La disciplina sanzionatoria del licenziamento invalido, dalla legge 604 al Jobs Act, modificato dal decreto dignità, alla Corte cost. 8 novembre 2018, n. 194
20 Novembre 2018
Premessa
In materia di disciplina del licenziamento il d.l. 12 luglio 2018, n. 87 interviene sulla quantificazione dell'indennità prevista dall'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015, elevando il limite minimo da quattro a sei mensilità e quello massimo da ventiquattro a trentasei mensilità.
Si tratta dell'ennesimo intervento del legislatore in pochi anni sulla disciplina sanzionatoria in ipotesi di licenziamento illegittimo, disciplina che dopo l'introduzione dell'art. 18, l. n. 300 del 1970, era rimasta sostanzialmente inalterata per oltre 40 anni.
La modifica normativa apportata dal d.l. n. 87 del 2018 non altera nella sostanza il regime sanzionatorio per l'ipotesi di licenziamento illegittimo, limitandosi ad alcuni correttivi quantitativi nella determinazione della misura minima e massima dell'indennità risarcitoria.
Per meglio inquadrare la portata della modifica legislativa, può essere utile una ricostruzione dell'evoluzione dei meccanismi sanzionatori applicati nel nostro ordinamento in ipotesi di licenziamento viziato. La distinzione tra tutela reale e tutela obbligatoria nel periodo dal 1970 al 2012
Dal 1970 al 2012 il sistema sanzionatorio è stato incentrato sulla distinzione tra tutela obbligatoria e tutela reale, distinzione collegata essenzialmente alle dimensioni del datore di lavoro.
La c.d. tutela obbligatoria (art. 8, l. n. 604 del 1966) si limita a prevedere in favore del dipendente ingiustamente licenziato esclusivamente un ristoro economico di portata estremamente limitata che varia da un minimo di 2,5, mensilità ad un massimo di 6 mensilità; è prevista, con scelta rimessa al datore di lavoro, la possibilità di sottrarsi al risarcimento riassumendo il lavoratore: in tal caso, tuttavia, il rapporto di lavoro si ricostituisce ex nunc e non produce alcun effetto economico per il lavoratore relativamente al periodo precedente alla riassunzione (tanto che a seguito del licenziamento, pur se viziato, il lavoratore matura il diritto al TFR e all'indennità sostitutiva del preavviso).
La c.d. tutela reale (art. 18, l. n. 300 del 1970), invece, consente al lavoratore ingiustamente licenziato un integrale ristoro, in quanto è incentrata sulla reintegrazione (che rispetto alla riassunzione ha effetti ex tunc e comporta la prosecuzione giuridica del rapporto come se lo stesso non si fosse mai interrotto) e comporta il pagamento di tutte le retribuzioni maturate e il versamento dei contributi previdenziali per il periodo dal licenziamento all'effettivo ripristino del rapporto, risarcimento che non può in ogni caso essere inferiore a 5 mensilità; inoltre, è concesso al lavoratore il diritto potestativo di optare in luogo della reintegrazione per il pagamento di una indennità prevista dal legislatore in misura fissa di 15 mensilità, fermo restando il diritto al risarcimento del danno consistente nel pagamento delle retribuzioni dalla data del licenziamento fino alla data di estinzione del rapporto attraverso l'esercizio dell'opzione per l'indennità sostitutiva della reintegrazione.
Il sistema vigente dal 1970 al 2012, che si applica ai licenziamenti intimati prima del 18 luglio 2012 (data di entrata in vigore della l. n. 92 del 2012), è caratterizzato dalla contemporanea esistenza di due tipologie di sanzioni tra loro estremamente diverse a fronte della medesima condotta illegittima del datore di lavoro.
A parte talune eccezioni di carattere soggettivo (in favore di alcuni datori di lavoro, per esempio organizzazioni di tendenza, trova sempre applicazione la c.d. tutela obbligatoria, mentre per altri, la pubblica amministrazione, trova sempre applicazione la c.d. tutela reale) la distinzione tra le due tipologie di tutela è incentrata su un elemento esterno al rapporto di lavoro, sulle dimensioni dell'azienda. Il legislatore ha individuato una soglia dimensionale al di sotto della quale si applica la tutela obbligatoria e al di sopra si applica la tutela reale. La ratio sottesa a tale distinzione parte dal presupposto che in piccole realtà lavorative potrebbe risultare problematico il riassorbimento del prestatore in un contesto ormai logorato, mentre in imprese di grandi dimensioni, dunque ove il rapporto tra datore di lavoro e prestatore è più spersonalizzato, il ripristino del rapporto risulterebbe certamente più agevole.
La soglia dimensionale è individuata, alternativamente, in 15 dipendenti nello stesso ambito comunale, ovvero 60 a livello nazionale. Pertanto, per i datori di lavoro che hanno un numero di dipendenti fino a 15 dipendenti in una o più sedi collocate nello stesso comune (ovvero 60 sull'intero territorio nazionale) trova applicazione la tutela obbligatoria, mentre per i datori di lavoro che hanno almeno 16 dipendenti nello stesso comune ovvero almeno 61 sul territorio nazionale, trova applicazione la tutela reale. Questioni problematiche
Se le motivazioni che hanno portato alla dicotomia tutela obbligatoria-tutela reale sono certamente serie e rilevanti, resta il fatto che tra le due diverse tutele esiste una enorme differenza, in quanto si passa da una tutela effettiva e che ristora integralmente il lavoratore, tanto da costituire un notevole effetto deterrente per licenziamenti infondati, ad una tutela di minima portata, che consente al lavoratore ingiustamente licenziato di ottenere solo un modesto ristoro economico.
Tale gap tra le due tutele, ancorato ad un elemento pur sempre estraneo al rapporto di lavoro e indipendente dalle condotte in concreto poste in essere dalle parti, costituiva, ad avviso di chi scrive, uno dei profili più problematici del sistema, sia per la conseguente disparità di trattamento tra lavoratori, disparità in alcun modo giustificata dalle dimensioni dell'azienda datrice di lavoro, sia perché ha favorito la frammentazione dei datori di lavoro al solo fine di non superare il limite dimensionale.
Sussistevano, invero, taluni contemperamenti, quali l'applicazione anche alle piccole aziende della tutela reale nelle ipotesi di licenziamento nullo o discriminatorio (è nullo, e non semplicemente illegittimo, il licenziamento intimato nei confronti della lavoratrice in gravidanza, a causa di matrimonio, il licenziamento discriminatorio, cioè intimato per ragioni dovute al sesso o alla razza del lavoratore, alla sua appartenenza politica, sindacale, ecc., il licenziamento ritorsivo, cioè quello intimato quale reazione all'esercizio di un diritto del lavoratore, per esempio il lavoratore che abbia chiesto il pagamento di somme di denaro a lui spettanti, ovvero che rivendichi il rispetto di norme in materia di sicurezza, ecc.), ritenuta l'ipotesi più grave di invalidità del licenziamento, ovvero l'applicazione di un meccanismo che consentiva il ripristino del rapporto e il risarcimento del danno nel caso di licenziamento orale. Le Sezioni Unite, infatti, in tema di licenziamento verbale con la sentenza n. 508 del 27 luglio 1999 hanno affermato i seguenti principi: a) nei rapporti sottratti al regime di tutela reale il licenziamento inefficace in quanto affetto da uno dei vizi formali di cui all'art. 2, l. n. 604 del 1966, non produce effetti sulla continuità del rapporto e, pertanto, non può ritenersi applicabile la disciplina prevista dall'art. 8 della stessa legge per la diversa ipotesi di licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo; b) vertendosi in tema di prestazioni corrispettive, l'inidoneità del licenziamento ad incidere sulla continuità del rapporto di lavoro non comporta il diritto del lavoratore alla corresponsione delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento inefficace, bensì solo al risarcimento del danno da determinarsi secondo le regole in materia di inadempimento delle obbligazioni; c) la stessa disciplina dell'inefficacia si applica sia per l'ipotesi di mancanza di forma scritta sia per l'ipotesi di mancata comunicazione dei motivi, senza che possa distinguersi tra i diversi vizi formali.
Pertanto, con riferimento alle imprese soggette alla disciplina sui licenziamenti individuali di cui alle leggi n. 604 del 1966 e n. 108 del 1990 (e quindi relativamente alla cosiddetta tutela obbligatoria), il licenziamento intimato oralmente deve ritenersi “giuridicamente inesistente ed improduttivo di effetti”, per cui il lavoratore ha diritto a ricevere, a titolo risarcitorio, la retribuzione spettante sino alla sua riammissione in servizio, stante l'inidoneità del recesso verbale ad incidere sulla continuità giuridica del rapporto di lavoro e dovendo assegnarsi alla responsabilità esclusiva del datore di lavoro la mancata, effettiva utilizzazione delle energie lavorative del dipendente, restando esclusa la sanzione prevista dall'art. 8, l. n. 604 del 1966, riferibile alle sole ipotesi di licenziamento privo di giustificazione (cfr., da ultimo, Cass. 30 agosto 2010, n. 18844; Cass. 18 maggio 2006, n. 11670; Cass. 8 giugno 2005, n. 11946; Cass. 11 settembre 2003, n. 13375; Cass. 18 agosto 2003, n. 12079; Cass. 18 febbraio 2003, n. 2392; Cass. 20 dicembre 2002, n. 18194; Cass. 19 maggio 2001 n. 6879. Cfr. anche Cass. 5 giugno 2003, n. 9022 e 18 novembre 2000, n. 14949, secondo le quali in presenza di un licenziamento inefficace il lavoratore ha diritto al pagamento delle retribuzioni maturate).
Altra caratteristica problematica del sistema sanzionatorio antecedente alla l. n. 92 del 2012 era l'assenza di differenziazioni nella disciplina sanzionatoria in base alla gravità del licenziamento.
Infatti, i profili che portano a ritenere invalido un licenziamento possono essere molteplici. Si va dalle ipotesi più gravi di nullità del licenziamento ad ipotesi meno gravi di vizi meramente formali; nella pratica si verificano frequentemente dei casi in cui i presupposti per il licenziamento si configurano in concreto (per esempio comportamento inadempiente o disciplinarmente rilevante del lavoratore), ma il giudice non ritenga integrata la extrema ratio della sanzione espulsiva, per cui quel licenziamento, pur se abbia quale presupposto condotte effettivamente poste in essere dal lavoratore, non venga ritenuto valido.
A fronte di profili di invalidità di gravità spesso molto differente, la tutela reale approntava una tutela unica applicabile a tutte le ipotesi. Tale circostanza se da un lato semplificava notevolmente il regime sanzionatorio, in quanto ogni profilo di invalidità portava all'applicazione della medesima sanzione, dall'altro trattava allo stesso modo il licenziamento della lavoratrice motivato dalla sua gravidanza e il licenziamento del lavoratore che aveva posto in essere condotte gravi ma viziato da un piccolo errore di forma. La l. 28 giugno 2012, n. 92, ha modificato radicalmente il sistema sanzionatorio appena descritto destrutturando l'unitarietà dell'art. 18.
Si deve premettere la riforma c.d. “Fornero” (l. 28 giugno 2012, n. 92) non ha inciso in alcun modo sui concetti di giusta causa e giustificato motivo, ma è intervenuta a disciplinare diversamente solo le conseguenze del licenziamento invalido nell'ambito della c.d. tutela reale, lasciando del tutto inalterato l'art. 8, l. n. 604 del 1966, con la conseguenza che il legislatore del 2012 non ha in alcun modo modificato il doppio binario art. 8, l. n. 604 del 1966 / art. 18, l. n. 300 del 1970, se non limitando la differenza di trattamento tra i lavoratori di aziende di piccole dimensioni e quelli di aziende con più di 15 dipendenti attraverso una sostanziale riduzione delle tutele previste in favore di questi ultimi. Pertanto, per le aziende che impiegano fino a 15 dipendenti il licenziamento illegittimo continua a comportare l'applicazione della tutela obbligatoria di cui all'art. 8, l. n. 604 del 1966; per le stesse aziende trova applicazione la tutela reale di cui all'art. 18 qualora il licenziamento sia nullo (perché intimato durante la gravidanza, a causa di matrimonio, per motivo discriminatorio o ritorsivo). Per quanto riguarda le aziende che operano nell'ambito della tutela obbligatoria l'unica differenza conseguente alla riforma consiste nella diversa disciplina derivante dal licenziamento verbale, per il quale trova attualmente applicazione la tutela reale di cui all'art. 18, comma 1, st. lav.: con il precedente sistema, invece, anche in relazione al licenziamento verbale era necessario distinguere tra ambito della tutela obbligatoria, in relazione al quale trovavano applicazione le conseguenze illustrate in precedenza e ambito della tutela reale per il quale trovava applicazione l'art. 18.
Seppure la riforma ha disciplinato diversamente il regime sanzionatorio prevedendo una pluralità di tipologie non più incentrate sull'esclusivo binomio tutela reale-tutela obbligatoria, tale distinzione continua ad essere essenziale, per cui anche a seguito della riforma occorre verificare se l'azienda abbia più o meno di 15 dipendenti (in ambito comunale ovvero 60 in ambito nazionale).
In poche parole la riforma ha inciso esclusivamente sui licenziamenti intimati nell'ambito della tutela reale, prevedendo non più come unica conseguenza quella descritta dall'art. 18 dello statuto dei lavoratori, ma modulando le sanzioni in base alla tipologia di vizio.
L'elemento di maggiore rilevanza della riforma sta nel fatto che anche nell'ambito delle aziende con più di 15 dipendenti non sempre l'invalidità del licenziamento porta alla effettiva reintegra nel posto di lavoro, avendo il legislatore previsto una pluralità di sanzioni che vanno dalla reintegra e risarcimento del danno corrispondente alle retribuzioni dal licenziamento alla reintegra, alla reintegra accompagnata solo da un risarcimento limitato a dodici mensilità, al solo indennizzo senza reintegra.
Un corollario della nuova struttura sanzionatoria è che può dirsi venuto meno il principio di stabilità del posto di lavoro, nel senso che anche per i lavoratori di aziende con più di 15 dipendenti non sempre e non necessariamente ad un licenziamento invalido corrisponde la reintegra nel posto di lavoro e il pieno risarcimento del danno. Ciò ha una rilevante ricaduta sulla decorrenza dei termini di prescrizione per i crediti derivanti dal rapporto di lavoro, in quanto una volta che sia venuta meno la stabilità reale come principio di carattere generale, tutti i crediti di lavoro non potranno che decorrere dalla data della cessazione del rapporto di lavoro. La struttura del nuovo art. 18, l. n. 300 del 1970, successivamente alla l. n. 92 del 2012: la tutela reintegratoria piena (art. 18, commi 1-3)
Il nuovo art. 18 prevede 4 diverse discipline sanzionatorie, due che prevedono la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento del danno, due che non prevedono il ripristino del rapporto, ma solo il pagamento di un indennità risarcitoria.
I primi tre commi dell'art. 18 prevedono una forma di tutela che corrisponde integralmente alla tutela reale di cui all'originario art. 18, in quanto in tal caso il lavoratore licenziato ha diritto: alla reintegrazione nel posto di lavoro, al risarcimento del danno pari alle retribuzioni dalla data del licenziamento alla effettiva reintegra (risarcimento che in ogni caso non potrà essere inferiore a 5 mensilità), per il medesimo periodo al versamento dei contributi previdenziali, ad optare per l'indennità di 15 mensilità in luogo della reintegra.
La tutela reale come descritta dai primi tre commi del nuovo art. 18 si applica a tutte le ipotesi, a prescindere dal numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, di licenziamento nullo (discriminatorio, della lavoratrice in gravidanza, a causa di matrimonio, ecc.) e di licenziamento inefficace perché intimato senza il rispetto della forma scritta e nei confronti di tutti i lavoratori, per cui anche ai dirigenti.
La reale portata innovativa della norma, pertanto, consiste nell'applicazione della tutela reale anche alle ipotesi, prima sottratte, di licenziamento orale intimato da un datore di lavoro privo dei requisiti dimensionali per l'applicazione della tutela reale e di licenziamento dei dirigenti (pur se già la giurisprudenza consentiva l'applicazione della tutela reale per i dirigenti licenziati per motivo discriminatorio o ritorsivo). Per il resto la disciplina dei primi tre commi dell'art. 18 è del tutto sovrapponibile alla precedente disciplina.
In sintesi la tutela reintegratoria piena (intesa come reintegrazione nel posto di lavoro oltre risarcimento del danno dal licenziamento alla reintegrazione) trova applicazione, a prescindere dalle dimensioni dell'azienda, a tutti i licenziamenti nulli e verbali.
La tutela reintegratoria piena trova, pertanto, applicazione alle seguenti fattispecie:
La tutela reintegratoria piena ricalca sostanzialmente la precedente tutela reale di cui alla previgente formulazione dell'art. 18, con qualche precisazione: il giudice ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno pari all'ultima retribuzione globale di fatto dal licenziamento alla effettiva reintegra. Dal risarcimento del danno deve essere detratto l'aliunde perceptum, cioè quanto il lavoratore ha percepito in virtù di attività lavorative svolte successivamente al licenziamento. La circostanza che nulla venga detto sull'aliunde percepiendum, il quale è invece espressamente contemplato dal successivo comma quarto per la tutela reintegratoria debole, porta a ritenere che esso non vada considerato ai fini del risarcimento del danno per la tutela reintegratoria forte.
In ogni caso la misura del risarcimento non può essere inferiore alle cinque mensilità e questo anche nel caso in cui l'ordine di reintegrazione dovesse avvenire prima del decorso di cinque mesi ovvero il lavoratore trovi una nuova occupazione immediatamente dopo il licenziamento.
Per il periodo intercorrente dal licenziamento alla reintegra sono dovuti i contributi previdenziali.
Il lavoratore può optare, al posto della reintegrazione, per una indennità sostitutiva della reintegrazione che è determinata dal legislatore nella misura fissa di 15 mensilità. Se per i casi esaminati di residua applicazione della tutela reale (licenziamento nullo e licenziamento inefficace per vizio di forma) si deve prescindere dal requisito dimensionale del datore di lavoro, trovando applicazione a tutte le fattispecie anche per i licenziamenti intimati da datori di lavoro che abbiano alle loro dipendenze meno di 16 dipendenti, tutte le ulteriori fattispecie descritte dagli ulteriori commi dell'art. 18 si applicano solo ai licenziamenti intimati da datori di lavoro con più di 15 dipendenti, mentre per le medesime ipotesi nell'ambito di aziende che occupano un numero inferiore di dipendenti trova applicazione unicamente il meccanismo sanzionatorio di cui all'art. 8, l. n. 604del 1966.
La seconda tipologia di tutela comporta pur sempre la reintegrazione del lavoratore licenziato illegittimamente, ma si distingue dalla tutela reale per il fatto che pur prevedendo il ripristino del rapporto e il risarcimento del danno attraverso il pagamento delle retribuzioni dal licenziamento alla reintegra, qualifica quest'ultimo come “indennità risarcitoria” e lo limita fino ad un massimo di dodici mensilità.
Nel regime di tutela reale, infatti, il decorso del tempo dal licenziamento fino al provvedimento di reintegra va a danno del datore di lavoro il quale sarà tenuto ad un risarcimento pari al tempo intercorso tra il licenziamento e l'effettiva reintegrazione. Con il precedente sistema non era infrequente l'ipotesi in cui il provvedimento di reintegra del giudice intervenisse molto tempo dopo il licenziamento (sia perché il lavoratore non incorreva in decadenze se non si attivava subito per presentare ricorso giudiziario, sia perché l'ordine di reintegrazione poteva anche intervenire nei successivi gradi di giudizio, dopo che in primo grado il giudice avesse rigettato il ricorso), con la conseguenza che la quantificazione del risarcimento poteva assumere livelli molto consistenti. Questo sistema poteva risultare non del tutto equo in quelle ipotesi in cui la dilatazione del tempo fosse imputabile unicamente alla prolungata inerzia del lavoratore, ovvero in cui l'esito del giudizio fosse oggettivamente incerto.
La logica del legislatore, allora, risulta volta a limitare la quantificazione del risarcimento, attraverso la previsione di un sistema di decadenza che costringe il lavoratore ad adire prontamente il giudice, di un sistema processuale che in teoria dovrebbe garantire una immediata pronuncia e, in ogni caso, di un limite di 12 mensilità alla quantificazione del risarcimento.
Tale tutela, pertanto, non si differenzia strutturalmente da quella reale, prevedendo in ogni caso il meccanismo della reintegra, la possibilità per il lavoratore di optare per l'indennità sostitutiva delle 15 mensilità, e il risarcimento del danno, ma presenta quale unica particolarità la limitazione del risarcimento che non potrà superare le dodici mensilità.
Se tra il licenziamento e l'ordine di reintegra dovesse intercorrere un tempo non superiore a dodici mesi (ipotesi che, con la previsione di un rigido regime decadenziale e di un processo che potenzialmente potrebbe portare ad una prima pronuncia in tempi estremamente ridotti, non risulta essere infrequente), tale tipologia di tutela si presenterebbe identica a quella reintegratoria piena (pur se con qualche minima differenza, che verrà illustrata di seguito). Qualora l'ordine di reintegrazione dovesse intervenire oltre l'anno dal licenziamento, il decorso di un maggior tempo, penalizzerebbe il lavoratore il quale non potrà in ogni caso ottenere un risarcimento superiore alle dodici mensilità.
Ribadito che tale tipologia di tutela trova applicazione esclusivamente per i licenziamenti intimati da imprese che occupano più di 15 dipendenti (ovvero 60 in ambito nazionale), essa si applica in talune ipotesi si licenziamento disciplinare e di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. In particolare, per i licenziamenti disciplinari essa si applica nelle ipotesi in cui il giudice “accerta che non ricorrono gli estremi di giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”.
Apparentemente la norma appare abbastanza chiara: essa si applica qualora il fatto contestato (per esempio, l'avere sottratto beni del datore di lavoro) risulti all'esito del giudizio non provato (l'onere della prova grava sul datore di lavoro), ovvero se tale fatto risulti sussumibile in una delle ipotesi per le quali il codice disciplinare preveda una sanzione disciplinare conservativa (per esempio, nelle ipotesi in cui a fronte di una previsione contrattuale che sanziona con la sospensione dal servizio l'assenza non giustificata fino a cinque giorni e con il licenziamento l'assenza per un numero di giorni superiore, qualora all'esito del giudizio si prova che l'assenza si sia protratta per quattro giorni).
La Corte di cassazione con sentenza 6 novembre 2014, n. 23669, ha ricostruito la norma nei termini che seguono: “Il nuovo articolo 18 ha tenuto distinta, invero dal fatto materiale la sua qualificazione come giusta causa o giustificato motivo, sicché occorre operare una distinzione tra l'esistenza del fatto materiale e la sua qualificazione. La reintegrazione trova ingresso in relazione alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, così che tale verifica si risolve e sì esaurisce nell'accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto, che dovrà essere condotto senza margini per valutazioni discrezionali, con riguardo alla individuazione della sussistenza o meno del fatto della cui esistenza si tratta, da intendersi quale fatto materiale, con la conseguenza che esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato […] Deve, invero, osservarsi che il quarto comma dell'art. 18, l. n. 300 del 1970, accomuna le ipotesi dì giusta causa e giustificato motivo, escludendone gli estremi per insussistenza del fatto contestato, ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi, ovvero dei codici disciplinari applicabili, e che il quinto comma prevede, nelle altre ipotesi in cui venga accertato che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, la risoluzione del rapporto di lavoro con effetto dalla data de! licenziamento e la condanna del datore dì lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva, determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all'anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione al riguardo”.
Tale interpretazione è stata confermata da successive pronunce della Suprema Corte che ha affermato che l'insussistenza del fatto contestato, di cui all'art. 18, st. lav., come modificato dall'art. 1, comma 42, l. n. 92 del 2012, comprende l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicché in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità (Cass. 10 maggio 2018, n. 11322), disponendo così la reintegrazione per condotte prive dei caratteri dell'antigiuridicità e illiceità (Cass. 20 settembre 2016, n. 18418). Nell'ambito del licenziamento per giustificato motivo oggettivo l'ipotesi sanzionatoria descritta si applica nell'ipotesi in cui il giudice “accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”.
Anche il tale ipotesi non si può non evidenziare la difficoltà di distinguere la manifesta insussistenza del fatto (che porta alla reintegrazione) dalla semplice insussistenza degli estremi del giustificato motivo oggettivo (che come vedremo porta ad una tutela meramente risarcitoria).
In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ove il giudice accerti il requisito della manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento, previsto dall'art. 18, comma 7, st. lav., come novellato dalla l. n. 92 del 2012, può scegliere di applicare la tutela reintegratoria di cui al comma 4 del medesimo art. 18, salvo che, al momento di adozione del provvedimento giudiziale, tale regime sanzionatorio non risulti incompatibile con la struttura organizzativa dell'impresa e dunque eccessivamente oneroso per il datore di lavoro; in tal caso, nonostante l'accertata manifesta insussistenza di uno dei requisiti costitutivi del licenziamento, potrà optare per l'applicabilità della tutela indennitaria di cui al comma 5 (Cass. 2 maggio 2018, n. 10435). Nella stessa pronuncia la Suprema Corte ha precisato che la verifica del requisito della manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, concerne entrambi i presupposti di legittimità del recesso e, quindi, sia le ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa sia l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore (cd. repêchage).
Tuttavia, fermo l'onere della prova che grava sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 5, l. n. 604 del 1966, la manifesta insussistenza va riferita ad una evidente, e facilmente verificabile sul piano probatorio, assenza dei suddetti presupposti, che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso.
Il giudice può attribuire la cd. tutela reintegratoria attenuata, tra tutte le ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo, esclusivamente nel caso in cui il fatto posto a base del licenziamento non solo non sussista, ma anche a condizione che detta insussistenza sia manifesta, per cui non pare dubitabile che l'intenzione del legislatore, pur tradottasi in un incerto testo normativo, sia quella di riservare il ripristino del rapporto di lavoro ad ipotesi residuali che fungono da eccezione alla regola della tutela indennitaria in materia di licenziamento individuale per motivi economici (Cass. 19 gennaio 2018, n. 1373). Secondo un diverso orientamento, che deve ritenersi superato dalle citate pronunce della Suprema Corte la locuzione di cui all'art. 18, comma 7, st. lav., come novellato dalla l. n. 92 del 2012, “può altresì applicare” deve interpretarsi nel senso che, a fronte dell'inesistenza del fatto posto a base del licenziamento, il giudice, tenuto conto degli elementi del caso concreto, applica la reintegra, essendo esclusa ogni sua discrezionalità. Ove, viceversa, emerga che il fatto posto a fondamento del licenziamento esista, ma non sia ritenuto concretare un giustificato motivo oggettivo, trova applicazione la tutela indennitaria (Cass. 14 luglio 2017, n. 17528). La tutela applicabile nelle ipotesi diverse dalla mancanza di giusta causa o giustificato motivo: il superamento del periodo di comporto e il licenziamento per mancato superamento della prova in presenza di profili di nullità del patto di prova
L'intento del legislatore è chiaro nell'avere voluto graduare le conseguenze del licenziamento illegittimo parametrandole alla gravità della condotta datoriale, ma nel far ciò ha introdotto criteri di valutazione estremamente evanescenti e discrezionali che sostanzialmente lasciano all'interprete una ampia libertà circa la sanzione applicabile. Se si considera la distanza che intercorre tra la tutela reintegratoria (che appunto porta al ripristino del rapporto oltre ad un risarcimento del danno) e la tutela solo indennitaria (che comporta la cessazione del rapporto di lavoro e il mero pagamento di un indennizzo), tale scelta agganciata a valutazioni ampiamente discrezionali e di difficile inquadramento, appare poco felice.
La tutela reintegratoria con risarcimento del danno limitato trova applicazione, per espressa previsione della norma, anche ai licenziamenti illegittimi intimati per inidoneità fisica del lavoratore o per superamento del periodo di comporto.
Le Sezioni Unite, tuttavia, hanno precisato che il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all'art. 2110, comma 2, c.c. (Cass. 22 maggio 2018, n. 12568).
La cessazione unilaterale del rapporto per mancato superamento della prova rientra nell'eccezionale fattispecie del recesso ad nutum di cui all'art. 2096, c.c., sottratto all'ordinaria disciplina di controllo delle ragioni del licenziamento, fermo restando, peraltro, che il richiamo al mancato superamento di un patto di prova non validamente apposto è inidoneo a costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento e giustifica l'applicazione della tutela reintegratoria e risarcitoria, prevista dall'art. 18, comma 4, st. lav., come modificato dalla l. n. 92 del 2012 (Cass. 3 agosto 2016, n. 16214). Contenuto della tutela reintegratoria attenuata
La tutela reintegratoria attenuata non si differenzia sostanzialmente dalla tutela reintegratoria piena: consente la reintegra del lavoratore (e l'eventuale esercizio dell'opzione in favore dell'indennità sostitutiva della reintegrazione) e dà diritto al risarcimento del danno corrispondente alle retribuzioni dalla data del licenziamento a quello di effettiva reintegra. La differenza tra le due tutele è che il risarcimento del danno non può essere superiore a 12 mensilità, non sussiste il limite minimo delle cinque mensilità (per cui in presenza di aliunde perceptum in ipotesi potrebbe essere eliso del tutto) e rileva non solo l'aliunde perceptum, ma anche l'aliunde percepiendum, cioè quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire usando l'ordinaria diligenza.
Seppure la norma abbia una formulazione particolarmente infelice, in quanto prevede che il risarcimento “dalla data del licenziamento a quello di effettiva reintegra” non possa superare le dodici mensilità, si deve ritenere che il periodo coperto da tale risarcimento non sia quello dal licenziamento all'effettiva reintegra (venendo altrimenti meno alcun interesse del datore di lavoro a reintegrare il lavoratore), ma solo quello fino alla sentenza, in quanto dalla sentenza che ordina la reintegrazione il lavoratore ha diritto a percepire le retribuzioni.
In ogni caso, a prescindere dall'entità del risarcimento sono dovuti i contributi previdenziali dal giorno del licenziamento a quello di effettiva reintegra. Al di fuori delle ipotesi sopra previste in cui trova applicazione la tutela reale, ovvero la tutela reintegratoria con un risarcimento limitato, il legislatore ha escluso, anche per le aziende che occupano più di 15 dipendenti, che in caso di licenziamento illegittimo il rapporto di lavoro possa essere ripristinato, prevedendo che (con una formulazione particolarmente infelice) il giudice debba dichiarare “risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento” e condannare il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria.
Le ipotesi in cui si applica la tutela solo indennitaria si ricavano in via residuale, essendo tutte le ipotesi in cui non si applichi la tutela reintegratoria.
Per quanto riguarda la quantificazione dell'indennità, essa varia in base alla tipologia di vizio.
Il legislatore ha distinto tra vizi di carattere formale e vizi di carattere sostanziale. Per vizi del licenziamento derivanti dal difetto di giusta causa o di giustificato motivo l'indennizzo può variare da un minimo di dodici ad un massimo di ventiquattro mensilità.
Per quanto riguarda il licenziamento disciplinare la sanzione si applica nelle ipotesi in cui il giudice ritenga che non ricorrano gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa: si tratta di quelle ipotesi in cui il giudice accerta la sussistenza dei fatti e la loro sussumibilità in condotte sanzionate dal codice disciplinare con il licenziamento (perché in caso contrario si applicherebbe la tutela reintegratoria di cui al quarto comma dell'art. 18), ma ritiene che in concreto la sanzione del licenziamento non sia proporzionata rispetto alla condotta del lavoratore.
Per quanto riguarda il licenziamento per giustificato motivo oggettivo la sanzione indennitaria si applica “nelle altre ipotesi in cui il giudice accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo”.
Si tratta di tutte le ipotesi diverse da quelle in cui il giudice ritenga “manifestamente insussistente” il fatto dedotto dal datore di lavoro quale giustificato motivo oggettivo, ipotesi che come visto determina l'applicazione della tutela reintegratoria. In presenza di vizi meramente formali (per esempio, insussistente o insufficiente specificazione dei motivi del recesso, violazioni del procedimento disciplinare, ecc.) l'indennizzo varia da un minimo di sei ad un massimo di dodici mensilità. L'applicazione di tale sanzione, ovviamente, presuppone l'esistenza del solo vizio di forma e l'assenza di ulteriori profili di invalidità del licenziamento, trovando altrimenti applicazione la relativa disciplina.
In tema di licenziamento disciplinare, la violazione dell'obbligo del datore di lavoro di sentire preventivamente il lavoratore a discolpa, quale presupposto dell'eventuale provvedimento di recesso, integra una violazione della procedura di cui all'art. 7, st. lav. e rende operativa la tutela prevista dal successivo art. 18, comma 6, quale modificato dalla l. n. 92 del 2012 (Cass. 7 dicembre 2016, n. 25189).
Rientrano nei vizi formali e comportano l'applicazione della tutela indennitaria debole la violazione della procedura di cui all'art. 7, l. n. 300 del 1970 e della procedura di cui all'art. 7, l. n. 604 del 1966. Vizi della contestazione disciplinare
In tema di licenziamento disciplinare, il radicale difetto di contestazione dell'infrazione determina l'inesistenza dell'intero procedimento, e non solo l'inosservanza delle norme che lo disciplinano, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria, di cui al comma 4 dell'art. 18, l. n. 300 del 1970, come modificato dalla l. n. 92 del 2012, richiamata dal comma 6 del predetto articolo per il caso di difetto assoluto di giustificazione del provvedimento espulsivo, tale dovendosi ritenere un licenziamento disciplinare adottato senza alcuna contestazione di addebito (Cass., 14 dicembre 2016, n. 25745), mentre nell'ipotesi in cui la contestazione disciplinare, finalizzata al licenziamento, non contenga una sufficiente e specifica descrizione della condotta tenuta dal lavoratore, è applicabile l'art. 18, comma 6, st. lav., con riferimento alle ipotesi di vizi di forma attinenti alla motivazione del recesso, come ora disciplinata dall'art. 2, comma 2, l. n. 604 del 1966, con conseguente dichiarazione giudiziale di risoluzione del rapporto di lavoro e condanna del datore al pagamento di un'indennità risarcitoria compresa tra sei e dodici mensilità della retribuzione globale di fatto (Cass. 10 agosto 2016, n. 16896). Cass. 31 gennaio 2017, n. 2513, ha affermato che in tema di licenziamento disciplinare, un fatto non tempestivamente contestato dal datore non può che essere considerato insussistente ai fini della tutela reintegratoria prevista dall'art. 18, st. lav., come modificato dalla l. n. 92 del 2012, trattandosi di violazione radicale che impedisce al giudice di valutare la commissione effettiva dello stesso anche ai fini della scelta tra i vari regimi sanzionatori.
Tale orientamento, tuttavia, è stato contraddetto da una successiva pronuncia delle Sezioni Unite che hanno affermato che ove la legge o le norme di contratto collettivo prevedano dei termini per la contestazione dell'addebito posto a base del provvedimento di recesso, il mancato rispetto dei detti termini integra violazione di natura procedimentale e comporta l'applicazione della sanzione indennitaria di cui al comma 6 dello stesso art. 18, st. lav.; invece, l'accertamento di un ritardo notevole e non giustificato della contestazione dell'addebito posto a base del provvedimento di recesso comporta l'applicazione della sanzione dell'indennità prevista dal comma 5 dello stesso art. 18, st. lav. (Cass. 27 dicembre 2017, n. 30985; nello stesso senso Cass. 18 maggio 2018, n. 12231). Contenuto della tutela indennitaria
La tutela indennità forte prevede unicamente il pagamento di un'indennità risarcitoria che varia tra un minimo di 12 ad un massimo di 24 mensilità: tale indennità è onnicomprensiva, cioè comprende ogni possibile conseguenza derivante dal licenziamento. Non rilevano, invece, eventuali ulteriori redditi da lavoro percepiti dal lavoratore che non potranno essere detratti dall'ammontare dell'indennità.
Poiché nell'ambito della tutela meramente indennitaria il rapporto di lavoro non viene ripristinato e deve ritenersi, pur se in presenza di un licenziamento illegittimo, cessato, spetta la lavoratore, qualora non sia stato concesso il preavviso, la relativa indennità sostitutiva.
Il giudice nel quantificare l'indennità deve fare riferimento all'anzianità del lavoratore e deve altresì tenere conto delle dimensioni dell'impresa, del comportamento e delle condizioni delle parti. Sembra che il legislatore abbia voluto dare al requisito dell'anzianità una valenza decisamente preminente rispetto agli altri criteri, i quali, tuttavia, possono essere presi in considerazione dal giudice nel determinare l'indennità.
La tutela indennitaria debole comporta il pagamento di un indennizzo, anche qui onnicomprensivo, variabile tra le sei e le dodici mensilità: cambia, però, il criterio che il giudice deve usare per quantificarlo in quanto è previsto solo il parametro relativo “alla gravità della violazione formale o procedurale”. In sintesi, la l. n. 92 del 2012 ha previsto quattro tipologie di sanzioni calcolate in base alla gravità del vizio. Tale sistema se da un lato ha l'indubbio vantaggio di adeguare la sanzione al vizio presenta talune criticità. In primo luogo sussiste una oggettiva difficoltà a distinguere le tipologie di vizio, con particolare riferimento alla distinzione tra “l'insussistenza del fatto contestato” e la mera carenza di giusta causa e giustificato motivo soggettivo nell'ambito del licenziamento disciplinare e alla “manifesta insussistenza del fatto” e la mancanza di giustificato motivo oggettivo nei licenziamenti economici. La distinzione risulta particolarmente ardua in considerazione del fatto che si tratta di mere specificazioni della medesima categoria giuridica della mancanza di giusta causa o di giustificato motivo.
Altro profilo problematico relativo alla frammentazione delle tutele consiste nella difficoltà di individuare la tipologia di sanzione relativamente ai vizi non sussumibili tra quelli previsti, situazione che come si è analizzato ha portato a pronunce giurisprudenziali contrastanti. Licenziamenti collettivi
Il regime sanzionatorio descritto, che come detto si aggiunge a quello disciplinato dall'art. 8, l. n. 604 del 1966, trova applicazione unicamente ai licenziamenti individuali, in quanto il legislatore è intervenuto autonomamente per i licenziamenti collettivi.
Anche per i licenziamenti collettivi la legge di riforma ha previsto un regime differenziato in base alla tipologia di vizio: in particolare, in mancanza di forma scritta (ipotesi invero piuttosto di scuola) si applica la tutela reintegratoria piena (art. 18 comma 1), in caso di violazione dei criteri di scelta del personale da licenziare trova applicazione la tutela reintegratoria debole (art. 18 comma 4) e in caso di omissione o incompletezza delle comunicazioni di cui all'art. 4, l. n. 223 del 1991, si applica la tutela indennitaria (art. 18, comma 7, terzo periodo). Regime temporale
Nei giudizi aventi ad oggetto i licenziamenti disciplinari, al fine di individuare la legge regolatrice del rapporto sul versante sanzionatorio, va fatto riferimento non al fatto generatore del rapporto, né alla contestazione degli addebiti, ma alla fattispecie negoziale del licenziamento, sicché il comma 42 dell'art. 1, l. n. 92, cit., si applica solo ai nuovi licenziamenti, ossia a quelli comunicati a partire dal 18 luglio 2012, data di entrata in vigore della nuova disciplina (Cass. 31 luglio 2015, n. 16265). Il regime sanzionatorio nel Jobs Act: la legge delega n. 183 del 2014 e il d.lgs. 23 del 2015
Il comma 7 dell'art. 1 della legge delega 10 dicembre 2014, n. 183, in materia di sanzioni avverso il licenziamento invalido ha dettato i seguenti principi e criteri direttivi:
Il legislatore delegante ha scelto di non modificare gli artt. 18, l. n. 300 del 1970, e 8, l. n. 604 del 1966, ma di creare una nuova e distinta disciplina che si aggiunge a quella preesistente e che si applica ai contratti stipulati successivamente all'entrata in vigore del decreto legislativo (7 marzo 2015).
Pertanto, il discrimine temporale che consente l'applicazione dell'una o dell'altra disciplina non è legato alla data di intimazione del licenziamento, ma esclusivamente al rapporto da cui si recede, cioè se il rapporto sia stato instaurato prima o dopo l'entrata in vigore del decreto legislativo (art. 1, comma1).
Questo meccanismo da un lato consentirà alle due distinte discipline una prolungata convivenza (considerato che la disciplina di cui agli artt. 18, l. n. 300 del 1970, e 8, l. n. 604 del 1966, riguarda recessi datoriali da rapporti instaurati fino al 2014, la stessa continuerà ad applicarsi per i prossimi decenni), dall'altro determinerà distinte tutele a fronte di uno stesso licenziamento (si pensi all'ipotesi di licenziamenti plurimi o collettivi di lavoratori assunti sia prima sia dopo l'entrata in vigore del decreto legislativo, per i primi si applicherà la disciplina di cui agli artt. 18, l. n. 300 del 1970, e 8, l. n. 604 del 1966, mentre per i secondi si applicherà la nuova disciplina).
La situazione è ulteriormente complicata dalla previsione del secondo comma dell'art. 1, d.lgs. n. 23 del 2015, secondo il quale la nuova disciplina si applica anche ai lavoratori assunti precedentemente dall'entrata in vigore del decreto legislativo qualora il datore di lavoro sia passato da un organico di 15 o meno dipendenti a più di 15 dipendenti in conseguenza di assunzioni avvenute successivamente l'entrata in vigore del decreto legislativo. La norma costituisce un chiaro incentivo verso nuove assunzioni, in quanto il datore di lavoro che assumendo dei lavoratori vada a superare il limite dei 15 dipendenti può usufruire della nuova disciplina, certamente più favorevole, a prescindere dalla data di assunzione dei lavoratori. La formulazione della norma lascia il dubbio se il requisito di più di 15 dipendenti, per consentire l'applicabilità della disciplina anche ai rapporti instaurati in precedenza, debba permanere anche al momento del licenziamento, ovvero, come sembrerebbe dal tenore della norma, una volta superato il limite si applica il beneficio anche nell'ipotesi in cui il numero dei dipendenti dovesse diminuire a meno di 16 unità.
L'art. 1, oltre al discrimine temporale, dispone che la nuova disciplina si applichi solo per coloro che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri. L'espresso riferimento delle categorie cui la norma si applica porta ad escludere che la stessa possa applicarsi ai dirigenti. In realtà l'esclusione dei dirigenti non ha alcun effetto pratico in quanto a tale categoria non si applicano neppure le attuali disposizioni di cui all'art. 18, l. n. 300 del 1970, e dell'art. 8, l. n. 604 del 1966, eccezion fatta per i primi tre commi dell'art. 18. Ne consegue che ai dirigenti non si applicherà la nuova disciplina ma continueranno ad applicarsi i primi tre commi dell'art. 18 anche per i contratti stipulati successivamente all'entrata in vigore del decreto legislativo. Considerato, tuttavia, che la disciplina dei primi tre commi dell'art. 18 è, come vedremo, sostanzialmente identica a quella prevista nell'art. 2 del decreto legislativo, l'esclusione dei dirigenti non avrà alcun effetto pratico se non quello di consentire la vigenza dell'art. 18 (nonché del rito speciale introdotto dalla l. n. 92 del 2012) anche per i contratti stipulati successivamente all'entrata in vigore del decreto legislativo.
Certamente di maggiore rilievo è la scomparsa nell'individuazione del campo di applicazione della norma di ogni riferimento dimensionale della azienda. La nuova disciplina, infatti, si applica a tutte le aziende, siano esse con più di 15 dipendenti siano con meno. Ciò porta al superamento della distinzione della tutela (obbligatoria/reale) fondata sul requisito dimensionale che ha caratterizzato la disciplina del diritto del lavoro dal 1970.
Il superamento della distinzione della tutela in base al requisito dimensionale dell'azienda, tuttavia, risulta più di fatto che effettivo, in quanto il legislatore del 2015 ha predisposto un meccanismo sanzionatorio che in pratica per i lavoratori delle piccole aziende non apporta alcuna sostanziale modifica, in quanto seppure la tutela sia (formalmente) la stessa, per i dipendenti delle piccole aziende è in ogni caso esclusa la tutela reintegratoria (eccezion fatta i casi di nullità o inefficacia), l'indennizzo è dimezzato e, in ogni caso, non può superare le sei mensilità.
In conclusione, nulla cambia in concreto per i dipendenti delle piccole aziende: si deve evidenziare che il superamento della distinzione della tutela fondata sul requisito dimensionale ha portato si ad una riduzione del gap esistente tra la tutela per i dipendenti di grandi aziende e di quelle piccole, ma solo ed esclusivamente a discapito dei primi e non anche a vantaggio dei secondi, derivando da un complessivo (e considerevole) abbassamento della tutela nei confronti dei dipendenti delle grandi aziende. In poche parole le tutele si sono molto avvicinate rispetto al sistema preesistente solo perché sono state drasticamente ridotte le ipotesi che consentivano ai dipendenti di aziende con più di 15 dipendenti di essere reintegrati.
La rubrica del d.lgs. n. 23 del 2015 richiama il contratto a tutele crescenti, che dovrebbe far riferimento a forme di tutela maggiori con l'aumento dell'anzianità.
Il contratto a tutele crescenti sembrerebbe richiamare una disciplina sanzionatoria del tutto diversa rispetto a quella sopra descritta dettata dalla combinazione degli artt. 8, l. n. 604 del 1966 e 18, l. n. 300 del 1970, ma per certi versi il d.lgs. n. 23 del 2015 ricalca la stessa struttura sanzionatoria prevista dall'art. 18 come modificato dalla l. n. 92 del 2012. Tuttavia, se è vero che la struttura del quadro sanzionatorio sia sostanzialmente inalterata, è anche vero che tra le due discipline sussistono profonde differenze. La struttura sanzionatoria nel d.lgs. n. 23 del 2015
Anche il d.lgs. n. 23 del 2015 prevede differenti sanzioni rapportate ad un grado differente di gravità: è prevista una tutela reintegratoria piena, identica a quella prevista dai primi tre commi dell'art. 18 e dal vecchio art. 18 per i casi di licenziamento nullo o verbale, una tutela reintegratoria con risarcimento limitato, per i casi di assenza di giusta causa o giustificato motivo soggettivo determinati dall'insussistenza del fatto contestato, una tutela indennitaria per tutte le ipotesi residuali di licenziamento invalido per cui non si applica la reintegra, tutela dimezzata in ipotesi di vizi di forma.
La struttura della disciplina delle conseguenze sanzionatorie in ipotesi di licenziamento illegittimo introdotta dal decreto legislativo n. 23 del 2015 non si discosta da quella introdotta dalla l. 28 giugno 2012, n. 92 che ha modificato l'art. 18, l. n. 300 del 1970.
Infatti, la disciplina descritta dal decreto legislativo ha previsto:
Ciò che, invece, caratterizza la nuova disciplina sanzionatoria rispetto alla precedente è:
Passando all'analisi delle singole disposizioni l'art. 2 disciplina il licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale.
La norma sostanzialmente riproduce i primi tre commi dell'art. 18, l. n. 300 del 1970, per cui in questa sede ci si può limitare ad evidenziarne le differenze.
In primo luogo, si è già detto, che è venuto meno il riferimento ai dirigenti, per i quali non troverà applicazione l'art. 2, ma i primi tre commi dell'art. 18 (pur se con conseguenze nulle, se non nel rito applicabile).
Per il resto l'art. 2, primo comma, rispetto all'art. 18, primo comma, risulta molto più sintetico ed essenziale, abbandonando l'elencazione casistica delle ipotesi di nullità e facendo riferimento alle sole ipotesi di licenziamento discriminatorio a norma dell'art. 15 della legge 20 maggio 1970 n. 300 ovvero riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge. Il rinvio ai casi di nullità previsti dalla legge consente di applicare la sanzione a tutte le ipotesi dettagliatamente previste dall'art. 18, primo comma, trattandosi tutte di ipotesi di nullità espressamente previste.
Allo stesso modo il rinvio all'art. 15, l. n. 300 del 1970, consente di affermare la tassatività delle ipotesi di licenziamento discriminatorio.
Identico è, inoltre, il riferimento al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale. Sul punto si sottolinea, tuttavia, una lacuna della legge delega, lacuna che potrebbe creare problemi di costituzionalità del decreto legislativo, considerato che nella stessa la reintegrazione nel posto di lavoro era espressamente prevista per le ipotesi di nullità e non anche per le ipotesi di inefficacia.
La previsione che la tutela reintegratoria piena possa trovare applicazione alle ipotesi di licenziamento discriminatorio a norma dell'art. 15 della legge 20 maggio 1970 n. 300 ovvero riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge potrebbe portare ad escludere la sanzione per le ipotesi di licenziamento ritorsivo o in fronde alla legge, fattispecie che fino adesso la giurisprudenza ha incluso tra le ipotesi di licenziamento nullo. Il licenziamento del lavoratore inidoneo al servizio per motivi di salute (art. 2, comma 4) e il licenziamento per superamento del periodo di comporto
Una delle novità della nuova disciplina consiste nell'inclusione del licenziamento del lavoratore inidoneo al servizio per motivi di salute nella tutela reintegratoria piena, a differenza di quanto effettuato dall'art. 18, settimo comma, il quale attraverso il rinvio alla disciplina del quarto comma prevede la tutela reintegratoria con risarcimento limitato.
Infatti, l'art. 2, quarto comma, prevede che la disciplina di cui al presente articolo (dunque la tutela reintegratoria piena) trova applicazione anche nelle ipotesi in cui il giudice accerta il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68.
Tuttavia, mentre l'art. 18 prevede la tutela reintegratoria sia nel caso di licenziamento derivante da inidoneità fisica del lavoratore sia nel caso di superamento del periodo di comporto, nel quarto comma dell'art. 2 manca il rinvio all'art. 2110, secondo comma, c.c.
Appare difficile ipotizzare che il mancato riferimento alla disciplina del comporto costituisca una omissione non voluta del legislatore, per cui si può escludere che la fattispecie rientri nella tutela reintegratoria piena di cui all'art. 2.
Rimane, allora, il problema quale tutela risulti applicabile all'ipotesi in esame, la quale non rientra in nessuna delle ipotesi espressamente contemplate dal legislatore delegato: o si ritiene che la nuova normativa abbia introdotto una disciplina generale applicabile a tutti i casi per i quali non sussiste una diversa regolazione, disciplina consistente nella tutela indennitaria di cui al primo comma dell'art. 3, ovvero non si può che prendere atto che il legislatore non ha disciplinato la fattispecie, per cui alla stessa trova applicazione la disciplina comune (ripristino del rapporto illegittimamente cessato e risarcimento del danno parametrato alle retribuzioni non percepite dalla messa in mora).
La differente formulazione delle ipotesi di nullità tra l'art. 18, comma 1, l. n. 300 del 1970, e l'art. 2, d.lgs. n. 23 del 2015, dovrebbe portare a ritenere non applicabile al regime dettato dal Jobs Act la giurisprudenza sopra citata circa la nullità del licenziamento per superamento del periodo di comporto prima della scadenza dello stesso (Cass. 22 maggio 2018, n. 12568). Una ulteriore novità introdotta dalla riforma consiste nelle modalità del calcolo dell'indennizzo.
Mentre, infatti, l'art. 18 fa riferimento a un'indennità commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, il criterio di calcolo utilizzato dal d.lgs. n. 23 del 2015 fa riferimento al concetto di retribuzione valido per il calcolo del trattamento di fine rapporto.
Ai sensi dell'art. 2120, comma 2, c.c.: “Salvo diversa previsione dei contratti collettivi la retribuzione annua, ai fini del comma precedente, comprende tutte le somme, compreso l'equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese”: il concetto di retribuzione recepito dagli artt. 2118, comma 2, c.c. (ai fini del calcolo dell'indennità di preavviso in caso di licenziamento) e 2120, c.c. (ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto) è ispirato al criterio dell'onnicomprensività, nel senso che in detti calcoli vanno compresi tutti gli emolumenti che trovano la loro causa tipica e normale nel rapporto di lavoro cui sono istituzionalmente connessi, anche se non strettamente correlati alla effettiva prestazione lavorativa, mentre ne vanno escluse solo quelle somme rispetto alle quali il rapporto di lavoro costituisce una mera occasione contingente per la relativa fruizione, quand'anche essa trovi la sua radice in un rapporto obbligatorio diverso ancorché collaterale e collegato al rapporto di lavoro (Cass., 1° ottobre 2012, n. 16636).
In astratto il concetto di retribuzione globale di fatto non si discosta dal concetto di retribuzione ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto, includendo entrambi ogni elemento retributivo corrisposto in conseguenza della prestazione lavorativa con modalità non occasionali.
La differenza tra i due istituti, che giustifica l'utilizzo di un diverso criterio da parte del legislatore, è che la retribuzione globale di fatto è, come dice il termine, un elemento di fatto, cioè comprende ogni elemento retributivo non continuativo che in concreto il datore di lavoro abbia versato al lavoratore a prescindere dalla qualificazione giuridica data dalle parti; non così il concetto di retribuzione ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto, considerato che l'art. 2120, comma 2, c.c., fa salva ogni previsione contenuta nei contratti, così che le parti sociali potranno stabilire quali elementi retributivi inserire o meno nel calcolo del trattamento di fine rapporto (e adesso anche dell'indennità risarcitoria). Così un contratto potrebbe escludere dalla base di calcolo, per esempio, il c.d. superminimo, ovvero la quattordicesima mensilità, emolumenti che invece in ogni caso concorrerebbero a formare la retribuzione globale di fatto. Licenziamento per giustificato motivo o per giusta causa. Tutela indennitaria (artt. 3, comma 1, 7 e 8)
La disposizione certamente di maggiore interesse del d.lgs. n. 23 del 2015 è quella contenuta nell'art. 3 che ha quale rubrica “Licenziamento per giustificato motivo e giusta causa”.
La norma corrisponde ai commi 4, 5 e 7 dell'art. 18, ma introduce rispetto a tale disciplina notevoli modifiche che possono essere sintetizzate nei seguenti punti:
L'incidenza sulla quantificazione della tutela indennitaria del d.l. n. 87 del 2018 e regime intertemporale
Il d.l. n. 87 del 2018, convertito con modificazioni dalla l. n. 96 del 2018 ha modificato la quantificazione della tutela indennitaria di cui all'art. 3, primo comma, elevando la misura minima da quattro a sei mensilità e la misura massima da ventiquattro a trentasei mensilità.
Tale modifica trova unicamente applicazione nei confronti dei licenziamenti intimati successivamente al 14 luglio 2018, data di entrata in vigore del decreto legge: la norma, invero, nulla dispone sul punto, ma potrebbe ritenersi applicabile la giurisprudenza formatasi sul regime intertemporale della modifica dell'art. 18, l. n. 300 del 1970, da parte della l. n. 92 del 2012 secondo cui “al fine di individuare la legge regolatrice del rapporto sul versante sanzionatorio, va fatto riferimento non al fatto generatore del rapporto, né alla contestazione degli addebiti, ma alla fattispecie negoziale del licenziamento, sicché l'art. 1, comma 42, l. n. 92 del 2012, si applica solo ai nuovi licenziamenti, ossia a quelli comunicati a partire dal 18 luglio 2012, data di entrata in vigore della nuova disciplina (Cass. 31 luglio 2015, n. 16265).
Ne consegue che ai fini dell'individuazione della disciplina sanzionatoria applicabile occorre distinguere non solo tra lavoratori assunti prima o dopo il 7 marzo 2015, ma, per questi ultimi, tra lavoratori il cui licenziamento sia stato intimato prima o dopo il 14 luglio 2018. La tutela indennitaria quale ipotesi di tutela ordinaria
Che la disciplina meramente indennitaria di cui all'art. 3, comma 1, sia quella ordinaria è reso evidente dall'incipit del secondo comma che prevede la residua ipotesi di reintegrazione nel posto di lavoro; il legislatore, infatti, ha tenuto ad evidenziare che la tutela reintegratoria può applicarsi “esclusivamente” nell'ipotesi prevista dal secondo comma. Ciò vuol dire che non può aversi reintegrazione (ovviamente a parte le ipotesi di nullità disciplinate dall'art. 2) se non nel solo caso decritto dalla norma (nonché dal comma successivo).
Mentre si deve escludere l'ammissibilità della tutela reintegratoria per ipotesi differenti da quelle contemplate nell'art. 2 e nel secondo comma dell'art. 3, sorge il dubbio se per casi non rientranti nella mancanza di giusta causa o giustificato motivo (si è già fatto l'esempio del licenziamento per superamento del periodo di comporto) si applichi la tutela indennitaria ovvero la tutela di diritto comune (ripristino del rapporto di lavoro e risarcimento del danno dall'offerta della prestazione lavorativa). L'ipotesi che dà luogo alla tutela reintegratoria è confinata nell'ambito dei soli licenziamenti disciplinari, con la conseguenza che la norma esclude la possibilità di reintegrazione per il lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo.
Essa fa riferimento all'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, mentre la norma espressamente esclude che la valutazione circa la sproporzione del licenziamento possa portare alla reintegrazione del lavoratore.
Per insussistenza del fatto materiale contestato il legislatore intende riferirsi alle ipotesi in cui all'esito dell'attività istruttoria esperita il fatto che il datore di lavoro ha contestato al lavoratore (per esempio, furto o assenza ingiustificata dal lavoro) deve ritenersi non sussistente o perché non si è materialmente verificato (non è vero che il dipendente ha rubato ovvero che l'assenza non fosse giustificata), ovvero perché seppure verificato non sia imputabile al lavoratore (per esempio, perché commesso da altri soggetti), ovvero perché il fatto non integra alcun inadempimento disciplinarmente rilevante (il fatto materiale contestato deve, infatti, per essere tale avere una rilevanza disciplinare e costituire una ipotesi di inadempimento agli obblighi contrattuali).
I principi in materia di insussistenza del fatto contestato possono essere agevolmente ricavati dalle sentenze della Cassazione relative alla corrispondente ipotesi prevista dalla l. n. 92 del 2012 (v. Cass. n. 23669 del 2014, Cass. n. 20540 del 2015, Cass. n. 18418 del 2016 e Cass. n. 11322 del 2018).
Una volta che il legislatore ha individuato quale sanzione avverso il licenziamento illegittimo la reintegrazione nel posto di lavoro la limitazione di tale sanzione alla sola ipotesi descritta lascia perplessi, anche perché consente al datore di lavoro di strumentalizzare piccole mancanze del lavoratore applicando il licenziamento senza incorrere nella sanzione della reintegrazione. Si pensi all'ipotesi di un lavoratore che senza alcuna giustificazione si presenti al lavoro con qualche minuto di ritardo e che per tale motivo venga licenziato per giusta causa: pur essendo la sanzione certamente sproporzionata rispetto alla condotta, in tal caso non può applicarsi la sanzione reintegratoria ma solo quella indennitaria.
Il secondo comma dell'art. 3, infatti, non contiene più l'ulteriore ipotesi che ai sensi dell'art. 18, comma 4, consente la reintegra, cioè della previsione nei contratti collettivi per la condotta contestata di una sanzione conservativa, ipotesi che da un lato consente di prevenire sanzioni espulsive meramente strumentali (quantomeno nei limiti delle condotte individuate nei codici disciplinari), dall'altro consente al giudice, qualora tale valutazione sia stata fatta in sede di contrattazione collettiva, di valutare la proporzionalità del licenziamento e sanzionare la sproporzione con la reintegra, proprio ciò che il decreto legislativo ha inteso espressamente escludere. Il contenuto della tutela reintegratoria
La tutela reintegratoria di cui al secondo comma dell'art. 3 è identica a quella prevista dall'art. 18, comma 4: reintegrazione nel posto di lavoro, pagamento di una indennità pari alla retribuzione mensile dalla data del licenziamento fino all'effettiva reintegra (calcolata secondo i criteri del calcolo della retribuzione ai fini del trattamento di fine rapporto), limitazione di tale indennizzo nella misura massima di 12 mensilità, obbligo di versamento dei contributi previdenziali dal licenziamento fino alla effettiva reintegra, detraibilità dell'aliunde perceptum e dell'aliunde percepiendum, possibilità per il lavoratore di optare in favore dell'indennità sostitutiva della reintegrazione.
Pur nell'identità di disciplina la norma contiene, rispetto al quarto comma dell'art. 18, alcune particolarità:
L'art. 4 disciplina le conseguenze di vizi meramente formali e procedurali: in tal caso, ricalcando la disposizione di cui all'art. 18, comma 6, è prevista solo una tutela indennitaria in misura corrispondente alla metà dell'indennità di cui all'art. 3, comma 1. L'indennizzo è pari ad una mensilità per ogni anno di servizio con un minimo di due e un massimo di dodici.
Ovviamente tra le ipotesi di vizio formale non è più contemplata la violazione della procedura di cui all'art. 7, l. n. 604 del 1966, che è stata soppressa dallo stesso d.lgs. n. 23 del 2015.
La previsione di una modalità di calcolo dell'indennità autonoma e sganciata dall'art. 3, comma 1, comporta che le modifiche introdotte dal d.l. n. 87 del 2018 non trovano applicazione all'ipotesi di vizi di forma: l'esplicita previsione di un importo minimo di due mensilità e massimo di dodici, esclude certamente che possa trovare applicazione in via interpretativa la modifica normativa, non essendo stata la norma in alcun modo toccata dal decreto legge; questa lacuna determina una asimmetria tra l'indennità di cui all'art. 3, comma 1, e quella prevista dall'art. 4, in quanto il legislatore nella sua formulazione originaria ha chiaramente voluto dimezzare in caso di vizi formali l'indennizzo (come emerge chiaramente dal dimezzamento del calcolo per ogni anno di servizio e dalla previsione di una misura minima e massima pari alla metà di quella originariamente prevista dall'art. 3, comma 1), mentre nel momento in cui è stata aumentata la misura minima e massima solo dell'art. 3, comma 1, e non anche quella di cui all'art. 4 i limiti minimi e massimi corrispondono non più alla metà, ma ad un terzo. Si è detto all'inizio che una delle novità più rilevanti del decreto legislativo è il superamento della distinzione, ai fini della tipologia di tutela applicabile, tra aziende grandi (con più di 15 dipendenti) e aziende piccole (con meno di 16 dipendenti): infatti, anche per queste ultime trova applicazione la medesima disciplina prevista dal decreto legislativo; la novità, tuttavia, ha più un carattere ideologico che pratico, in quanto sostanzialmente per i dipendenti delle piccole aziende nulla è cambiato.
Infatti, premesso che l'art. 2, in materia di conseguenze del licenziamento discriminatorio o nullo o verbale, si applica anche ai dipendenti delle piccole aziende (come del resto nel sistema introdotto dalla l. n. 92 del 2012), l'art. 9 prevede per questi ultimi due importanti deroghe: a) non si applica l'art. 3, comma 2, cioè la reintegrazione per i licenziamenti disciplinari illegittimi in quanto il fatto contestato risulti insussistente, applicandosi in tale fattispecie la sola tutela indennitaria; b) l'indennizzo viene ridotto della metà e, in ogni caso non può superare le sei mensilità. Non è molto chiaro dalla disposizione se la riduzione della metà riguardi o meno anche l'entità del limite minimo: la terminologia utilizzata dalla norma “l'ammontare delle indennità e l'importo […] è dimezzato” sembra confermare non solo il dimezzamento dell'indennità (dunque, una mensilità per ogni anno di servizio), ma anche l'importo minimo (dunque, due mensilità prima del d.l. n. 87 del 2018, tre mensilità dopo).
In tal modo, limitata la reintegrazione alle sole ipotesi di licenziamento discriminatorio, nullo o verbale (come nella precedente disciplina) e previsto il pagamento di una indennità che varia da un minimo di 2 (adesso 3) ad un massimo di 6 mensilità in base alla anzianità, la tutela non si presenta in alcun modo diversa rispetto a quella prevista dall'art. 8, l. n. 604 del 1966.
Il d.l. n. 87 del 2018 ha inciso solo parzialmente sulla quantificazione dell'indennità.
L'art. 9, infatti, rinvia per la quantificazione dell'indennità all'art. 3, comma 1 prevedendone però il dimezzamento e in ogni caso il limite massimo di sei mensilità: ciò comporta l'aumento dell'indennità minima che passa da due a tre mensilità (dovendosi calcolare la metà del minimo previsto dall'art. 3, comma 1, aumentata da quattro a sei mensilità), mentre la misura massima rimane ferma a sei mensilità. Una novità non solo apparente ma reale è quella introdotta dall'art. 9, comma 2, che prevede che il decreto legislativo si applichi anche agli imprenditori senza scopo di lucro e alle organizzazioni di tendenza: questa disposizione, pertanto, fa venir meno il privilegio di cui godevano tali soggetti, per i quali non si applica l'art. 18, fatte salve le ipotesi di nullità e di licenziamento verbale e comporta la loro equiparazione a tutte le altre aziende.
I lavoratori dipendenti da organizzazioni di tendenza potranno usufruire della tutela reintegratoria piena nell'ipotesi di nullità o inefficacia del licenziamento per mancanza di forma scritta e questo a prescindere dalle dimensioni dell'impresa (in questo, invero, la disciplina è rimasta immutata); invece per le organizzazioni di tendenza che occupino più di 15 dipendenti potrà trovare applicazione la tutela reintegratoria in presenza di un licenziamento disciplinare viziato per insussistenza del fatto contestato.
Anche per le organizzazioni di tendenza vale quanto già evidenziato in ordine alla presenza contestuale di un diverso regime di tutela fondato sulla data di assunzione, con la conseguenza che per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 continuerà a trovare applicazione la sola tutela obbligatoria (salve le ipotesi di nullità ed inefficacia del licenziamento), mentre per i lavoratori assunti successivamente può trovare applicazione la tutela reintegratoria. Altra novità importantissima del decreto legislativo è quella relativa ai licenziamenti collettivi, per i quali, fatta salva l'ipotesi (invero di scuola) di licenziamento privo della forma scritta, per cui è prevista la reintegrazione, è prevista solo ed esclusivamente una tutela indennitaria.
La l. n. 92 del 2012, com'è noto, nel modificare l'art. 5, comma 3, l. n. 223 del 1991, ha distinto l'ipotesi di violazione delle procedure di cui all'art. 4, l. n. 223 del 1991, per la quale è prevista solo la tutela indennitaria di cui all'art. 18, comma 5, l. n. 300 del 1970, e la violazione dei criteri di scelta di cui all'art. 5, comma 1, l. n. 223 del 1991, per la quale è prevista la tutela reintegratoria di cui al quarto comma dell'art. 18.
L'art. 10 del decreto legislativo, invece, ha unificato la tutela per entrambe le ipotesi, prevedendo che per esse si applichi l'art. 3, comma 1, del decreto, cioè la tutela meramente indennitaria.
La coesistenza di due diversi regimi, uno che si applica per i lavoratori assunti prima dell'entrata in vigore del decreto legislativo, l'altro successivamente, risulterà particolarmente complessa per i licenziamenti collettivi, ove l'ipotesi che lo stesso licenziamento possa riguardare entrambi, con conseguente applicazione per uno stesso licenziamento di tutele diverse, non è per nulla remota.
Ne deriverà per i licenziamenti disciplinari una fortissima contrazione delle ipotesi in cui il giudice, in caso di illegittimità del licenziamento, potrà disporre la reintegrazione del lavoratore licenziato; se a questo si aggiunge il fatto che la reintegrazione è stata esclusa per tutti i casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per tutti i casi di licenziamento collettivo, appare evidente come il legislatore abbia compiuto una opzione evidente in favore della sola tutela indennitaria che viene considerata dal decreto legislativo la sanzione ordinariamente applicabile nell'ipotesi di licenziamento illegittimo.
Il rinvio integrale operato dall'art. 10 alle modalità di quantificazione previste dall'art. 3, comma 1, comporta che le modifiche introdotte dal d. l. n. 87 del 2018 trovano applicazione anche all'ipotesi di licenziamento collettivo, con la conseguenza che l'entità del risarcimento deve essere quantificata tra un minimo di sei mensilità ad un massimo di trentasei. In sede di conversione del decreto legge, la l. n. 96 del 2018 è intervenuta su un'altra norma in qualche modo collegata alla quantificazione dell'indennità risarcitoria.
L'art. 6 del decreto legislativo prevede la facoltà del datore di lavoro, al fine di prevenire l'eventuale giudizio promosso dal lavoratore licenziato, di offrire a quest'ultimo a titolo conciliativo una somma pari ad una mensilità per ciascun anno di servizio, con il limite minimo di due mensilità e massimo di diciotto mensilità. La particolarità della norma non consiste tanto nell'offerta di conciliazione, né nella sua predeterminazione da parte del legislatore, essendo fatte salve diverse opzioni conciliative prospettate dalle parti, quanto l'avere previsto che la somma offerta dal datore di lavoro nei limiti e con le modalità di determinazione prevista dalla norma, non sia soggetta né a ritenute fiscali, né a contribuzione previdenziale. Ne deriva in favore del lavoratore un vantaggio in quanto la somma offerta a titolo conciliativo verrebbe percepita integralmente non essendo soggetta alle trattenute fiscali.
La legge di conversione ha opportunamente aumentato i limiti minimi e massimi previsti dall'art. 6, primo comma, in misura proporzionalmente corrispondente all'aumento dei limiti minimi e massimi dell'indennità risarcitoria di cui al primo comma dell'art. 3, d.lgs. n. 23 del 2015: così, ferma restando la quantificazione della somma in una mensilità per ciascun anno di servizio, il minimo è stato elevato da due a tre mensilità e il massimo da diciotto a ventisette. Licenziamento collettivo dei dirigenti
Una ulteriore differenziazione della disciplina sanzionatoria riguarda il licenziamento collettivo dei dirigenti, disciplinato dalla l. 30 ottobre 2014, n. 161.
La norma, infatti, introducendo l'art. 24, comma 1-quinquies, alla l. n. 223 del 1991, prevede relativamente al regime sanzionatorio, che si applichino le disposizioni di cui all'art. 5, comma 3, stessa legge, limitatamente al primo e al quarto periodo, dunque limitatamente alla disciplina per il caso di licenziamento intimato verbalmente (per il quale si applica la reintegra nel posto di lavoro) e alla disciplina dei termini di decadenza di cui all'art. 6, l. n. 604 del 1966.
Si esclude, invece, il richiamo al secondo e al terzo periodo del terzo comma dell'art. 5 che disciplinano le conseguenze della violazione dei vizi della procedura e dei criteri di scelta. In tal caso l'art. 24, comma 1-quinquies, esclude la reintegra del dirigente e prevede una tutela meramente indennitaria in misura compresa tra dodici e ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione mensile globale.
Il giudice che ritiene viziato il licenziamento del dirigente deve quantificare l'indennizzo sulla base della natura e della gravità della violazione. Peraltro, la norma fa salva la previsione nei contratti collettivi di una diversa quantificazione dell'indennizzo e in tal caso il giudice deve provvedere alla quantificazione dell'indennizzo sulla base della previsione contrattuale.
Poiché il d.lgs. n. 23 del 2015 non si applica alla categoria dei dirigenti, per costoro, a prescindere dalla data di assunzione, trova in ogni caso applicazione il regime sanzionatorio di cui all'art. 24, comma 1-quinquies.
Ne deriva un sistema un po' paradossale in quanto il legislatore ha previsto in favore del dirigente licenziato nell'ambito di una procedura di licenziamento collettivo una tutela in gran parte migliore rispetto alle altre categorie di lavoratori cui si applica il Jobs Act. Un discorso a parte merita il pubblico impiego.
All'indomani della approvazione della l. n. 92 del 2012 si è discusso in dottrina e in giurisprudenza se le modifiche apportate all'art. 18 si applicassero o meno ai pubblici dipendenti ingiustamente licenziati.
La Suprema Corte con una prima sentenza ha previsto l'applicabilità dell'art. 18 novellato al pubblico impiego, affermando che ai sensi dell'art. 51, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001, lo Statuto dei lavoratori si applica, a prescindere dal numero dei dipendenti, al pubblico impiego privatizzato, sicché il licenziamento nullo per contrarietà a norma imperativa (nella specie, l'art. 55-bis, comma 4, d.lgs. n. 165 del 2001) va sanzionato con la reintegra, rientrando tra le altre nullità previste dalla legge di cui all'art. 18, comma 1, st. lav., come modificato dalla l. n. 92 del 2012 (Cass. 26 novembre 2015, n. 24157).
Successivamente ha ritenuto che le modifiche apportate dalla l. n. 92 del 2012 all'art. 18, l. n. 300 del 1970, non si applicano ai rapporti di pubblico impiego privatizzato, sicché la tutela del dipendente pubblico, in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva all'entrata in vigore della richiamata l. n. 92, resta quella prevista dall'art. 18, st. lav. nel testo antecedente la riforma; rilevano a tal fine il rinvio ad un intervento normativo successivo ad opera dell'art. 1, comma 8, l. n. 92 del 2012, l'inconciliabilità della nuova normativa, modulata sulle esigenze del lavoro privato, con le disposizioni di cui al d.lgs. n. 165 del 2001, neppure richiamate al comma 6 dell'art. 18 nuova formulazione, la natura fissa e non mobile del rinvio di cui all'art. 51, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001, incompatibile con un automatico recepimento di ogni modifica successiva che incida sulla natura della tutela del dipendente licenziato (Cass. 9 giugno 2016, n. 11868; nel senso della non applicabilità di altre disposizioni della l. n. 92 del 2012, in materia di licenziamento al pubblico impiego, v. anche Cass. 6 ottobre 2017, n. 23424).
Il contrasto è stato superato dallo stesso legislatore che con il d.lgs. n. 75 del 2017 ha introdotto per il pubblico impiego una disciplina autonoma in materia di licenziamento. L'art. 21, aggiungendo una parte al secondo comma dell'art. 63, d.lgs. n. 165 del 2001, ha disposto che: “Il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l'amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali”.
La norma, applicabile ai licenziamenti intimati successivamente al 22 giugno 2017, data di entrata in vigore del decreto legislativo, introduce un sistema sanzionatorio unitario, valido per tutti i profili di invalidità riscontrati e consente in ogni caso il ripristino del rapporto di lavoro (l'utilizzo del termine reintegrazione e la previsione dell'obbligo del versamento dei contributi dovrebbe in ogni caso portare a ritenere che il ripristino del rapporto di lavoro abbia effetti ex tunc, con le relative conseguenze anche in termini di computo dell'anzianità di servizio) e un risarcimento limitato a 24 mensilità (con un limite massimo pari al doppio di quanto previsto per la tutela reintegratoria debole nell'impiego privato).
La norma, e questo costituisce una ulteriore differenziazione rispetto all'impiego privato, non prevede in favore del lavoratore la facoltà di esercitare l'opzione in favore dell'indennità sostitutiva della reintegrazione.
Se è vero che la norma non distingue tra le diverse tipologie di vizio, la stessa non può essere letta disgiuntamente dall'art. 13 dello stesso decreto legislativo che nell'aggiungere il comma 9-ter all'art. 55-bis,d.lgs. n. 165 del 2001, ha disposto che “la violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare previste dagli articoli da 55 a 55-quater, fatta salva l'eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile, non determina la decadenza dall'azione disciplinare né l'invalidità degli atti e della sanzione irrogata, purché non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente e le modalità di esercizio dell'azione disciplinare, anche in ragione della natura degli accertamenti svolti nel caso concreto, risultino comunque compatibili con il principio di tempestività. Fatto salvo quanto previsto dall'art. 55-quater, commi 3-bis e 3-ter, sono da considerarsi perentori il termine per la contestazione dell'addebito e il termine per la conclusione del procedimento”.
Rispetto all'impiego privato la posizione del pubblico dipendente risulta pur sempre maggiormente tutelata in quanto comporta pur sempre la reintegrazione del lavoratore e un risarcimento che seppure limitato nella sua quantificazione massima, potendo arrivare a 24 mensilità ha una sua notevole consistenza.
Per la pubblica amministrazione datrice di lavoro, invece, la norma costituisce un indubbio vantaggio rispetto al sistema precedente, in quanto consente una limitazione del risarcimento all'interno di un tetto massimo di 24 mensilità, elimina la facoltà del lavoratore di optare per il pagamento dell'indennità sostitutiva della reintegra e fa perdere rilevanza ai vizi meramente formali che non abbiano comportato una irrimediabile compromissione del diritto di difesa del lavoratore.
Sotto il profilo temporale il nuovo sistema sanzionatorio si applica agli illeciti disciplinari commessi successivamente alla data di entrata in vigore del decreto (22 giugno 2017). Il discrimine temporale, pertanto non è determinato dalla data del licenziamento, ma dalla data in cui sia stata commessa l'infrazione che ha portato al licenziamento.
Per i fatti precedenti, anche se sanzionati successivamente, continuerà ad applicarsi il regime sanzionatorio di cui all'art. 18 nella formulazione anteriore alle modifiche di cui alla l. n. 92 del 2012, sulla base del più recente orientamento cui è giunta la Suprema Corte.
Non è molto chiaro il significato dell'art. 1, comma 3, d.l. n. 87 del 2018 in cui si afferma che le disposizioni di cui all'art. 3 dello stesso decreto legge, cioè la norma che ha modificato l'ammontare della indennità risarcitoria prevista dall'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015, non si applicano al pubblico impiego “per il quale continuano ad applicarsi le disposizioni vigenti anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto legge”.
Poiché, quantomeno per i licenziamenti intimati successivamente al 22 giugno 2017, il d.lgs. n. 23 del 2015 certamente non si applica al pubblico impiego, vi è da chiedersi il senso della norma, poiché è ovvio che se la norma non si applica ad un determinato settore, anche la modifica della norma non si dovrebbe applicare a quel determinato settore.
O si tratta di una svista del legislatore che ha inserito una norma priva di senso, oppure, se gli si voglia dare un senso, si deve ritenere che il legislatore abbia ritenuto con tale norma affermare l'applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015 nella formulazione precedente al d.l. n. 87 del 2018 anche al pubblico impiego, ovviamente limitatamente ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 e licenziati prima del 22 giugno 2017. L'intervento del d.l. n. 87 del 2018 è stato piuttosto marginale e di scarso impatto sulla struttura complessiva del regime sanzionatorio per i licenziamenti invalidi, essendo intervenuto esclusivamente a modificare nel minimo e nel massimo l'indennità risarcitoria di cui all'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015.
L'intervento normativo, tuttavia, non brilla per tecnica legislativa, in quanto interviene solo sull'art. 3, comma 1, tralasciando le altre norme che individuano le modalità di quantificazione dell'indennità.
In sede di conversione il legislatore ha provveduto a modificare anche l'art. 6 relativo all'offerta di conciliazione, disponendo che la stessa, per avere gli effetti descritti dalla norma, debba essere quantificata in misura non inferiore a tre (prima era due) e non superiore a ventisette (prima era diciotto) mensilità. In sostanza, il legislatore ha modificato in maniera proporzionale anche le misure dell'offerta di conciliazione.
Rimangono, invece, inalterate le restanti norme che prevedono la quantificazione dell'indennizzo.
Per i licenziamenti collettivi di cui all'art. 10 non dovrebbero sorgere problemi, in quanto poiché la norma rinvia integralmente all'art. 3, primo comma, appare ovvio ritenere che le modifiche introdotte dal d.l. n. 87 del 2018 si applichino anche alla quantificazione del licenziamento collettivo.
Invece, più problematica è l'applicazione della modifica relativamente all'ipotesi disciplinata dall'art. 9, relativamente alle piccole imprese: qui la norma fa riferimento alle modalità di calcolo previste dall'art. 3, primo comma, ma prevede un tetto massimo di sei mensilità: ne consegue che per quanto riguarda la misura minima debba ritenersi operativo l'aumento della misura minima prevista dal d.l. n. 87 del 2018 con conseguente aumento, stante il previsto dimezzamento dell'indennità, della stessa da due a tre mensilità; la espressa previsione di una misura massima di sei mensilità, invece, preclude che l'aumento della misura massima introdotta dal d.l. n. 87 del 2018 possa spiegare effetti in favore dei lavoratori delle piccole aziende.
Il legislatore, invece, si è dimenticato dei vizi formali di cui all'art. 4: poiché in tal caso la norma non rinvia all'art. 3, primo comma, ma si limita a prevedere autonomamente la quantificazione dell'indennità (una mensilità per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici), si deve ritenere che la stessa non risulti intaccata dalla modifica legislativa creando un sistema asimmetrico. Si è già evidenziato come uno dei profili problematici del d.lgs. n. 23 del 2015 fosse proprio l'apposizione di un termine massimo al risarcimento e l'esiguità di quello minimo.
Visto che il d.lgs. 23 del 2015 considera la tutela indennitaria quale ipotesi ordinaria di tutela nell'ambito del licenziamento illegittimo, l'avere previsto un meccanismo che consenta il mero pagamento di due mensilità per ogni anno di servizio con una soglia minima di sole 4 mensilità crea oggettivamente un sistema sanzionatorio eccessivamente blando, che finisce per non avere alcuna efficacia dissuasiva per il datore di lavoro.
Da questo punto di vista la l. n. 92 del 2012, in alternativa alla tutela reintegratoria, ha previsto una tutela indennitaria che ha una sua consistenza (da un minimo di 12 ad un massimo di 24 mensilità), mentre l'originaria formulazione del d.lgs.n. 23 del 2015 si è limitata a prevedere una tutela indennitaria limitata a 4 mensilità per i lavoratori con poca anzianità, misura oggettivamente troppo bassa per ristorare il lavoratore dall'ingiusta perdita del posto di lavoro, soprattutto in presenza di recessi datoriali con ogni evidenza del tutto strumentali.
In senso inverso, la previsione di un risarcimento limitato a 24 mensilità si pone in contrasto con lo stesso spirito della norma che è quello di consentire una maggiore crescita dell'indennizzo con l'aumentare dell'anzianità: tale crescita, infatti, si fermava ad una anzianità di dodici anni, nel senso che il lavoratore licenziato ingiustamente con una anzianità maggiore di dodici anni fruisce in ogni caso di un indennizzo di 24 mensilità, con la conseguente irrilevanza di anzianità di servizio maggiori, in contraddizione con lo spirito della legge stessa.
Sotto questo profilo, pertanto, l'intervento normativo non solo non altera la struttura complessiva del c.d. contratto a tutele crescenti, ma la rafforza dando rilevanza ad anzianità maggiori (quantomeno fino a 18 anni).
L'aumento nel minimo da quattro a sei mensilità, se da un lato rende ininfluenti anzianità fino a tre anni, dall'altro, in ogni caso, garantisce un ristoro più adeguato a fronte dell'ingiusta perdita del posto di lavoro, circostanza che, pur in presenza di una anzianità esigua, costituisce pur sempre per il lavoratore un pregiudizio di notevole rilevanza.
La limitazione della misura minima a quattro mensilità che caratterizzava l'originaria formulazione, se certamente in linea con lo spirito della legge, appariva oggettivamente troppo esigua. Le questioni di legittimità costituzionale sollevate nei confronti dell'originaria formulazione del d.lgs. n. 23 del 2015
Proprio sotto il profilo relativo alla ritenuta eccessiva esiguità del risarcimento il Tribunale di Roma con ordinanza 26 luglio 2017 ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, tra l'altro, per contrasto con gli artt. 76 e 117, Cost., rilevando che la norma sarebbe non conforme a varie fonti sovranazionali assunte a norme interposte del giudizio di costituzionalità, con riferimento all'art. 30 della Carta di Nizza (“Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”), alla Convenzione ILO n. 158 del 1982 (che prevede quale alternativa alla reintegrazione del lavoratore ingiustamente licenziato il “versamento di un indennizzo adeguato”) e all'art. 24 della Carta Sociale Europea (“diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”): ritiene il Tribunale che l'indennizzo previsto dall'originaria formulazione del d.lgs. n. 23 del 2015 non sia adeguato e non abbia per il datore di lavoro alcuna efficacia dissuasiva.
Afferma il giudice rimettente che “La normativa preclude qualsiasi discrezionalità valutativa del giudice, in precedenza esercitabile ancorché ancorata ai criteri di cui all'art. 8, l. n. 604 del 1966 e all'art. 18 dello Statuto come novellato dalla l. n. 92 del 2012, imponendo al medesimo un automatismo in base al quale al lavoratore spetta, in caso di accertata illegittimità del recesso, la piccola somma risarcitoria prevista”.
Ciò viene ritenuto in contrasto “con l'art. 3 della Costituzione, in quanto l'importo dell'indennità risarcitoria disegnata dalle norme del c.d. “Jobs Act” non riveste carattere compensativo né dissuasivo ed ha conseguenze discriminatorie; ed inoltre in quanto l'eliminazione totale della discrezionalità valutativa del giudice finisce per disciplinare in modo uniforme casi molto dissimili fra loro; con l'art. 4 e l'art. 35 della Costituzione, in quanto al diritto al lavoro, valore fondante della Carta, viene attribuito un controvalore monetario irrisorio e fisso; con l'art. 117 e l'art. 76 della Costituzione, in quanto la sanzione per il licenziamento illegittimo appare inadeguata rispetto a quanto statuito da fonti sovranazionali come la Carta di Nizza e la Carta Sociale, mentre il rispetto della regolamentazione comunitaria e delle convenzioni sovranazionali costituiva un preciso criterio di delega, che è stato pertanto violato”. La sentenza della Corte costituzionale 8 novembre 2018 n. 194
La Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il criterio di determinazione dell'indennità di licenziamento di cui all'art. 3, comma 1, nella parte in cui esso è collegato unicamente al parametro dell'anzianità di servizio del lavoratore licenziato.
Premesso che oggetto del giudizio di costituzionalità non era la individuazione di limiti quantitativi minimo o massimi dell'indennità risarcitoria, ma solo il meccanismo rigido e predeterminato collegato a tale quantificazione, ha ritenuto non determinante sul giudizio di costituzionalità lo ius superveniens introdotto dal d.l. n. 87 del 2018 ed ha così dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 – sia nel testo originario sia nel testo modificato dall'art. 3, comma 1, d.l.12 luglio 2018, n. 87, convertito, con modificazioni, nella l. 9 agosto 2018, n. 96 – limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.
Ne deriva un nuovo testo normativo che, in caso di illegittimità del licenziamento nei casi previsti dalla norma, prevede il pagamento di “un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità”.
L'attuale testo normativo si presenta monco, in quanto non prevede più i parametri che il giudice dovrà applicare per quantificare l'indennità tra il minimo e il massimo e le modalità di calcolo della mensilità.
Quanto al primo dei due profili è la stessa Corte a precisare, nel testo della sentenza, che il giudice dovrà utilizzare i parametri previsti dall'art. 8, l. n. 604 del 1966 (“avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti”) e dall'art. 18, comma 5, l. n. 300 del 1970 (“in relazione all'anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti”); quanto al secondo profilo, seppure per esigenze di riscrittura della norma sia venuto meno il riferimento “all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto”, non vi può essere dubbio, stante il richiamo operato dal legislatore alla stessa modalità di calcolo della mensilità, che la retribuzione di riferimento debba essere l'ultima utilizzata per il calcolo del trattamento di fine rapporto.
La Corte costituzionale ha censurato non il quantum delle soglie minima e massima entro cui può essere stabilita l'indennità, ma il meccanismo di determinazione dell'indennità: l'art. 3, comma 1, introduce un criterio rigido e automatico, basato sull'anzianità di servizio, tale da precludere qualsiasi “discrezionalità valutativa del giudice”, in violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, in quanto in contrasto con l'esigenza di assicurare un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subìto dal lavoratore, nonché un'adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente.
La Corte costituzionale, dopo avere affermato che i principi cui si ispira l'art. 4 della Costituzione “esprimono l'esigenza di un contenimento della libertà del recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro, e quindi dell'ampliamento della tutela del lavoratore, quanto alla conservazione del posto di lavoro», ha ribadito che «l'attuazione di questi principi resta tuttavia affidata alla discrezionalità del legislatore ordinario, quanto alla scelta dei tempi e dei modi, in rapporto ovviamente alla situazione economica generale” (Corte cost. n. 194 del 1970, punto 4 del Considerato in diritto), negando che il bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41, Cost., terreno su cui non può non esercitarsi la discrezionalità del legislatore, imponga un determinato regime di tutela (Corte cost. n. 46 del 2000, punto 5, del Considerato in diritto). Ha così confermato il proprio orientamento secondo cui “il legislatore ben può, nell'esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-monetario (Corte cost. n. 303 del 2011), purché un tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza”. Il diritto alla stabilità del posto, infatti “non ha una propria autonomia concettuale, ma è nient'altro che una sintesi terminologica dei limiti del potere di licenziamento sanzionati dall'invalidità dell'atto non conforme” (Corte cost. n. 268 del 1994, punto 5 del Considerato in diritto).
Passando all'analisi della previsione di cui all'art. 3, comma 1, la Corte costituzionale rileva che la qualificazione come “indennità” dell'obbligazione non ne esclude la natura di rimedio risarcitorio, a fronte di un licenziamento. Quest'ultimo, anche se efficace, in quanto idoneo a estinguere il rapporto di lavoro, costituisce pur sempre un atto illecito, essendo adottato in violazione della preesistente non modificata norma imperativa secondo cui “il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell'art. 2119, c.c., o per giustificato motivo” (art. 1, l. n. 604 del 1966).
Quanto alla misura della stessa indennità – e, quindi, del risarcimento riconosciuto al lavoratore per il danno causato dal licenziamento illegittimo, che specularmente incide nella sfera economica del datore di lavoro – essa è interamente prestabilita dal legislatore in due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio. Il meccanismo di quantificazione indicato connota l'indennità come rigida, in quanto non graduabile in relazione a parametri diversi dall'anzianità di servizio, e la rende uniforme per tutti i lavoratori con la stessa anzianità. L'indennità assume così i connotati di una liquidazione legale forfetizzata e standardizzata, proprio perché ancorata all'unico parametro dell'anzianità di servizio, a fronte del danno derivante al lavoratore dall'illegittima estromissione dal posto di lavoro a tempo indeterminato.
Fatte tali premesse la Corte costituzionale evidenzia che nel quantificare l'indennità risarcitoria (art. 8, l. n. 604 del 1966, e art. 18, comma 5, l. n. 300 del 1970), il legislatore ha sempre valorizzato la molteplicità dei fattori che incidono sull'entità del pregiudizio causato dall'ingiustificato licenziamento e conseguentemente sulla misura del risarcimento.
Invece, da tali modalità che valorizzano una pluralità di fattori si discosta l'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015 che considera solo ed esclusivamente l'anzianità di servizio del lavoratore licenziato. Afferma, allora, la Corte che in una vicenda che coinvolge la persona del lavoratore nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, la tutela risarcitoria non può essere ancorata all'unico parametro dell'anzianità di servizio in quanto non possono che essere molteplici i criteri da offrire alla prudente discrezionale valutazione del giudice chiamato a dirimere la controversia. Tale discrezionalità si esercita, comunque, entro confini tracciati dal legislatore per garantire una calibrata modulazione del risarcimento dovuto, entro una soglia minima e una massima.
All'interno di un sistema equilibrato di tutele, bilanciato con i valori dell'impresa, la discrezionalità del giudice risponde, infatti, all'esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, pure essa imposta dal principio di eguaglianza.
L'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui determina l'indennità in un “importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”, contrasta, altresì, con il principio di ragionevolezza, sotto il profilo dell'inidoneità dell'indennità medesima a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un'adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente.
Considerato che l'adeguatezza del risarcimento forfetizzato richiede che esso sia tale da realizzare un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto (Corte cost. n. 235 del 2014, n. 303 del 2011, n. 482 del 2000, n. 132 del 1985), non contrasta con tale nozione di adeguatezza il limite di ventiquattro (ora trentasei) mensilità, fissato dal legislatore quale soglia massima del risarcimento.
Invece, la rigida dipendenza dell'aumento dell'indennità dalla sola crescita dell'anzianità di servizio mostra la sua incongruenza soprattutto nei casi di anzianità di servizio non elevata, in cui appare ancor più inadeguato il ristoro del pregiudizio causato dal licenziamento illegittimo, senza che a ciò possa sempre ovviare la previsione della misura minima dell'indennità di quattro (e, ora, di sei) mensilità. Infine, rileva la Corte che l'inadeguatezza dell'indennità forfetizzata stabilita dalla previsione denunciata rispetto alla sua primaria funzione riparatorio compensativa del danno sofferto dal lavoratore ingiustamente licenziato è suscettibile di minare, in tutta evidenza, anche la funzione dissuasiva della stessa nei confronti del datore di lavoro, allontanandolo all'intento di licenziare senza valida giustificazione e di compromettere l'equilibrio degli obblighi assunti nel contratto.
Secondo la Corte, allora, l'art. 3, comma 1, finisce così per tradire la finalità primaria della previsione di una tutela risarcitoria, che consiste nel prevedere una compensazione adeguata del pregiudizio subito dal lavoratore ingiustamente licenziato.
Conclude la Corte affermando che la previsione di una tutela economica che non costituisce né un adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, né un'adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente “non può ritenersi rispettosa degli artt. 4, primo comma, e 35, primocomma, Cost., che tale interesse, appunto, proteggono”.
Infine, la Corte riscontra anche la denunciata violazione degli artt. 76 e 117, comma 1, Cost., in relazione all'art. 24 della Carta sociale europea, che impone alle Parti contraenti, per assicurare l'effettivo esercizio del diritto a una tutela in caso di licenziamento, il riconoscimento de “il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”.
Affermata l'idoneità della Carta sociale europea a integrare il parametro dell'art. 117, comma 1, Cost., la Corte precisa che l'art. 24, che si ispira alla Convenzione OIL n. 158 del 1982, non fa che esplicitare sul piano internazionale, in armonia con l'art. 35, comma 3, Cost., e con riguardo al licenziamento ingiustificato, l'obbligo di garantire l'adeguatezza del risarcimento, in coerenza con quanto affermato sulla base del parametro costituzionale interno dell'art. 3, Cost.
Per il tramite dell'art. 24 della Carta sociale europea, risultano pertanto violati sia l'art. 76 – nel riferimento operato dalla legge di delegazione al rispetto delle convenzioni internazionali – sia l'art. 117, comma 1, Cost. Questioni problematiche alla luce della sentenza della Corte costituzionale. L'ambito di applicazione della pronuncia e gli effetti sugli artt. 4, 6, 9 e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015
La Corte costituzionale ha circoscritto espressamente le proprie censure alle modalità di determinazione dell'indennità risarcitoria di cui all'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015, ritenendo che solo questa norma fosse funzionale alla decisione del giudizio a quo.
Rimane, tuttavia, il problema della quantificazione dell'indennità risarcitoria prevista, con le medesime modalità ancorate alla sola anzianità di servizio, dalle altre norme disseminate nel jobs act.
Per quanto riguarda i lavoratori dipendenti da piccole imprese (art. 9) e i licenziamenti collettivi (art. 10) la già segnalata circostanza che le due norme rinviino espressamente alle modalità di determinazione dell'indennità previste dall'art. 3, comma 1, consente di ritenere applicabile anche in tali ipotesi la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma di riferimento.
Così i dipendenti di piccole aziende ingiustamente licenziati potranno ottenere una indennità risarcitoria che varia da un minimo di 3 a un massimo di sei mensilità, determinata utilizzando i parametri indicati nella sentenza della Corte costituzionale: la dichiarazione di incostituzionalità si riflette implicitamente anche sull'art. 9 che prevede che “l'importo previsto dall'articolo 3, comma 1 […] è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità”. Appare evidente che il dimezzamento dell'importo in riferimento all'art. 3, comma 1, non ha più alcuna ragion d'essere, se non per quanto riguarda il limite minimo delle sei mensilità, dovendosi, invece, interpretare la norma, alla luce della sentenza della Corte costituzionale, nel senso che il giudice dovrà determinare l'indennità nell'ambito di un importo minimo di tre mensilità (derivante dal dimezzamento dell'importo minimo di cui all'art. 3, comma 1) e di un importo massimo di sei mensilità, utilizzando quale parametri quelli indicati dalla Corte costituzionale (anzianità di servizio del lavoratore, numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell'attività economica, comportamento e condizioni delle parti).
I lavoratori ingiustamente coinvolti in un licenziamento collettivo potranno ottenere una indennità variabile tra le 6 e le 36 mensilità, determinata in base all'anzianità di servizio, alla gravità del vizio, alle dimensioni della azienda, ecc.: in tal caso, l'integrale richiamo all'art. 3, comma 1, operato dall'art. 10 consente di applicare le medesime conseguenze evidenziate per il licenziamento individuale.
La Corte costituzionale, ritenendo che la norma non fosse utilizzabile nell'ambito del giudizio a quo, ha escluso che il proprio sindacato potesse riguardare anche l'art. 4 relativo ai vizi formali, il quale disciplina le conseguenze risarcitorie in maniera autonoma e indipendente dall'art. 3, comma 1, ma utilizzando la medesima modalità di determinazione dell'indennità risarcitoria censurata dalla Corte costituzionale in quanto unicamente e rigidamente collegata all'anzianità di servizio del lavoratore licenziato (“un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità”). Escluso che per l'art. 4 si possano estendere analogicamente gli effetti della pronuncia della Corte costituzionale, avendo il giudice delle leggi espressamente dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata nei confronti di tale norma, il giudice che intenda fare applicazione dell'art. 4 dovrà necessariamente sollevare, qualora rilevante ai fini del giudizio, la questione di legittimità costituzionale nei confronti dell'art. 4 ed attendere che la Corte costituzionale estenda le censure di legittimità costituzionale anche a tale norma (ovvero, qualora non dovesse ritenere in riferimento a tale norma rilevante la questione di legittimità costituzionale, applicare la stessa nella sua formulazione).
Dalla pronuncia della Corte costituzionale nessun effetto diretto potrà derivare per il meccanismo di determinazione dell'offerta conciliativa individuato dall'art. 6: infatti, seppure anche qui si utilizzi un parametro unico e rigido collegato alla sola anzianità di servizio (“un importo che non costituisce reddito imponibile ai fini dell'imposta sul reddito delle persone fisiche e non è assoggettato a contribuzione previdenziale, di ammontare pari a una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a tre e non superiore a ventisette mensilità”), la circostanza che l'offerta conciliativa con agevolazione fiscale sia pur sempre condizionata all'accettazione delle parti esclude ogni profilo di costituzionalità della norma.
Detto ciò, tuttavia, si deve rilevare che la pronuncia della Corte costituzionale è destinata ad incidere profondamente sul ricorso al meccanismo conciliativo di cui all'art. 6: se, infatti, prima la possibilità di ottenere a titolo conciliativo una somma corrispondente alla metà dell'eventuale indennità risarcitoria che poteva essere riconosciuta in via giudiziale poteva ritenersi appetibile, anche alla luce del beneficio fiscale collegato alla proposta conciliativa, adesso il lavoratore che giudizialmente può aspirare ad ottenere un indennizzo in misura di gran lunga superiore rispetto alla offerta conciliativa, difficilmente sarà disposto ad accettare la stessa con il meccanismo descritto dall'art. 6 (rimane ferma la possibilità per le parti di trovare un diverso accordo conciliativo, il quale tuttavia non beneficerà dell'incentivo fiscale).
Rimane, infine, da chiedersi se il giudice possa applicare la sentenza della Corte costituzionale in pejus, cioè determinare l'entità dell'indennità risarcitoria in misura inferiore all'originario criterio indicato dall'art. 3, primo comma, precedente alla dichiarazione di incostituzionalità; la questione potrà porsi in presenza di anzianità elevate, per esempio un lavoratore con più di diciotto anni di servizio, e di profili di illegittimità di lieve entità, in cui il giudice potrebbe ritenere equa una indennità risarcitoria inferiore alla misura che sarebbe derivata dal mero calcolo dell'anzianità (nell'esempio citato in misura inferiore alle 36 mensilità).
Un effetto indiretto della pronuncia della Corte costituzionale riguarda l'obbligo di motivazione a carico del giudice circa l'utilizzo dei parametri per la quantificazione dell'indennità risarcitoria. Tale obbligo, espressamente sancito dall'art. 18, comma 5, l. n. 300 del 1970, era ovviamente venuto meno nell'art. 3, comma 1, in quanto il giudice doveva quantificare l'indennità sulla base della sola anzianità di servizio: adesso, una volta che il giudice debba discrezionalmente utilizzare vari parametri, si può agevolmente ritenere che sia obbligato a dar conto nella motivazione delle ragioni che lo hanno indotto a quantificare l'indennità in quella misura e quali parametri abbia valorizzato per giungere a quella determinata quantificazione. Considerazioni conclusive
Se il d.l. n. 87 del 2018 non ha stravolto la struttura del regime sanzionatorio, la modifica dei limiti minimi e massimi dell'indennità, unita alla pronuncia di illegittimità costituzionale della norma modificata, consentirà una determinazione del risarcimento certamente più significativa e aderente al danno subito dal lavoratore.
Uno degli argomenti più diffusi a sostegno dei principi introdotti dal d.lgs. n. 23 del 2015 era quello della necessità di predeterminare il risarcimento in misura certa e fissa, in modo tale che il datore di lavoro potesse conoscere in anticipo il rischio cui va incontro nel licenziare il dipendente: questo ha giustificato lo stretto collegamento tra indennità e anzianità, anche se quest'ultima risulta costituire un elemento estraneo alla fattispecie che ha dato luogo al licenziamento.
La preventiva determinazione del licenziamento, ancorata ad un dato oggettivo estraneo al comportamento delle parti, unita ad un limite minimo piuttosto esiguo, ha quale conseguenza quella di eliminare il carattere disincentivante della sanzione: il datore di lavoro, infatti, potendo conoscere in anticipo le conseguenze di una eventuale illegittimità del licenziamento e sapendo che tali conseguenze risultano di entità marginale, potrebbe essere indotto a intimare licenziamenti in carenza dei presupposti, confidando in conseguenze tollerabili, con una conseguente monetizzazione del rischio.
Altro inconveniente, segnalato anche nella pronuncia della Corte costituzionale, è quello di trattare con le medesime conseguenze licenziamenti illegittimi di gravità differente.
Tale quadro risulta stravolto dalla combinazione decreto dignità-sentenza Corte costituzionale, posto che da un lato l'indennità non è più rigidamente e oggettivamente ancorata all'anzianità ma rimessa alla discrezionalità del giudice, dall'altro può arrivare fino ad un massimo di trentasei mensilità, con conseguenze, pertanto, certamente più rilevanti per il datore di lavoro.
Pertanto, a fronte di licenziamenti palesemente illegittimi di lavoratori con anzianità non elevata, mentre prima il datore di lavoro poteva contare su un indennità modesta, con il nuovo assetto rischia che la condanna al pagamento dell'indennizzo sia certamente più elevata e, in ogni caso, non del tutto preventivabile.
Alla luce delle modifiche adottate dal legislatore e delle conseguenze della pronuncia della Corte costituzionale, si può concludere affermando che l'intervento del Jobs Act, seppure certamente abbia ridotto la tutela del lavoratore, limitando le ipotesi di reintegrazione nel posto di lavoro, abbia pur sempre mantenuto uno standard di tutela elevato: è rimasta la tutela reintegratoria per le ipotesi di licenziamento nullo e verbale, anzi estesa anche alle situazioni di licenziamento conseguente ad invalidità fisica, è prevista una tutela reintegratoria con risarcimento limitato nelle ipotesi di insussistenza del fatto contestato, è prevista una tutela indennitaria, per la generalità delle situazioni, che assume una consistenza rilevante in quanto limitata ad un minimo di sei mensilità fino ad un massimo di trentasei, non più rigidamente ancorata alla sola anzianità di servizio, ma che tenga conto, oltre all'anzianità di servizio, della gravità del vizio e di altri fattori quali le dimensioni aziendali.
Rimangono, invece, immutate, in quanto non toccate né dal decreto dignità, né dalla sentenza della Corte costituzionale, le problematiche connesse alla estrema esiguità della tutela per il lavoratori dipendenti di aziende con meno di sedici lavoratori: mentre per gli altri lavoratori privati e per i dipendenti pubblici, come evidenziato in questo scritto, le evoluzioni normative, soprattutto di recente, sono state molteplici, per costoro la tutela applicabile continua ad essere sostanzialmente quella descritta dall'art. 8, l. n. 604 del 1966, incentrata su un estremamente esiguo risarcimento che non può superare le sei mensilità. |