Licenziamento per giusta causa e termine previsto dalla contrattazione collettiva

22 Novembre 2018

Il licenziamento per giusta causa comminato oltre il termine stabilito dalla previsione collettiva che, altresì, attribuisce al decorso dello stesso il significato di accoglimento delle giustificazioni rese dal lavoratore, deve considerarsi illegittimo per l'insussistenza del fatto contestato con conseguente applicazione della tutela reintegratoria attenuata (art. 18, comma 4, l. n. 300 del 1970), per aver il datore di lavoro implicitamente accolto le giustificazioni a discolpa del dipendente e dunque per la totale mancanza di un elemento essenziale della giusta causa.
Massima

Il licenziamento per giusta causa comminato oltre il termine stabilito dalla previsione collettiva che, altresì, attribuisce al decorso dello stesso il significato di accoglimento delle giustificazioni rese dal lavoratore, deve considerarsi illegittimo per l'insussistenza del fatto contestato con conseguente applicazione della tutela reintegratoria attenuata (art. 18, comma 4, l. n. 300 del 1970), per aver il datore di lavoro implicitamente accolto le giustificazioni a discolpa del dipendente e dunque per la totale mancanza di un elemento essenziale della giusta causa.

Il caso

Con ricorso ex art. 1, comma 48, l. n. 92 del 2012, al Tribunale di Teramo Sabatino, un lavoratore impugnava il licenziamento intimatogli dalla società datrice di lavoro per mancato rispetto del termine di 10 giorni previsto dall'art. 21, n. 2 comma 3, CCNL Gas Acqua e per l'insussistenza della giusta causa addotta.

Il Tribunale, in sede sommaria, accoglieva il ricorso, annullava il licenziamento intimato al ricorrente per insussistenza del fatto contestato e disponeva la sua reintegra nel posto di lavoro.

La decisione veniva riformata in sede di opposizione, a conclusione della quale il Tribunale, in parziale accoglimento dell'originario ricorso del lavoratore, dichiarava l'inefficacia del licenziamento in quanto irrogato oltre il termine di 10 giorni contrattualmente previsto e, confermata comunque l'esistenza di una giusta causa di risoluzione del rapporto, condannava la società al pagamento in favore del lavoratore di un'indennità risarcitoria nella misura di sei mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.

La sentenza veniva reclamata dal lavoratore.

La Corte d'appello di L'Aquila respingeva il reclamo proposto, confermando la decisione del giudice di prime cure.

Avvero la predetta sentenza proponeva appello il lavoratore.

Quest'ultimo nelle proprie difese lamentava che la Corte territoriale non avrebbe preso in considerazione il fatto che l'art. 21, n. 2 comma 3, del CCNL applicato prevede che “se il provvedimento non verrà emanato entro i 10 giorni lavorativi successivi al predetto quinto giorno dal ricevimento della contestazione, tali giustificazioni si riterranno accolte”, così assegnando al decorso del termine la valenza di accettazione delle controdeduzioni fornite dal prestatore.

Il lavoratore lamentava quindi che la Corte, oltre a ritenere il licenziamento a lui comminato inefficace in quanto intimato oltre il termine di 10 giorni previsto, avrebbe dovuto altresì dare atto che lo stesso licenziamento era anche illegittimo per insussistenza degli addebiti contestati, alla luce della previsione collettiva che attribuiva al silenzio il significato di accoglimento delle giustificazioni rese dal lavoratore e, quindi, di esclusione dell'illecito disciplinare.

La Corte di cassazione, ritenuti ammissibili i motivi di appello formulati dal lavoratore, cassava la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Roma, disponendo che il licenziamento comminato doveva considerarsi non semplicemente inefficace per il mancato rispetto di un termine procedurale e dunque per motivi solo formali, bensì illegittimo per l'insussistenza del fatto contestato con conseguente applicazione della tutela reintegratoria attenuata (art. 18, comma 4, l. n. 300 del 1970), per aver il datore di lavoro implicitamente accolto le giustificazioni a discolpa del dipendente e dunque per la totale mancanza di un elemento essenziale della giusta causa.

La questione

La questione in esame è stabilire se, nella vigenza della disciplina introdotta dalla l. n. 92 del 2012, il licenziamento per giusta causa intimato oltre il termine previsto dalla previsione collettiva che attribuisce al suo decorso il significato di accoglimento delle giustificazioni rese dal lavoratore, deve considerarsi semplicemente inefficace per il mancato rispetto di un termine procedurale (art. 18, comma 6, l. n. 300 del 1970), o illegittimo per insussistenza del fatto contestato, per avere il datore di lavoro accolto le giustificazioni a discolpa del dipendente e dunque per la totale mancanza di un elemento essenziale della giusta causa (art. 18, comma 4, l. n. 300 del 1970).

Le soluzioni giuridiche

La menzionata pronuncia, rilevato che l'art. 21, n. 2 comma 3, del CCNL Gas Acqua prevede che il provvedimento disciplinare (più grave del rimprovero verbale) deve esser adottato entro il termine perentorio stabilito dalle parti sociali pena la fictio dell'intervenuta accettazione delle giustificazioni rese dal dipendente, ha ritenuto illegittimo per insussistenza del fatto contestato il licenziamento irrogato oltre tale termine.

A fondamento della propria decisione, la Corte ha posto la volontà delle parti nella definizione della norma sopra menzionata, volontà che, secondo i principi codicistici (artt. 1363, 1366 e 1369, c.c.) e l'orientamento giurisprudenziale maturato sul punto (Cass. 19 marzo 2018, n. 6675) deve essere ricercata considerando l'elemento letterale della norma, lo scopo pratico perseguito dalle parti nel definirla ed i principi di buona fede e correttezza che presidiano il rapporto di lavoro ai sensi degli artt. 1175 e 1375, c.c., che si concretizzano nel non suscitare falsi affidamenti e nel non contestare ragionevoli affidamenti ingenerati nella controparte.

La stessa Corte ha ritenuto pertanto, come già in precedenti occasioni (Cass. 21 marzo 1994, n. 2663), che la volontà delle parti nel definire la previsione pattizia menzionata fosse quella di arricchire le garanzie di difesa dell'incolpato sia con la previsione di un termine finale al procedimento disciplinare, sia con l'attribuzione di un determinato significato al comportamento del datore di lavoro nei confronti del lavoratore avvalsosi della facoltà e dei mezzi di difesa apprestatigli dall'ordinamento.

La norma contrattuale citata, ha argomentato la Corte, non è quindi una semplice norma procedurale ma ha, di contro, rango di norma sostanziale che disciplina il corretto esercizio del potere di recesso datoriale, posto che la stessa non si limita a disporre il termine entro cui comminare il provvedimento disciplinare, ma al mancato rispetto dello stesso collega espressamente la conseguenza di un'accettazione delle giustificazioni.

Da ciò ne consegue che, ha concluso la Corte, il licenziamento per giusta causa intimato oltre il termine previsto dalla previsione collettiva, non può considerarsi semplicemente inefficace per il mancato rispetto di un termine procedurale e dunque per motivi solo formali; non è quindi applicabile la tutela prevista dall'art. 18, comma 6, l. n. 300 del 1970, che è collegato alla violazione della procedura di cui all'art. 7 della stessa legge.

Il licenziamento in oggetto deve invece essere dichiarato illegittimo per insussistenza del fatto contestato (con applicazione quindi della tutela reintegratoria attenuata - art. 18, comma 4, l. n. 300 del 1970) dal momento che le giustificazioni fittiziamente ritenute accolte dal datore di lavoro che non ha erogato il provvedimento disciplinare nel termine stabilito rendono insussistente il fatto contestato.

Pervenendo alle sopra esposta decisione, la Corte si discosta dal differente orientamento che, non considerando la disposizione della previsione collettiva che collegava all'inerzia del datore di lavoro la conseguenza di un'accettazione delle giustificazioni rese dal lavoratore, ha ritenuto semplicemente che il mancato rispetto del termine previsto per l'adozione del provvedimento conclusivo del procedimento disciplinare integrasse una violazione della procedura di cui all'art. 7, l. n. 300 del 1970, con conseguente operatività della tutela prevista dall'art. 18, comma 6, della stessa legge (Cass. 16 agosto 2016, n. 17113, in Lav. giur., 2016, 12, 1123).

Ad argomentazione della propria determinazione, la Suprema Corte, nella menzionata pronuncia, non è entrata nel merito dell'ulteriore previsione collettiva ed ha semplicemente ritenuto che, considerato il generico riferimento alla procedura di cui all'art. 7, l. n. 300 del 1970, previsto dall'art. 18, comma 6 e che la disciplina contrattuale collettiva è abilitata ad integrare quella di fonte legislativa, le conseguenze delle violazioni delle prescrizioni da essa introdotte non potevano che essere le medesime di quelle stabilite per le violazioni delle prescrizioni legali.

Osservazioni

La sentenza in commento stabilisce quindi che la contrattazione collettiva nazionale, sotto il profilo della tempestività, è abilitata non solo ad introdurre un termine perentorio per l'esercizio del potere disciplinare, ma anche ad attribuire un determinato significato che assume valore sostanziale all'inerzia del datore di lavoro dopo che il lavoratore ha provveduto ad esporre le sue giustificazioni.

La Corte ha ritenuto, come già in altre occasioni (Cass. 18 marzo 2008, n. 7295), se l'indicazione di un termine per il compimento di un'attività giuridicamente rilevante e la previsione di una determinata conseguenza per l'ipotesi di mancato compimento entro tale termine non sono semplici clausole di stile inserite dai contraenti in ossequio ad una prassi meramente linguistica, ma sono frutto di una concreta volontà negoziale delle parti, allora il licenziamento comminato oltre il suddetto termine dovrà essere dichiarato illegittimo per insussistenza del fatto contestato (con applicazione quindi della tutela reintegratoria attenuata, art. 18, comma 4, l. n. 300 del 1970), essendo venuto a cadere l'addebito mosso a carico del lavoratore per l'intervenuta implicita ammissione da parte del datore di lavoro che il fatto contestato non è più configurabile come mancanza sanzionabile.

Occorre invece definire quale sia la concreta volontà negoziale delle parti sociali, nelle ipotesi in cui la contrattazione collettiva si limita a prevedere un termine per la erogazione del provvedimento disciplinare, senza attribuire alcun significato all'inerzia del datore di lavoro.

La sentenza in commento non chiarisce questo aspetto, restando quindi incerto se, al di là delle ipotesi in cui le parti sociali collegano al silenzio del datore di lavoro un significato preciso quale l'accoglimento delle giustificazioni, nelle altre ipotesi in cui non viene adottato il provvedimento disciplinare nel termine fissato dalla contrattazione collettiva si è sempre in presenza di una mera violazione formale, sanzionata ai sensi del comma 6 dell'art. 18, l. n. 300 del 1970, ovvero possa sussistere anche un vizio sostanziale del recesso e come tale sanzionabile ai sensi del comma 5 dell'art. 18 della medesima legge.

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