Le più recenti pronunce della Cassazione, tra danno biologico e morale: quo vadis?
20 Novembre 2018
Premessa
Scriveva Oscar Wilde (Il ritratto di Dorian Gray):«Oggigiorno si conosce il prezzo di tutto, ma non si conosce il valore di niente». Questa considerazione si calava in ben altro contesto, nasceva da una riflessione – amara e provocatoria – sui “costumi” dell'epoca, su un modus vivendi che esaltava, in una prospettiva fortemente egocentrica, la bellezza e l'apparenza, l'“immagine” in luogo della “sostanza”. Mi piacerebbe però richiamare questa celebre frase e - sia perdonato l'azzardo- adattarla ai tempi moderni (rectius ai “nodi giuridici” su cui oggi si discute) “vestendola” di un diverso significato; mi viene infatti da pensare che il problema del “danno alla persona” nella sua articolata, lunga, travagliata e tormentata evoluzione, sia forse tutto racchiuso qui: nella oggettiva impossibilità di dare un valore (risarcitorio) a cose che non hanno prezzo. Si potrebbe allora dire, riprendendo e dilatando la citazione di cui all'incipit, che la società del secondo millennio conosce i “valori” della persona (e ne esalta la portata, consacrandoli nella trama della Costituzione), ma è costretta a fare i conti con l'innegabile difficoltà di “quantificarli”, di tradurli in moneta. Il dibattito intorno al “danno non patrimoniale” sembra allora (ontologicamente) destinato a non esaurirsi mai ed a trovare sempre nuova linfa, complici anche la pronunce della Suprema Corte che , in un incessante lavorio, cercano di definirne i contorni. Sembrava che le Sezioni Unite del 2008 avessero segnato un punto fermo, ma la giurisprudenza successiva ha mostrato, a volte, una sorta di insofferenza per gli schemi precostituiti ed ha seguito strade non sempre convergenti: così, pur percorrendo (almeno formalmente) la stessa via e prestando ossequio ai “precedenti” (per come posti dalle note “sentenze gemelle”), la stessa Cassazione ha di volta in volta introdotto distinguo, precisazioni, adattamenti e revisioni, creando negli interpreti e negli operatori qualche disorientamento. In tale solco si collocano alcuni recenti dicta con cui la Terza Sezione è tornata sulla “natura” del danno non patrimoniale, rivendicando a piena voce l'autonomia e (parrebbe) la separata valorizzazione (in sede liquidativa) della sofferenza morale, nei suoi «due aspetti essenziali: il dolore interiore, e /o la significativa alterazione della vita quotidiana. Danni diversi e perciò solo entrambi autonomamente risarcibili, ma se, e solo se, provati caso per caso, con tutti i mezzi di prova normativamente previsti (tra cui il notorio le massime di esperienza, le presunzioni) al di là delle sommarie quanto impredicabili generalizzazioni» (Cass. civ.,sez. III, 17 gennaio 2018 n. 901; in termini analoghi Cass. civ., sez. III, 14 novembre 2017 n. 26805; sulla stessa lunghezza d'onda pare porsi anche Cass. civ., 27 marzo 2018 n. 7513, subito definita, sui siti di interesse, come “Decalogo”).
Le pronunzie in parola hanno già fatto discutere e generato una certa inquietudine (per una approfondita ed illuminata disamina si veda D. SPERA, Time out: il decalogo della Cassazione sul danno non patrimoniale e i recenti arresti della Medicina legale minano le sentenze di San Martino, in Ridare.it ); rinviando agli autorevoli commentatori una più compiuta ed efficace analisi del problema, queste righe si limitano a raccogliere ed esporre alcune “impressioni”; con l'avvertenza che non si tratta di tetragone certezze, quanto piuttosto di… veri e propri dubbi. Uno sguardo un po' smarrito, dunque, di chi si interroga di fronte a sentenze tanto raffinate e sottili quanto, a volte, non agevolmente “prendibili”; e la cui la lettura (rectius interpretazione) restituisce talora tanti punti di vista o, forse ( almeno per chi scrive queste note).. di domanda. Sia consentito allora prendere le mosse dal caso trattato da Cass. civ., n. 901/2018. Eccone una sintesi (estremamente semplificata e schematica).
All'esito dell'accertamento giudiziale dei fatti era risultato che: -la sig.ra N. si era sottoposta ad un intervento chirurgico per la rimozione di una cisti paraovarica eseguito presso la Asl territoriale dal Dott. C ; - in conseguenza della situazione rivelatasi endoscopicamente, l'intervento era stato trasformato (senza il necessario consenso) da laparoscopia in laparotomia; -il medico aveva tenuto un comportamento gravemente negligente nella fase post- operatoria perché aveva trascurato i segni evidenti che denunziavano una infezione in atto; -in conseguenza di detta condotta (ed all'esito di un percorso clinico travagliato), la paziente aveva subito un danno biologico stimato dal CTU nella misura dell'8% , avendo vista ridotta la propria capacità gestazionale; -il Giudice di merito, liquidando il risarcimento sulla base delle Tabelle del Tribunale di Milano (ndr. verosimilmente già nella versione del 2011, “post sentenze gemelle del 2008”, come parrebbe ricavarsi da una serie di indizi tra cui la data della decisione, resa nel 2014, il valore riconosciuto per una IP dell'8 % , e la “possibilità di “personalizzare” entro un tetto prefissato), aveva ritenuto, per quel che qui rileva:
«i) Che il danno psicologico, già in parte riconosciuto sotto il profilo del danno morale, ma costituente un quid pluris rispetto al mero danno da reato, trovava specifico riscontro nella relazione di psicologia clinica redatta dal prof. M., e consentiva di pervenire alla massima personalizzazione del risarcimento nel calcolo tabellare, in applicazione delle tabelle milanesi; j) Che il danno biologico fosse complessivamente determinabile nella misura complessiva, con personalizzazione massima, di Euro 27.770; k) Che il danno morale doveva ritenersi incluso e ricompreso nel calcolo tabellare, pervenendosi, altrimenti opinando, “ad un'indebita duplicazione del danno non patrimoniale, mentre trattasi di categoria unitaria”».
La signora N. ed il coniuge avevano proposto ricorso per Cassazione censurando detta sentenza sotto molteplici profili, e in particolare, per quanto è dato sapere, per la non corretta «individuazione, qualificazione e quantificazione delle voci di danno risarcibile», rivendicando- così parrebbe di capire – una autonoma valorizzazione della “sofferenza morale”( contrariamente a quanto statuito al paragrafo k, come sopra trascritto) .
La Corte accoglie il motivo osservando che «del tutto erroneamente» il Giudice di merito ha sostenuto «che “il danno morale è incluso nel calcolo tabellare”, onde il suo riconoscimento avrebbe comportato “duplicazione risarcitoria”».
Per giustificare tale conclusione la Cassazione si sofferma su alcuni “nodi interpretativi”, dedicandovi una trattazione di grande respiro, e puntualizza come, in definitiva, debba considerarsi «sconfessata, al massimo livello interpretativo, la tesi predicativa di una pretesa “unitarietà onnicomprensiva” del danno biologico». La Corte precisa che, una volta identificata «l'indispensabile situazione soggettiva protetta a livello costituzionale (..)», il giudice di merito dovrebbe poi procedere ad «una rigorosa analisi ed una conseguentemente rigorosa valutazione, sul piano della prova, tanto dell'aspetto interiore del danno (la sofferenza morale in tutti i suoi aspetti, quali il dolore, la vergogna, il rimorso, la disistima di sé, la malinconia, la tristezza), quanto del suo impatto modificativo in pejus con la vita quotidiana (il danno c. esistenziale, in tali sensi rettamente interpretato il troppe volte male inteso sintagma, ovvero, se si preferisca un lessico meno equivoco, il danno alla vita di relazione)».
Il Supremo Collegio sottolinea dunque la «duplice essenza del danno alla persona: la sofferenza interiore; - le dinamiche relazionali di una vita che cambia (..)» e (come già anticipato nell'incipit delle presenti note) conclude osservando che «il dolore interiore, e /o la significativa alterazione della vita quotidiana» sono «danni diversi e perciò solo entrambi autonomamente risarcibili».
Lo sviluppo argomentativo si trova, per la verità, anche in Cass. civ., sez. III, 14 novembre 2017 n. 26805 (sull'onda della precedente Cass. civ., n. 11851/2015) e costituisce il leit-motiv di quello che appare essere un “nuovo orientamento”: volendo tentare (con una censurabilissima approssimazione) una sorta di sintesi, il ragionamento dipanato nella – ricca, lucida ed attenta trama della motivazione- mira ad evidenziare come, anche alla luce del testo dell'art. 138 cod. ass. (per come modificato dalla cd. Legge concorrenza, l. n. 124/2017), dovrebbe oggi predicarsi la autonomia del danno morale rispetto al “biologico”, inteso quest'ultimo essenzialmente nella dimensione funzionale e dinamico relazionale: « (..) di danno agli aspetti dinamico – relazionali della vita del soggetto che lamenti una lesione della propria salute (art. 32 Cost.) è lecito discorrere con riferimento al danno c. biologico (rispetto al quale costituisce, essa si, sicura duplicazione risarcitoria il riconoscimento di un autonomo “danno esistenziale”, consistente, di converso, proprio nel vulnus arrecato a tutti gli aspetti dinamico relazionali della vita della persona conseguenti alla lesione della salute (..)».
In disparte ogni riflessione sul merito di tale ricostruzione dogmatica (per i termini del dibattito, si rinvia a D.SPERA, Il danno non patrimoniale (biologico, morale, esistenziale) è risarcibile solo come danno da sofferenza?, in Ridare.it ; M.HAZAN–A.BUGLI, L'assicurazione R.C. auto dopo la Legge sulla concorrenza 2017 (L. 4 agosto n. 124), Torino, 2017;), ci si può chiedere se la questione su cui la Corte focalizza la propria attenzione sia davvero centrale rispetto alla concreta vicenda sottoposta al suo esame. Qualche dubbio si pone.
La Cassazione annulla la sentenza nella parte in cui il Giudice aveva ritenuto ( lettere j e k) che il risarcimento accordato secondo la Tabella milanese (per una IP dell'8% e con il massimo della personalizzazione) fosse già comprensivo della sofferenza derivata dalla lesione e non potesse quindi essere riconosciuto due volte.
Per giustificare l'accoglimento del ricorso in parte qua il Supremo Collegio – per come si è visto - si sofferma a spiegare perché il “morale” (inteso come sofferenza interiore) dovrebbe avere autonoma e separata “dignità” (anche liquidativa) e non potrebbe invece essere assorbito ed 'annegato' all'interno del “biologico”-dinamico relazionale.
La Corte assume quindi che il Giudice di merito non si sarebbe uniformato «a tali principi» posto che (in grassetto i passi di rilievo): «Non risulta, per altro verso, identificabile il ragionamento probatorio che ha condotto alla determinazione della somma in concreto liquidata, non essendo stati in alcun modo specificati i criteri di valutazione delle varie componenti del danno alla salute in tutti i suoi aspetti dinamico relazionali (ivi compresi quelle estetici) che, in sede di rinvio, dovranno essere oggetto di una considerando che, nella specie, tale danno è consistito nella definitiva perdita della capacità procreativa (..)conseguente ad un intervento chirurgico che, nato come laparoscopia funzionale all'asportazione di una cisti ovarica, si è risolto in una ben più complessa operazione, mai acconsentita, di laparotomia cui è conseguita la definitiva perdita della possibilità di dare alla luce un figlio ( e su tali basi andrà conseguentemente considerato ed autonomamente liquidato, il danno morale)».
La decisione in esame sembra allora qualificare la perdita della capacità procreativa (solo) come «danno alla salute»; secondo gli Ermellini, la liquidazione del “biologico” (con personalizzazione massima in base alle Tabelle milanesi) fatta dal Giudice di merito sarebbe errata perché non terrebbe conto del «danno morale» , il quale ultimo dovrebbe invece essere separatamente valorizzato.
Vi è da chiedersi, peraltro, se nella fattispecie ci si trovi davvero di fronte alla (sola) lesione della salute o se non sia, invece, ravvisabile anche una offesa ad un altro e diverso diritto costituzionalmente tutelato.
Volendo esemplificare, in termini più generali: nel caso in cui taluno sia ferito al ginocchio e, per via dei postumi, non possa più giocare a tennis, si avrà solo una lesione della salute. Non si potrebbe cioè dire che il fatto di non poter più praticare uno sport amatoriale costituisce, anche, vulnus di un (altro) diritto costituzionalmente protetto (si tratterà, allora, di un profilo dinamico relazionale del pregiudizio alla integrità psico-fisica).
Mi sembra invece che compromettere l'apparato riproduttivo significhi non solo menomare una funzione organica, ma anche incidere su una dimensione diversa ( la realizzazione della persona attraverso la capacità di procreare), che trova le proprie radici nella Carta fondamentale. Una riprova in tal senso – ossia del fatto che si tratta di due posizioni concettualmente distinte – si rinviene, del resto, nella stessa giurisprudenza: il diritto alla procreazione cosciente e responsabile viene riconosciuto e tutelato anche nei confronti del padre, pur in assenza di un danno alla salute (per es. nella cd. wrongful birth ). Si consideri altresì quanto affermato dalla Corte Costituzionale (Corte cost. 10 giugno 2014 n. 162, che ha dichiarato la illegittimità del divieto di fecondazione eterologa posto dalla l. n. 40/2004): «la scelta di tale coppia di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia anche dei figli costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi, libertà che, come questa Corte ha affermato, sia pure ad altri fini ed in un ambito diverso, è riconducibile agli artt. 2, 3 e 31 Cost., poiché concerne la sfera privata e familiare».
Si potrebbe pensare, come situazione analoga, al caso di chi sferra un pugno al viso, ed offende non solo la integrità del setto nasale, ma anche l' onore della vittima. In una ipotesi siffatta non dovrebbero esserci soverchie difficoltà ad ammettere che il risarcimento deve riguardare e “coprire” due distinti profili: da un lato la compromissione psico-fisica (con tutti i suoi aspetti dinamico relazionali e morali, li si chiami come si vuole) e dall'altro, le conseguenze derivate dal vulnus alla dignità della persona.
Ma se questo è vero, vien da pensare che le disquisizioni e i distinguo su cui Cass. civ. n. 901/2018 incentra il proprio argomentare, siano forse, nella fattispecie, un po' extra calcem. Si vuole con ciò dire che la tesi di fondo espressa dalla Corte non pare adattarsi perfettamente al caso: qui, sembra corretto riconoscere un risarcimento “ulteriore”, ma non perché danno “biologico” e “morale” siano (o debbano considerarsi) entità distinte ed autonomamente valutabili all'interno del pregiudizio alla salute, quanto piuttosto perché è stato leso un altro e diverso diritto fondamentale (quello alla genitorialità), come tale meritevole di separata considerazione e tutela. L'arresto della Cassazione apre, peraltro, il sipario su scenari ancora più ampi e solleva interrogativi su cui la più attenta dottrina non ha mancato di riflettere (D. SPERA, Time out cit.): in particolare, questa (nuova) impostazione “salva” o mette in crisi le Tabelle di Milano? Stando alla lettera della motivazione, nel caso esaminato parrebbe che la Corte abbia ritenuto che la “personalizzazione” già riconosciuta a livello massimo (secondo i parametri meneghini) dal Giudice di merito non fosse sufficiente, non potesse cioè ricomprendere il danno morale inteso come sofferenza interiore che «su tali basi andrà conseguentemente considerato ed autonomamente liquidato».
Orbene, una tale soluzione (nel senso della maggiorazione del quantum) non si porrebbe in contrasto con il “sistema” delle Tabelle Milanesi laddove si sostenesse che, in realtà, nella fattispecie veniva in considerazione un altro e diverso diritto, la cui violazione giustificava sicuramente una separata ed autonoma considerazione (salvo poi capire, in concreto, – ma questo è un altro tema, forse ancor più complesso – fin dove arriva la liquidazione del danno morale correlato alla lesione della salute in sé, e dove comincia quella della sofferenza legata al fatto di non poter più generare…essendo forse i due aspetti talmente compenetrati da non essere distinguibili).
Restando, invece, entro i confini tracciati dal dato testuale – nel punto in cui la Cassazione sembra qualificare la perdita della capacità procreativa come «danno alla salute», imponendo una separata ed ulteriore liquidazione del pregiudizio “morale” -, il quesito resta aperto: la “sofferenza interiore” andrebbe ora monetizzata “in aggiunta” alla “personalizzazione” (che, si badi, qui era già stata accordata a livello massimo dal Giudice di merito)?
Forse è solo un dubbio, e probabilmente la Suprema Corte avrà modo di ulteriormente chiarire l'assetto concreto entro il quale gli operatori dovranno muoversi. Il fatto è che proclamare – come fa Cass. civ., n. 901/2018 - il definitivo superamento della «tesi predicativa di una pretesa “unitarietà comprensiva” del danno biologico”»parrebbe urtare con il criterio che le Sezioni Unite del 2008 e le stesse Tabelle di Milano (dal 2009 in poi) avevano ed hanno fatto proprio.
Il vero problema, forse, è che, al di là dei raffinati ed acuti “distinguo concettuali” (giusti, legittimi e dogmaticamente doverosi per certi aspetti), occorrono parametri e criteri pratici, per orientare gli operatori ed impedire possibili fraintendimenti. Tanto più che, in un settore così delicato come quello dei “valori della persona” (che sconta ab imis un limite insuperabile, tratteggiato in apertura delle presenti note), nel momento in cui si tenta di calare le enunciazioni “astratte” nel contesto del singolo caso, la perfezione eterea degli schemi e delle categorie cede il passo ad inevitabili approssimazioni, dovute alla difficoltà di discernere, separare e classificare, in concreto, il variegato «prisma» della realtà e delle emozioni umane.
“Per la cronaca” vale la pena segnalare che la successiva Cass. civ., 15 maggio 2018 n. 11754 (va detto, in altra composizione collegiale rispetto a Cass. civ., n. 901/2018), ha confermato a tutto tondo il “ruolo” e la “funzione” di «parametro di conformità» assunto dalle Tabelle di Milano, precisando che «spetta al giudice far emergere e valorizzare, dandone espressamente conto in motivazione in coerenza alle risultanze argomentative e probatorie obiettivamente emerse ad esito del dibattito processuale, specifiche circostanze di fatto, peculiari al caso sottoposto ad esame, che valgano a superare le conseguenze “ordinarie” già previste e compensate dalla liquidazione forfettizzata assicurata dalle previsioni tabellari; da queste ultime distinguendosi siccome legate all'irripetibile singolarità dell'esperienza di vita individuale nella specie considerata, caratterizzata da aspetti legati alle dinamiche emotive della vita interiore o all'uso del corpo e alla valorizzazione dei relativi aspetti funzionali, di per sé tali da presentare obiettive e riconoscibili ragioni di apprezzamento (in un'ottica che, ovviamente, superi la dimensione “economicistica” dello scambio di prestazioni, meritevoli di tradursi in una differente (più ricca e dunque individualizzata considerazione in termini monetari».
Fatte queste premesse, la Corte ha, nella specie, avallato la liquidazione effettuata dal Giudice di merito che aveva “maggiorato” il risarcimento applicando una personalizzazione «nella misura del 25% (su un massimo del 29% ndr.previsto dalle Tabelle), dando rilievo non solo al danno morale “già compreso nei valori tabellari”, ma anche alle “speciali circostanze costituite dalle gravi ripercussioni dei fatti sopra accertati sulla vita personale, affettiva e di relazione del paziente, e la sostanziale costrizione (per le esigenze legate all'impossibilità di urinare normalmente) ad una vita sedentaria e limitata negli spostamenti».
Chi scrive non può allora che auspicare che il quadro si chiarisca, e sperare – ma questa è una personalissima opinione – che il modello meneghino assurto a parametro nazionale di equità (così Cass. civ., n. 12408/2011; Cass. civ., n. 14402/2011; Cass. civ., n. 19376/2012; Cass. civ., n. 4447/2014) conservi e mantenga ben saldo il proprio ruolo di baluardo contro una - temibile e tutta da scongiurare - “Babele risarcitoria”.
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