Eccessiva durata della procedura fallimentare: l’intervento del Fondo di garanzia dell’INPS non elimina il diritto all’indennizzo
22 Novembre 2018
IL CASO Una s.r.l. viene dichiarata fallita nel 1992 con stato passivo approvato il 17 luglio 1993; il decreto di chiusura del fallimento, però, interviene solo il 14 dicembre 2011. Visti i lunghi tempi della procedura fallimentare, alcuni dei creditori ammessi al passivo avanzano domanda di risarcimento per irragionevole durata del procedimento ai sensi della legge Pinto (l. n. 89/2001). La Corte d'appello di Napoli ritiene che la durata appropriata della procedura fallimentare sarebbe stata di 7 anni, pertanto identifica in 11 anni la durata eccessiva e stabilisce un risarcimento di 500€ per ciascun anno di ritardo ad ognuna della 14 persone che avevano avanzato richiesta. Il Ministero della Giustizia ricorre in cassazione, affidandosi a tre motivi.
ONERE DEL GIUDICE DI MERITO Con il primo motivo il Ministero lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c., denunziando come la Corte d'appello avesse erroneamente riconosciuto a ciascun istante la somma di €5.500 nonostante gli stessi avessero in primo grado invocato un indennizzo globale di €15.000. La Suprema Corte ritiene tale motivo inammissibile perché attinente all'interpretazione della domanda, che per costante giurisprudenza è demandata in via esclusiva al giudice di merito.
ECCEZIONI DELL'AVVOCATURA Con il secondo e con il terzo motivo di ricorso, il Ministero denunzia come la Corte d'appello non avesse considerato le eccezioni svolte dall'Avvocatura dello Stato che avrebbero dovuto neutralizzare la richiesta di equa riparazione o quantomeno ridurne l'importo, posto che tali eccezioni riguardavano sia l'intervento del fondo di garanzia dell'INPS, sia del versamento ai creditori, nel corso della procedura, di un riparto parziale a titolo di acconto. Tanto più che la determinazione di un importo standard per tutti gli istanti non poteva rispondere alle peculiarità delle singole posizioni creditorie. Da ultimo, il Ministero dichiara che la Corte d'appello non aveva considerato in modo adeguato la riduzione del debito residuo spettante ai creditori.
DECURTAZIONE La Suprema Corte analizza congiuntamente i motivi, ed afferma che la Corte territoriale aveva invece correttamente valutato, nella determinazione dell'importo, la diminuzione del patema d'animo derivante dalla riduzione del credito residuo. Nella medesima ottica di decremento era stato anche considerato l'intervento del fondo di garanzia dell'INPS, che mai, sottolinea la Corte, può determinare l'eliminazione del diritto all'indennizzo per irragionevole durata del processo (Cass. civ. n. 26421/2009, ove si afferma che il mancato esperimento da parte del lavoratore ammesso al passivo dell'azione nei confronti del Fondo di garanzia dell'INPS non condiziona l'insorgenza del diritto all'indennizzo ma può operare solo in sede di liquidazione, consentendo una riduzione della stessa al di sotto dei limiti stabiliti dalla CEDU).
CORRETTA DETERMINAZIONE DELL'IMPORTO Nel caso di specie, conclude la Corte respingendo il ricorso, non vi era alcun dubbio circa l'esistenza dei presupposti per l'insorgenza del diritto all'equa riparazione per irragionevole durata del processo. La Corte territoriale aveva correttamente determinato l'importo, liquidandolo in misura inferiore a quanto previsto dalla legge Pinto, che prevede una somma di €750,00 per i primi tre anni di ritardo, e di €1000,00 per i successivi.
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