Mancato versamento di tributi: la crisi di liquidità può escludere la responsabilità penale

05 Dicembre 2018

Il mancato pagamento delle fatture da parte dei committenti dell'imprenditore può rappresentare causa di esclusione della responsabilità penale per omessi versamenti del tributo IVA. È onere dell'imputato fornire la prova di aver fatto tutto il possibile per reperire le risorse necessarie ai fini dell'adempimento dell'obbligazione tributaria, sia attraverso idonee azioni di recupero dei crediti, sia attraverso l'impiego di proprie risorse personali.
Massima

Il mancato pagamento delle fatture da parte dei committenti dell'imprenditore può rappresentare causa di esclusione della responsabilità penale per omessi versamenti del tributo IVA. È onere dell'imputato fornire la prova di aver fatto tutto il possibile per reperire le risorse necessarie ai fini dell'adempimento dell'obbligazione tributaria, sia attraverso idonee azioni di recupero dei crediti, sia attraverso l'impiego di proprie risorse personali.

Il caso

Con sentenza del 4 luglio 2017, la Corte d'Appello di Milano, previa riforma della pronuncia di assoluzione emessa dal Tribunale di Milano, dichiarava l'imputato – quale legale rappresentante di una società cooperativa (soggetto passivo d'imposta) – colpevole, in concorso con altri, del delitto di mancato versamento del tributo IVA dovuto in base alla dichiarazione, ex art. 10-ter, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, condannandolo alla pena di sei mesi di reclusione.

L'imputato, in sede di ricorso per cassazione, lamentava che la Corte milanese, nel riformare la sentenza assolutoria di primo grado, non avesse adeguatamente verificato la copiosa documentazione prodotta agli atti del procedimento, documentazione dalla quale sarebbe stata ben rilevabile la sussistenza di una causa di forza maggiore.

Dal materiale prodotto, in particolare, sarebbe emerso come la società cooperativa non avesse potuto versare il tributo IVA a causa di un evento imprevisto ed imprevedibile, qual era da considerarsi l'intervenuto fallimento di alcuni dei propri maggiori clienti, i quali non avevano pagato i corrispettivi delle prestazioni assoggettate ad IVA.

La sentenza d'appello non avrebbe poi tenuto conto dei documentati tentativi operati dalla società per recuperare il credito verso i propri committenti (ricorsi per decreto ingiuntivo, insinuazioni al fallimento, tentativi ai fini transattivi).

Inoltre, nessuna rilevanza sarebbe stata attribuita all'impegno profuso dall'imputato nel tentativo di impiegare proprie risorse finanziarie al fine di assolvere il tributo IVA, a fronte della crisi di liquidità figurativamente definita, in atti, quale “tempesta perfetta”.

Ancora, la circostanza che le fatture fossero andate insolute – ciò che aveva in effetti impedito al contribuente d'accantonare la liquidità necessaria per il versamento IVA – non può rappresentare prova del dolo del reato, rappresentando, piuttosto, tale fatto, la prova del tentativo di recuperare i sottostanti crediti commerciali, fra l'altro confidando, la cooperativa, nelle promesse di pagamento ricevute dai propri committenti.

Il ricorrente negava, infine, che fossero stati privilegiati altri creditori sociali (i lavoratori dipendenti) in danno dell'Amministrazione finanziaria, sostenendo, al contrario, che la società cooperativa si era vista costretta a licenziare parte rilevante della propria base occupazionale.

In punto di diritto, la Corte milanese non avrebbe sufficientemente approfondito la questione circa la sussistenza dell'elemento soggettivo, riconducendo la condotta dolosa, sic et simpliciter, al mero verificarsi della fattispecie omissiva, senza alcuna ulteriore indagine sul materiale prodotto – dal quale sarebbe emersa la vis maior che investì il contribuente.

D'altra parte, quest'ultimo, nell'omettere di stornare le fatture insolute – circostanza rilevata dai giudici d'appello quale elemento rilevante ai fini della sussistenza del dolo –, aveva pur sempre adottato un comportamento conforme alla legge.

Ovvero all'art. 26, D.P.R. n. 633/1972, secondo cui la variazione dell'imponibile, in caso di mancato pagamento da parte dei committenti dei corrispettivi fatturati, a causa di procedure concorsuali e/o esecutive, può essere operata solo ove tali procedimenti rimangano infruttuosi, dovendo dunque il contribuente attenderne l'esito finale.

Con la sentenza in commento, la terza sezione penale della Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso presentato dall'imputato, annullando la sentenza della Corte d'Appello di Milano e rinviando ad altra sezione, per un nuovo giudizio.

Il Supremo Collegio, in via preliminare, ha rilevato un vizio nella motivazione della sentenza di seconde cure: il giudice d'appello che riformi integralmente la pronuncia assolutoria di primo grado, è tenuto a supportare la propria decisione con motivazione cd. rafforzata.

La sentenza d'appello deve, cioè, delineare in modo compiuto le linee portanti dell'alternativo ragionamento probatorio adottato dal giudice di secondo grado.

Devono dunque essere confutate, nello specifico, le motivazioni assolutorie, e dev'esser dato conto delle ragioni della incompletezza e/o della incoerenza del relativo provvedimento, in modo da giustificarne la riforma, in senso sfavorevole all'imputato.

Secondo la Cassazione, nel caso in esame, la Corte d'Appello milanese non ha provveduto a sviluppare in modo compiuto alcun compendio argomentativo, non supportando la sentenza di revoca con una congrua motivazione.

Contraddittorio, fra l'altro – è parso al Supremo Collegio –, che i giudici d'appello avessero riconosciuto che l'aspettativa della società di incassare le fatture era stata in effetti vanificata dall'inadempimento dei principali clienti, poi andati falliti.

D'altra parte, censurabile è parso l'assunto secondo il quale l'emissione delle fatture, poi insolute, si qualificherebbe come condotta volta ad aggravare il debito tributario, dal momento che il prestatore del servizio – rileva la Cassazione – è tenuto, per espressa norma di legge, ad emettere le fatture a fronte delle prestazioni effettivamente rese ai propri clienti.

Del resto, la situazione di illiquidità aziendale non può essere ritenuta frutto di un'autonoma nonché deliberata scelta imprenditoriale, non essendo ragionevole che l'emissione – doverosa – delle fatture venga assunta a prova del dolo della condotta omissiva, in presenza di non contestati inadempimenti da parte dei clienti.

I giudici d'appello, secondo la Corte di Cassazione, avrebbero dovuto effettuare un approfondito esame circa le azioni intraprese dal contribuente al fine di fronteggiare la grave crisi finanziaria verificatasi a seguito dei prospettati inadempimenti dei committenti – accertamento, quest'ultimo, oltremodo rilevante per valutare la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato.

In questo senso, ha rilevato il Collegio, per costante indirizzo ermeneutico, l'imputato “può invocare la assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione della responsabilità penale”, peraltro a condizione che egli provveda “ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica che ha investito l'azienda, sia l'aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee da valutarsi in concreto”.

L'imputato ha così l'onere di provare che non è stato altrimenti possibile reperire le risorse necessarie per l'adempimento dell'obbligazione tributaria, avendo egli posto in essere “tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili”.

Azioni che, nel caso in esame, il ricorrente aveva prospettato in sede di difesa avanti al giudice di primo grado, e che quest'ultimo aveva in effetti verificato – ma che, secondo il Supremo Collegio, il giudice d'appello non ha preso in debita considerazione.

Quanto sopra ha portato la terza sezione della Corte di Cassazione ad annullare il provvedimento di revoca delle sentenza assolutoria di primo grado, con conseguente rinvio ad altra sezione della Corte d'Appello di Milano, per un nuovo giudizio.

Un aspetto preliminare: la motivazione cd. rafforzata della sentenza d'appello che riformi la sentenza assolutoria di primo grado

La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha richiamato il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale il giudice d'appello che riformi integralmente una pronuncia assolutoria deve motivare la propria decisione in modo rafforzato, esponendo le linee portanti del proprio alternativo ragionamento probatorio – al pari confutando, in modo specifico, le motivazioni della sentenza di primo grado.

In questo senso, le Sezioni unite hanno rilevato che “il giudice di appello che riformi totalmente la sentenza di primo grado, caratterizzata […]da un solido impianto argomentativo, ha l'obbligo non solo di delineare con chiarezza le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio, ma anche di confutare specificamente e adeguatamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza e, soprattutto, quando all'assoluzione si sostituisca la decisione di colpevolezza dell'imputato, di dimostrarne, con rigorosa analisi critica, l'incompletezza o l'incoerenza, non essendo altrimenti razionalmente giustificata la riforma” (così, Cass., pen. sez. un., 20 settembre 2005, n. 33748).

Se quando le decisioni dei giudici di primo e secondo grado sono concordanti, la motivazione della sentenza d'appello si salda con quella precedente, per formare un unico corpo argomentativo, ove, per “diversità di apprezzamenti, per l'apporto critico delle parti e/o per le nuove eventuali acquisizioni probatorie, il giudice di appello ritenga di pervenire a conclusioni diverse da quelle accolte dal giudice di primo grado, non può allora egli risolvere il problema della motivazione della sua decisione inserendo nella struttura argomentativa di quella di primo grado – genericamente richiamata – delle notazioni critiche di dissenso, in una sorta di ideale montaggio di valutazioni ed argomentazioni fra loro dissonanti, essendo invece necessario che egli riesamini, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal giudice di primo grado, consideri quello eventualmente sfuggito alla sua delibazione e quello ulteriormente acquisito, per dare, riguardo alle parti della prima sentenza non condivise, una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni” (così, Cass., pen. sez. III, 5 maggio 2017, n. 29253).

La Cassazione, nel caso in esame, in applicazione dei principi sopra indicati, ha ritenuto dunque non sufficientemente motivata la sentenza della Corte d'Appello di Milano, rinviando ad altra sezione per l'esame e la valutazione della documentazione prodotta dall'imputato.

La sentenza in oggetto permette peraltro di svolgere alcune considerazioni in ordine alla questione di diritto sottesa al procedimento trattato dalla Suprema Corte di Cassazione.

La questione di diritto: crisi di liquidità, inadempimento dei committenti e cause di esclusione della responsabilità penale

La riforma della legislazione penal-tributaria attuata con D.Lgs. n. 74/2000 ha limitato le ipotesi delittuose già previste dalla L. n. 516/1982 (cd. “manette agli evasori”), circoscrivendo la rilevanza penale alle sole condotte caratterizzate da fraudolenza.

Con riferimento alle ipotesi di mancato versamento di tributi, il legislatore della riforma ha richiesto – in confronto alla normativa precedente, adottata in un contesto di “panpenalismo imperante”(così, E. Musco-F. Ardito, Diritto penale tributario, Bologna, 2016, 15) – un quid pluris rispetto alla mera condotta omissiva.

In realtà, ilD.Lgs. n. 74/2000 non aveva originariamente previsto alcuna rilevanza penale alla fattispecie di mancato versamento dei tributi, concentrando l'ambito delittuoso alle sole ipotesi di presentazione “fraudolenta” della dichiarazione (sottrazione di materia imponibile).

Solo più tardi il legislatore, con L. n. 311/2004 (Finanziaria per il 2005), ha introdotto all'interno del D.Lgs. n. 74/2000 le ipotesi delittuose di omesso versamento delle ritenute certificate (art. 10-bis) e del tributo IVA indicato in dichiarazione (art. 10-ter).

Da ultimo, con D.Lgs. n. 158/2015 sono state innalzate le soglie di punibilità del reato omissivo, soglie che sono state portate ad euro 50.000 per l'omesso versamento di ritenute (il legislatore ha esteso tale ipotesi delittuosa anche ai casi di ritenute dichiarate, pur se non certificate) e ad euro 250.000 per l'omesso versamento IVA.

Quanto premesso, le condotte omissive ex artt. 10-bis e 10-ter, D.Lgs. n. 74/2000 sono punite a titolo di dolo generico.

In questo senso: “mentre molte delle condotte penalmente sanzionate dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 richiedono che il comportamento illecito sia dettato dallo scopo specifico di evadere le imposte, questa specifica direzione della volontà illecita non emerge in alcun modo dal testo dell'art. 10-bis, D.Lgs. n. 74/2000,. Per la commissione del reato, basta, dunque, la coscienza e volontà di non versare all'Erario le ritenute effettuate nel periodo considerato” (così, Cass., sez. pen. un., 28 marzo 2013, n. 37425; principio analogo, in materia di omessi versamenti IVA ex art. 10-ter, è stato statuto da Cass., sez. pen. un., 28 marzo 2013, n. 37424).

Secondo la Cassazione, pertanto, il reato è integrato con il mero compimento della condotta omissiva (consapevolezza dell'illecito), non essendo richiesta, quale elemento costitutivo della fattispecie delittuosa, la volontarietà/intenzionalità nella violazione del precetto.

Ricordano le Sezioni Unite, con le sopra richiamate sentenze, che la “prova del dolo è insita, in genere, nella duplice circostanza del rilascio della certificazione al sostituito e della presentazione della dichiarazione annuale del sostituto”.

Secondo parte della dottrina, il contribuente è tenuto ad accantonare le somme necessarie a versare, nei termini di legge, il tributo IVA addebitato al committente, così come le ritenute operate sulle somme corrisposte a terzi (in questo senso, G.L. Soana, Crisi di liquidità del contribuente e omesso versamento di ritenute certificate e di IVA, in www.penalecontemporaneo.it).

Il “disvalore” penale della condotta omissiva risiederebbe così nella indebita appropriazione di somme altrui da parte del contribuente.

Secondo altro orientamento dottrinario, il disvalore della condotta sarebbe piuttosto da rinvenire nella omissione in sé e, dunque, nel mancato versamento del tributo entro i termini previsti dalla norma penale (in questo senso, I. Caraccioli, Riflessioni sui reati di omissione propria e sulle cause di non punibilità suscitate dalle Sezioni Unite della Cassazione, in Riv. dir. trib., 2013, II, p. 258 ss.).

Per molto tempo, la Cassazione, aderendo peraltro al primo orientamento, ha negato con rigore la rilevanza della crisi aziendale (illiquidità), quale esimente della responsabilità penale per omesso versamento dei tributi: il contribuente è tenuto a gestire le proprie risorse in modo da provvedere ad adempiere l'obbligazione nei termini di legge, al di là di ogni possibile difficoltà economica, ove anche riconducibile a cause esogene.

In questo senso, secondo il Collegio, con riferimento all'omesso versamento di ritenute certificate, lo “stato di insolvenza non libera il sostituto d'imposta, dovendo questi adempiere al proprio obbligo di corrispondere le ritenute all'Erario, così come adempie a quello di pagare le retribuzioni, di cui le ritenute stesse sono parte” (così, Cass., pen. sez. III, 1 luglio 1999, n. 1178).

In senso conforme, la Cassazione ha riconosciuto quale obbligo in capo al sostituto d'imposta quello “di ripartire le risorse esistenti all'atto della corresponsione delle retribuzioni in modo da poter adempiere il proprio obbligo tributario, anche se ciò comporta l'impossibilità di pagare i compensi nel loro intero ammontare” (così, Cass., pen. sez. III, 28 novembre 1995 n. 11459).

Fra l'altro, l'orientamento cui si rifà la Suprema Corte – la fattispecie omissiva si realizza progressivamente, presupponendo un dovere di accantonamento – comporta che, in caso di mancato versamento del tributo, risponda del reato il legale rappresentante della società che era in carica al momento in cui l'accantonamento doveva essere effettuato.

In questo senso, la Cassazione ha avuto modo di affermare che le somme “incassate a titolo di IVA sono destinate ad essere versate all'Erario, e non sono nella libera disponibilità del contribuente, che dovrebbe, invece, accantonarle, se non provvede al versamento periodico mensile o trimestrale, e da tale incombenza non può ritenersi estraneo, in caso di successione tra amministratori di una società, colui che la rappresentava nel periodo antecedente alla scadenza del termine per il versamento, poiché la sua condotta potrebbe aver fornito un contributo causale alla commissione del fatto, creando materialmente i presupposti per il successivo omesso versamento” (Cass., pen. sez. III penale, 15 marzo 2013, n. 12268).

Secondo l'impostazione originariamente seguita dalla Corte, l'impossibilità di adempiere l'obbligazione per fatto non imputabile al contribuente non sarebbe dunque idonea a determinare alcun effetto scriminante (irrilevanza della imprevedibilità e/o inevitabilità dell'inadempimento).

D'altra parte, tale impossibilità non sarebbe rilevante neanche ai fini della mancanza del requisito di soggettività del reato, in termini – cioè – di esclusione della colpevolezza per insussistenza di suitas.

La Cassazione, con l'acuirsi della crisi economica, è andata in parte attenuando la propria rigida posizione, in un quadro di progressivo mutamento della giurisprudenza di merito, nell'ottica di un tendenziale maggior “garantismo” per il contribuente (v., fra le altre, Trib. Firenze, 27 luglio 2012; Trib. Milano, 19 settembre 2012; Trib. Venezia, 5 gennaio 2013; Trib. Novara, 20 marzo 2013; Trib. Roma, 7 gennaio 2014).

La Suprema Corte, a partire dal 2013, ha così fatto segnalare alcune “aperture” – peraltro, come vedremo, di non facile attuazione, in termini pratici, a motivo della rigidità nella prova richiesta – volte ad attribuire rilevanza alla situazione di carenza di liquidità per motivi non imputabili all'imprenditore, quale causa di esclusione della responsabilità penale.

E ciò ricorrendo sia all'elemento della insussistenza del profilo soggettivo del reato (assenza di consapevolezza), sia alla causa esimente legata alla forza maggiore, dunque considerando come non integrato il presupposto di causalità fra condotta (omissiva) ed evento.

Circa la crisi di liquidità dovuta ad inadempimenti da parte dei clienti dell'imprenditore, il punto di svolta è segnato, ancora, dalle ricordate sentenze delle Sezioni Unite: la situazione di oggettiva illiquidità “indotta” può assumere rilevanza ai fini dell'esclusione della responsabilità penale, a condizione che l'imputato dia conto di “indicazioni specifiche e concrete, atte a ravvisare una reale impossibilità incolpevole all'adempimento” (Cass., sez. pen. un., n. 37425/2013, cit.).

La Cassazione, con una serie di successive pronunzie, ha sviluppato il tema dell'esclusione della responsabilità penale dei reati omissivi ex D.Lgs. n. 74/2000, puntualizzando come il giudice di merito, nell'apprezzamento del caso concreto, possa rilevare circostanze idonee a ritenere non integrato e/o non punibile il reato di mancato adempimento dell'obbligazione tributaria.

Quanto sopra, sempreché l'imputato assolva “gli oneri di allegazione e di prova che, per quanto attiene alla crisi di liquidità, debbono investire non solo l'aspetto circa la non imputabilità al soggetto tenuto al pagamento dell'imposta della crisi economica, che avrebbe improvvisamente investito l'azienda, ma anche che detta crisi non possa essere stata adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso, da parte dell'imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto” (così, Cass., pen. sez. III, 4 febbraio 2014, n. 5467; in senso conforme, v. anche Cass. pen. sez. III, 6 marzo 2014, n. 10813).

In realtà, assai problematico è, nel concreto, per il contribuente, adempiere al richiesto onere di allegazione, considerato che la prova circa la rilevanza della crisi di liquidità deve “investire non solo l'aspetto della non imputabilità, a chi abbia omesso il versamento, della crisi economica che ha investito l'azienda o la sua persona, ma anche la prova che tale crisi non sarebbe stata altrimenti fronteggiabile tramite il ricorso, da parte dell'imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto (non ultimo, il ricorso al credito bancario)” (così, Cass. pen. sez. III, 15 maggio 2014, n. 20266).

Il contribuente deve, cioè, dar contezza e prova di non aver potuto reperire – per cause indipendenti dalla propria volontà – le risorse finanziarie necessarie per il corretto adempimento dell'obbligazione tributaria, avendo egli posto in essere ogni possibile azione e/o iniziativa, anche adoperandosi per acquisire mezzi rivenienti dall'impiego del proprio patrimonio personale.

Nel caso sopra trattato, la Cassazione, in mancanza di altre prove, non aveva ritenuto rilevanti i pur documentati inadempimenti da parte dei clienti dell'imprenditore (la Corte, fra l'altro, non ha ritenuto invocabile lo stato di necessità ex art. 54, comma 1, c.p., dal momento che il “danno grave alla persona” sarebbe riferibile ai soli beni che costituiscano “l'essenza stessa dell'essere umano, come la vita, l'integrità fisica (comprensiva del diritto alla salute), la libertà morale e sessuale, il nome, l'onore, ma non anche quei beni che, pur essendo costituzionalmente rilevanti, contribuiscono al completamento ed allo sviluppo della persona umana”).

Possibili interferenze fra norma penal-tributaria e norme penali concorsuali

Se, almeno astrattamente, le ricordate aperture della Cassazione lasciano alcuni spazi di difesa per il debitore d'imposta che abbia subìto una crisi economico-finanziaria, ove anche correlata a reiterati inadempimenti da parte dei clienti, la rigorosa prova richiesta per dimostrare l'assenza della responsabilità penale – l'aver fatto il possibile per reperire le risorse necessarie all'adempimento dell'obbligazione tributaria, anche intaccando, se non compromettendo, il proprio patrimonio personale –, si pone in apparente contrasto con altri precetti di natura penale.

Ci si riferisce, in primis, all'art. 217, comma 1, n. 4), l. fall., norma che punisce, in caso di fallimento, con la reclusione da sei mesi a due anni l'imprenditore che abbia aggravato la propria situazione di dissesto, astenendosi dal richiedere il fallimento in proprio ovvero con altra condotta connotata da colpa grave, quale può essere l'aver depauperato il proprio patrimonio – garanzia per tutti i creditori – al fine di adempiere l'obbligazione tributaria, in danno, dunque, dell'intera massa.

Ove, pertanto, l'imprenditore che si trovi in una situazione di non reversibile crisi finanziaria prolunghi oltremodo la gestione aziendale al fine di adempiere l'obbligazione tributaria – anche utilizzando risorse rivenienti dal proprio patrimonio personale – potrà compromettere ulteriormente, e spesso definitivamente, le garanzie a tutela dell'intero ceto creditorio.

In questo senso: “l'ostinato esercizio dell'impresa – venuti irrimediabilmente meno i presupposti di solvibilità – non solo non può escludere il nesso di causalità o svuotare di contenuti l'elemento soggettivo del reato tributario, ma finisce anche con l'integrare il reato concorsuale” (così, L. Gianzi, I reati di omesso versamento, crisi di liquidità e riconoscimento dell'esimente: prime (timide) aperture della Corte di Cassazione?, in www.dirittopenaletributario.nei).

Oltretutto, il contribuente che pur trovandosi in una situazione d'insolvenza, sempre al fine di evitare la responsabilità penale ex artt. 10-bis) e 10-ter), D.Lgs. n. 74/2000, adempia l'obbligazione tributaria potrebbe incorrere, in caso di successivo fallimento, violando la par condicio creditorum, con riferimento alle ragioni dei privilegiati di rango poziore, in imputazioni legate a contestabili condotte penalmente rilevanti sotto il profilo della preferenzialità, ex art. 216, comma 3, l. fall.

Trattasi, peraltro, di questione incerta, a motivo della possibile sussistenza di una scriminante putativa ex art. 51 c.p., che potrebbe escludere il fumus commissi delicti: un fatto costituente adempimento di un obbligo non può, al tempo stesso, essere qualificato come reato (l'art. 51 c.p. sancisce un “principio di non contraddizione dell'ordinamento giuridico secondo cui un fatto costituente esercizio di una facoltà o […] di un obbligo, non possa, al tempo stesso, essere qualificato anche come reato, posto che uno stesso ordinamento non può, senza venire meno alla propria essenziale funzione regolatrice del comportamento dei consociati, ad un tempo vietare e, al tempo stesso permettere o, come sempre nel presente caso, imporre una stessa condotta”, così, Cass., pen. sez. III, 10 febbraio 2015, n. 5921).

Annotazione conclusiva

In questo contesto, per concludere, appare quanto mai opportuno che l'imprenditore che venga a trovarsi in una situazione di difficoltà finanziaria non transitoria riconduca gli adempimenti tributari in un quadro di soluzione negoziata della crisi d'impresa, secondo forme e modalità previste dalla norma concorsuale che annettano ai negozi estintivi uno speciale regime di esenzione dal reato di bancarotta (anche preferenziale), in caso di successivo fallimento.

Guida all'approfondimento

Vengono riepilogate le sentenze citate nel testo, così come i menzionati contributi dottrinari.

In giurisprudenza:

Cass., pen. sez. un., 20 settembre 2005, n. 33748

Cass., sez. pen. un., 28 marzo 2013, n. 37424

Cass., pen. sez. III, 28 novembre 1995 n. 11459

Cass., pen. sez. III, 1 luglio 1999, n. 1178

Cass., pen. sez. III penale, 15 marzo 2013, n. 12268

Cass., pen. sez. III, 4 febbraio 2014, n. 5467

Cass. pen. sez. III, 6 marzo 2014, n. 10813

Cass. pen. sez. III, 15 maggio 2014, n. 20266

Cass., pen. sez. III, 10 febbraio 2015, n. 5921

Cass., pen. sez. III, 5 maggio 2017, n. 29253

Trib. Firenze, 27 luglio 2012

Trib. Milano, 19 settembre 2012

Trib. Venezia, 5 gennaio 2013

Trib. Novara, 20 marzo 2013

Trib. Roma, 7 gennaio 2014

In dottrina:

Caraccioli I., Riflessioni sui reati di omissione propria e sulle cause di non punibilità suscitate dalle Sezioni Unite della Cassazione, in Riv. dir. trib., 2013, II

Gianzi L., I reati di omesso versamento, crisi di liquidità e riconoscimento dell'esimente: prime (timide) aperture della Corte di Cassazione?, in www.dirittopenaletributario.nei

Musco E. - Ardito F., Diritto penale tributario, Bologna, 2016

Soana G.L., Crisi di liquidità del contribuente e omesso versamento di ritenute certificate e di IVA, in www.penalecontemporaneo.it

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