversazioni o comunicazioni attinenti a quei fatti”. Tutto ciò, tuttavia, non inficia minimamente la bontà della conclusione raggiunta: la motivazione del provvedimento giurisdizionale di autorizzazione a effettuare operazioni di intercettazione ha natura oggettiva e si traduce nella esplicitazione degli indizi che hanno spinto gli inquirenti alla ricostruzione di uno specifico fatto di reato, senza mai sconfinare nel diverso ambito coincidente con la prognosi di colpevolezza del soggetto monitorato (A. NAPPI, Sull'abuso delle intercettazioni, in Cass. pen., 2009, 471). Più in particolare, “il presupposto dei gravi indizi di reato va inteso non in senso probatorio, ossia come valutazione del fondamento dell'accusa, ma come vaglio di particolare serietà delle ipotesi delittuose configurate, le quali non devono risultare meramente ipotetiche, essendo al contrario richiesta una sommaria ricognizione degli elementi dai quali sia dato desumere la seria probabilità dell'avvenuta consumazione di un reato” (Cass. pen., Sez. II, 1 marzo 2005, n. 10881; Cass. pen., Sez. unite, 17 novembre 2004, n. 45189; Cass. pen., Sez. VI, 26 febbraio 2010, n. 10902). In verità, in passato non è mancato il tentativo di modificare le norme del codice nel senso “soggettivo” sopra prospettato. Il riferimento, qui, è al Disegno di Legge A.C. n. 1611 presentato dall'allora Ministro della Giustizia Angelino Alfano (il quale, mediante la modifica dell'art. 267, comma 1, del codice di rito, pretendeva di sostituire i gravi indizi di reato con gli evidenti indizi di colpevolezza. La riforma, come noto, non ha avuto esito positivo, di tal ché oggi non si può pretendere di raggiungere quel risultato mediante fuorvianti interpretazioni “terapeutiche”. In conclusione, nonostante la indiscutibile pervasività del captatore informatico - uno strumento potenzialmente in grado di consentire ininterrottamente il monitoraggio itinerante del soggetto attenzionato (volendo, M. TORRE, Il captatore informatico. Nuove tecnologie investigative e rispetto delle regole processuali, Milano, 2017) - il requisito richiesto dalla legge non cambia: si deve dimostrare la consistenza oggettiva dell'ipotesi di reato per la quale si indaga e non la soggettiva (probabile o meno) colpevolezza del soggetto da intercettare. In questa prospettiva, anche (ed a maggior ragione) con riferimento al captatore informatico “è determinante la crescita della professionalità del pubblico ministero e, soprattutto, del giudicante: quest'ultimo, da un lato, deve avere ben chiaro che l'autorizzazione di un'intercettazione non gli impone di formulare una prognosi di colpevolezza, pena l'espunzione del mezzo di ricerca della prova dagli strumenti investigativi a disposizione del pubblico ministero; dall'altro, deve compiere un vaglio approfondito sulla particolare serietà delle esigenze investigative, cogliendo il collegamento tra la persona le cui conversazioni sono captate e la specifica ipotesi delittuosa oggetto di investigazione. A tale proposito, l'esperienza del giudicante è una condizione necessaria” (L. GIORDANO, Dopo le sezioni unite sul “captatore informatico”, cit.).
La sentenza in commento si segnala anche per un ulteriore profilo, meritevole di approfondimento. Una volta autorizzata l'intercettazione, le operazioni esecutive consistenti nella collocazione e nella successiva disinstallazione del materiale tecnico necessario per eseguire le captazioni costituiscono atti materiali rimessi alla contingente valutazione della polizia giudiziaria. Di conseguenza, il pubblico ministero non è tenuto a esplicitare la eventuale modifica delle modalità esecutive delle intercettazioni, il cui mutamento in corso d'opera non richiede alcun ulteriore provvedimento da parte del giudice (nel caso in commento, in particolare, si è passati dalla captazione mediante captatore informatico all'intercettazione mediante microspie fisse di tipo tradizionale). Nel caso de quo - ante riforma Orlando - gli inquirenti procedevano per un reato di criminalità organizzata, almeno secondo la definizione di tale concetto fatta propria dalla giurisprudenza di legittimità a Sezioni unite (Cass. pen., Sez. unite, 28 aprile 2016, n. 26889, Scurato). Di conseguenza, per ottenere l'autorizzazione a effettuare intercettazioni di conversazioni tra presenti, nella relativa richiesta il pubblico ministero non era tenuto a precisare i luoghi nei quali in concreto sarebbero avvenute le captazioni. Come noto, infatti, tale indicazione rileva solo con riferimento ai c.d. reati comuni, rispetto ai quali essa è propedeutica al successivo onere motivazionale previsto ex art. 266, comma 2, c.p.p., ossia la necessità, qualora l'intercettazione avvenga nei luoghi indicati dall'art. 614 c.p., di dimostrare il “fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l'attività criminosa”. Con riferimento ai reati di criminalità organizzata, invece, la deroga che l'art. 13 del d.l. 151 del 1992 fa all'art. 266, comma 2, c.p.p., rende irrilevante la distinzione tra luoghi domiciliari e luoghi non domiciliari e, più in generale, rende superflua la predeterminazione, da parte dell'accusa, dei luoghi nei quali avverrà la captazione. Conseguentemente, dal punto di vista della motivazione del relativo provvedimento di autorizzazione, la modifica in itinere della tecnica di intercettazione non poteva che essere giudicata giuridicamente irrilevante. D'altronde, il diritto positivo dovrebbe sempre essere “neutro”, per trovare applicazione, al sussistere dei presupposti tipici, a prescindere dalla tecnologia utilizzata per ottenere un determinato scopo (G. LASAGNI, L'uso di captatori informatici (trojans) nelle intercettazioni “fra presenti”, in Dir. pen. cont.). Ovviamente, la modifica della tecnica di intercettazione (dal captatore informatico alla cimice fissa di tipo tradizionale) comporta il problema della necessità di installare fisicamente le microspie fisse all'interno dei luoghi di privata dimora da monitorare, ma tale operazione, fisiologicamente propedeutica alla successiva captazione, costituisce una delle naturali modalità di attuazione delle intercettazioni, con la conseguenza che l'aver ottenuto l'autorizzazione ad effettuare operazioni di captazione implica inevitabilmente il fatto di essere autorizzati a comprimere il diritto all'inviolabilità del domicilio per il tempo utile alla installazione ed alla successiva disinstallazione della strumentazione tecnica necessaria allo scopo (Cass. pen., Sez. II, 13 febbraio 2013, n. 21644, Badagliacca; Cass. pen., Sez. I, 2 ottobre 2007, n. 38716, Biondo; Cass. pen., Sez. IV, 28 settembre 2005, n. 47331, Cornetto; Cass. pen., Sez. VI, 10 novembre 1997, n. 4397, Greco). Con l'entrata in vigore del d.lgs. 29 dicembre 2017, n. 216 lo scenario cambia leggermente, in quanto le intercettazioni di conversazioni tra presenti conosceranno un vero e proprio doppio binario processuale. A seconda delle modalità tecniche di esecuzione delle operazioni (in particolare, a seconda che venga utilizzato o meno il c.d. captatore informatico), infatti, rispetto alla normativa ordinaria sono previsti requisiti differenti in punto di ammissibilità (art. 266 c.p.p.), presupposti e forme del provvedimento di autorizzazione (art. 267 c.p.p.), modalità esecutive delle operazioni (art. 268 c.p.p.) e relativa verbalizzazione (art. 89 disp. att. c.p.p.), nonché regime di utilizzabilità (artt. 270 e 271 c.p.p.) (volendo, M. TORRE, Il captatore informatico, tra riforma Orlando e sistema processuale, in Giur. it., 2018, 7, 1774). La “neutralità tecnica” delle norme sulle intercettazioni viene sacrificata in nome del principio di proporzionalità, nel tentativo di realizzare un più equo bilanciamento tra gli opposti interessi in gioco (esigenze investigative connesse al doveroso accertamento del reato, da una parte, tutela dei diritti fondamentali dell'individuo, dall'altra). In tale contesto, la fisiologica e indiscutibile maggiore intrusività del nuovo mezzo tecnologico viene bilanciata mediante il ricorso ad una serie di precisazioni normative ad hoc che riguardano esclusivamente le ipotesi (in realtà sempre più frequenti) di utilizzo del captatore informatico per finalità di intercettazione di conversazioni tra presenti In particolare, con specifico riferimento alla motivazione del provvedimento di autorizzazione, il decreto delegato ha introdotto un requisito probatorio ulteriore coincidente con l'indicazione delle specifiche ragioni che rendono necessaria proprio tale modalità tecnica di intercettazione per lo svolgimento delle indagini. Tale surplus motivazionale – richiesto sia per i più gravi reati “distrettuali” (art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p.) sia per i reati “comuni” (art. 266, comma 1, c.p.p.) - si deve tradurre nella individuazione di specifiche “necessità operative” che rendano necessario proprio l'impiego del captatore. La ratio di tale innesto va colta nella volontà legislativa di porre un argine in concreto alla facoltà di utilizzo, da parte degli inquirenti, di una tecnica investigativa caratterizzata da una indubbia maggiore invasività rispetto alle tecniche di intercettazione di tipo tradizionale. La valutazione in concreto circa la necessità di ricorrere proprio a tale modalità tecnica di intercettazione (il captatore informatico, appunto) dovrà risultare nel decreto di autorizzazione del giudice per le indagini preliminari, con la conseguenza che una eventuale carenza motivazionale su questo specifico punto potrà senz'altro essere sanzionata processualmente con l'inutilizzabilità speciale di tipo patologico prevista dall'art. 271, comma 1, c.p.p. (Cass. pen. Sez. unite, 21 giugno 2000, n. 17, Primavera). Ebbene, probabilmente, anche dopo l'entrata in vigore della nuova disciplina (applicabile, ex art. 2, comma 1, del d.l. 25 luglio 2018, n. 91, alle operazioni di intercettazione relative a provvedimenti autorizzativi emessi dopo il 31 marzo 2019), la modifica delle modalità tecniche con le quali verrà eseguita una intercettazione di conversazioni tra presenti non è suscettibile di rilevare sempre e comunque, in modo automatico. In particolare, se l'impiego del captatore informatico diventerà indispensabile solo successivamente nel corso di indagini tecniche autorizzate ed iniziate in modo tradizionale, nulla quaestio: ex art. 267, comma 1, c.p.p., sarà necessaria una ulteriore richiesta del pubblico ministero, con conseguente nuovo pronunciamento del giudice in ordine alle “ragioni che rendono necessaria [proprio] tale modalità [tecnica] per lo svolgimento delle indagini”. Nel caso opposto, invece -a meno che i luoghi da intercettare mediante tecniche tradizionali non siano ricompresi tra quelli, anche indirettamente determinati, già oggetto di intercettazione mediante captatore- nessuna ulteriore autorizzazione sarà necessaria: plus semper in se continet quod est minus.
GIORDANO, Dopo le sezioni unite sul “captatore informatico”: avanzano nuove questioni, ritorna il tema della funzione di garanzia del decreto autorizzativo, in IDir. pen. cont.; LASAGNI, L'uso di captatori informatici (trojans) nelle intercettazioni “fra presenti”, in Dir. pen. cont.; NAPPI, Sull'abuso delle intercettazioni, in Cass. pen., 2009, 471. TONINI, Manuale di procedura penale, XIX Ed., Milano, 2018; TORRE, Il captatore informatico. Nuove tecnologie investigative e rispetto delle regole processuali, Milano, 2017; TORRE, Il captatore informatico, tra riforma Orlando e sistema processuale, in Giur. it., 2018, 7, 1774.
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