Alberto Celeste
07 Dicembre 2018

La novellata norma sull'attribuzione della condominialità, ossia l'art. 1117 c.c., si caratterizza perché registra una rassegna aggiornata delle parti comuni dell'edificio e degli impianti ormai considerati pressoché indispensabili ai fini di una completa e reale utilizzazione del fabbricato, in base all'evoluzione delle esigenze dei cittadini nel campo abitativo e alle mutate concezioni in tema di igiene, svago e convivenza; in quest'ordine di concetti...
Inquadramento

La materia condominiale è disciplinata da una serie di norme, la prima delle quali è costituita dal fondamentale art. 1117 c.c., che elenca quali sono le “parti comuni dell'edificio”:confermato, dunque, l'elemento qualificante il rapporto di condominio nel legame di accessorietà, materiale e funzionale, tra le cose di proprietà comune e le unità immobiliari di proprietà esclusiva, il novellato art. 1117 c.c., che rimane la norma-base dell'istituto del condominio, elenca cosa è «oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell'edificio», a meno che - come in passato - il contrario non risulti dal titolo.

Venendo ad un esame più particolareggiato, si registra la permanenza, seppur arricchita nei contenuti, dell'impostazione del vecchio testo, ossia l'articolazione in tre numeri, salvo l'aggiornamento riguardo alle innovazioni tecnologiche che, intervenute nelle more, ossia dal codice civile del 1942 ad oggi, hanno radicalmente trasformato il panorama delle parti comuni e delle correlate utilità funzionali alle abitazioni.

Più nel dettaglio, al n. 1), sono menzionate tutte “le parti dell'edificio necessarie all'uso comune”, ossia alla stessa costruzione, di solito trattandosi di parti costitutive essenziali del fabbricato, indispensabili e non suscettibili di separazione materiale o funzionale, e, nello specifico, si riportano - per quel che interessa in questa sede - “le fondazioni”.

Comunque, era opinione comunemente accolta che l'elencazione contenuta nell'art. 1117 c.c. fosse “aperta”, in quanto il Legislatore codicistico si era prefisso soltanto di eliminare alcuni dubbi che erano sorti nella pratica; e tuttora, a seguito delle new entry della Riforma del 2013, si è sostanzialmente d'accordo nel ritenere che l'enumerazione contenuta in tale norma sia di carattere meramente esemplificativo e non esaustivo, sia per l'elasticità delle espressioni testuali adoperate nel disposto, sia per l'utilizzo come criterio di qualificazione della funzione in concreto svolta dalla parte al servizio della porzione di proprietà individuale.

Pertanto, è ius receptum che il diritto di condominio sulle parti comuni dell'edificio ha il suo fondamento nel fatto che tali parti siano necessarie per l'esistenza dell'edificio stesso, oppure che siano permanentemente destinate all'uso o al godimento comune; di tali parti, l'art. 1117 c.c. contiene un'elencazione non tassativa, conseguendone che la disposizione in parola può essere integrata ab estrinseco se la cosa, per oggettive caratteristiche strutturali, serve in modo esclusivo all'uso o al godimento di una parte dell'immobile, venendo meno, in questi casi, il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria, giacché la destinazione particolare del bene prevale sull'attribuzione legale, alla stessa stregua del titolo contrario (v., ex plurimis, Cass. civ., sez. II, 28 febbraio 2007, n. 4787).

La conseguenza è che le parti “innominate” partecipano al regime di condominialità purché siano effettivamente destinate all'uso ed al godimento di tutti i condomini, sicché è decisiva (non tanto l'astratta riconducibilità del bene alle categorie di cui all'art. 1117 citato, bensì) la funzione concreta che esse oggettivamente svolgono o sono in grado di svolgere; in quest'ottica, come non sorgevano dubbi che, nel vecchio regime, potessero rientrare, tra le cose comuni, le antenne collettive, o, tra gli impianti comuni, quello di condizionamento d'aria, così, nell'attuale regime, anche se non espressamente menzionate, tra le cose comuni potrebbero annoverarsi - per quel che qui rileva e con le precisazioni appresso - le intercapedini e il vespaio.

Le fondazioni

Con il termine “fondazioni”, si intendono tutte quelle strutture, in qualsiasi modo realizzate, che abbiano la funzione di sorreggere l'intero stabile condominiale e che, in forza di ciò, si trovano ad essere stabilmente infisse nel suolo, trasmettendo a quest'ultimo i carichi delle strutture sovrastanti.

Tale loro funzione - la quale, tra l'altro, non può che esplicarsi in maniera permanente, pena il venir meno dello stesso edificio - determina direttamente la loro natura comune, ed a comprovare la circostanza che le fondazioni forniscono utilità a favore di tutto il condominio, nonché il fatto che le medesime sono assolutamente essenziali per l'esistenza stessa del fabbricato, sovviene anche il testo dell'art. 1117, n. 1), c.c. che le ricomprende espressamente nell'elenco dei beni che devono presumersi comuni.

Comunque - all'interno di un edificio, come quello condominiale, nel quale sussiste, inevitabilmente, la compenetrazione di un eterogeneo complesso di strutture delle più svariate tipologie (fondazioni, muri maestri, muri perimetrali, tramezzi, strutture tecniche, condutture, impianti, ecc.) - al fine di individuare quale di queste strutture costituisca “fondazione”, è necessario procedere ad un'indagine sulla specifica destinazione strutturale ed oggettiva di ciascuna.

Dal punto di vista più prettamente operativo, l'individuazione pratica delle fondazioni, pertanto, può (e deve) essere fatta con l'ausilio di competenze tecniche - per esempio, ingegneristiche e/o architettoniche - le quali permettano, caso per caso, di individuare la specifica funzione dei singoli manufatti.

Più astrattamente, ma in perfetta coerenza con quanto appena detto, il principio è ribadito dalla Suprema Corte, secondo la quale l'art. 1117 c.c. sancisce una presunzione di appartenenza alla collettività condominiale delle parti dell'edificio in condominio che siano necessarie all'esistenza stessa di questo (suolo, fondazioni, muri maestri, lastrici solari), oppure siano destinate, in modo permanente all'uso e al godimento comune, talché si presentino unite da un vero e proprio rapporto pertinenziale al complesso della proprietà del gruppo condominiale (v. Cass. civ., sez. II, 18 agosto 1981, n. 4931).

Tale impostazione “classica” dell'art. 1117 c.c. comporta che il bene - cioè, in questo caso, le fondazioni - deve intendersi in comproprietà tra tutti i condomini in forza della sua funzione a favore di tutti (vale a dire, in quanto fornisce utilità a tutto l'edificio), a prescindere da quale sia il suo specifico collocamento all'interno delle strutture dello stabile.

Ne deriva che i condomini sono comproprietari - e, quindi, partecipano alle relative spese di manutenzione e conservazione - anche di porzioni di beni che non si trovano direttamente in contatto con l'unità immobiliare di proprietà esclusiva; nel caso delle fondazioni, pertanto, è corretto ritenere che esse siano condominiali in tutta la loro estensione, a prescindere dalla circostanza che un singolo loro elemento parziale sia tecnicamente a servizio di una parte del fabbricato.

A questo punto, è legittimo chiedersi se il riferimento ad un unico corpo di fabbrica possa ritenersi fondamentale per comprendere il meccanismo di valutazione della natura condominiale (o meno) di un bene o di un impianto.

In effetti, nel caso di un condominio costituito per “corpi di fabbrica”, la valutazione della funzione del bene cambia, e deve evidenziare se l'utilità fornita riguarda tutti gli stabili separati, o soltanto una parte di essi; in tale ultimo caso, si verifica, a differenza della regola generale innanzi illustrata, una separazione dell'utilità fornita dal bene, con la conseguenza che la sua destinazione strutturale - e, quindi, oggettiva ed indipendente dal comportamento dei singoli partecipanti - deve reputarsi a favore di una parte dei condomini e la sua comproprietà deve qualificarsi come parziaria.

In evidenza

È il fenomeno del c.d. condominio parziale, in base al quale, all'interno del condominio complessivo, si verifica una scissione di effetti giuridici che riguardano solo alcuni condomini, configurandosi una specie di sub-condominio all'interno del quale, però, tornano a doversi applicare tutte le regole di legge relative all'istituto, conseguendone implicazioni inerenti la gestione, la partecipazione alle assemblee e l'imputazione delle spese.

Le intercapedini

Può accadere che le necessità costruttive dell'edificio impongano la creazione di “intercapedini” tra le strutture murarie, non di rado contigue ai muri maestri o, ancor più spesso, alle fondazioni.

Va precisato che le intercapedini sono per lo più costituite più da uno spazio vuoto - a volte, coibentato, vale a dire, riempito di materiale isolante - che assume rilevanza giuridica (ed economica) per la potenziale sua utilizzabilità, ovviamente da parte dei condomini proprietari delle unità immobiliari poste a diretto contatto di tale spazio.

In tale ottica, appare necessario - come sempre in tali casi - indagare sulla specifica funzione dell'intercapedine (cioè, sulla destinazione dell'utilità fornita), allo scopo di individuarne la relativa proprietà, e, quindi, da questa far discendere l'identificazione del soggetto facoltizzato alla sua utilizzazione (riguardo alla controversa proprietà tra due condomini in ordine a tale elemento edilizio, v., di recente, Cass. civ., sez. II, 26 giugno 2015, n. 13295).

Sul punto, è stato precisato che l'intercapedine esistente tra il piano di posa delle fondazioni, costituente il suolo dell'edificio, e la superficie del piano terra, se non risulta diversamente dai titoli di acquisto, appartiene, come parte comune, a tutti i condomini (Cass. civ., sez. II, 15 febbraio 2008, n. 3854).

Negli stessi identici termini, ma con maggiori indicazioni “tecniche”, si è stabilito che l'intercapedine esistente tra il piano di posa delle fondazioni di un edificio condominiale - che costituisce il suolo di esso - e la prima soletta del piano interrato, se non risulta diversamente dal titolo, ed anzi in quelli del piano terreno e seminterrato non è neppure menzionata tra i confini, è comune, in quanto destinata all'aerazione o coibentazione del fabbricato (Cass. civ., sez. II, 17 marzo 1999, n. 2395).

Corretta applicazione di tali principi è stata disposta da una recente pronuncia di merito (Trib. Catania 12 ottobre 2014), la quale ha deciso il ricorso ex art. 702-bis c.p.c. presentato da un condominio, il quale aveva chiesto la condanna di un condomino al rilascio delle intercapedini condominiali, illegittimamente occupate e di fatto annesse al garage di proprietà di quest'ultimo.

Il punto fondamentale della causa era verificare se le intercapedini de quibus fossero o meno da annoverare all'interno dei beni in comproprietà dei partecipanti alla comunione edilizia: a ben vedere, l'art. 1117 c.c., anche nella versione post 2013, continua a non includere tali elementi tra le “parti comuni dell'edificio”, sicché correttamente l'indagine del giudice si è rivolta, da un lato, nell'acclarare l'esistenza di un eventuale titolo contrario e, dall'altro, nel valutare l'effettiva destinazione del bene.

Sul primo versante, premesso che la verifica dovesse correlarsi alla situazione “di diritto” esistente al momento in cui veniva ad esistenza il condominio, ossia al primo atto di trasferimento di un'unità immobiliare dall'originario unico proprietario ad altro soggetto, si è evidenziato che, dall'atto con cui la cooperativa edilizia aveva assegnato al dante causa del resistente l'appartamento, risultava che lo stesso “confinava con l'intercapedine condominiale”, sicché quest'ultima, indicata appunto come confine della proprietà individuale rispetto a quella comune, rientrava chiaramente tra i beni di cui al citato art. 1117 c.c.

Sotto il secondo profilo, l'ausiliario giudiziale aveva avuto modo di accertare la destinazione “di fatto” delle suddette intercapedini all'uso comune, sottolineando la loro funzione, per un verso, di «spazi tecnici finalizzati all'alloggio e passaggio di impianti, nonché alla protezione dell'intero piano cantinato dall'umidità di risalita del terreno limitrofo e retrostante», e, per altro verso, di «spazi vuoti, che separano le pareti verticali di più proprietà, volti a far circolare l'aria ed evitare infiltrazioni di acqua, a vantaggio anche delle fondamenta e dei pilastri, parti necessarie assolutamente per l'esistenza di tutto il fabbricato».

Ne conseguiva, pertanto, riguardo alle intercapedini di cui sopra, da un lato, l'evidente occupazione sine titulo da parte del condomino che le aveva sottratte alla destinazione comune, e dall'altro, la piena legittimazione dell'amministratore del condominio all'esercizio dell'azione di rivendicazione, cui si accompagnava la connessa pretesa risarcitoria.

Sotto quest'ultimo aspetto, una volta correttamente inquadrata l'azione esperita dal condominio ricorrente nell'alveo petitorio, ai sensi dell'articolo 948 c.c., e considerato che la lesione della “proprietà immobiliare” comportava una limitazione al godimento del bene e, quindi, all'esercizio di una delle facoltà che si riconnettevano al diritto sancito dall'art. 42 Cost., si è osservato che il privato che se ne doleva aveva diritto alla doppia tutela, ossia, oltre all'eliminazione dello stato di cose che si era illegittimamente creato, anche al risarcimento del danno patito medio tempore.

In argomento, si è ritenuto - alla luce della prevalente giurisprudenza - che il danno fosse in re ipsa, in quanto l'azione risarcitoria era volta a porre rimedio all'imposizione di una servitù di fatto o alla privazione della disponibilità ed alla conseguente diminuzione di valore del fondo subita dal proprietario in conseguenza del comportamento illegittimo, per il periodo di tempo anteriore all'eliminazione dell'abuso.

Relativamente alla quantificazione di tale danno in concreto, si è sostenuto che la perdita della disponibilità delle intercapedini e della funzione che le era propria per parecchi anni con pregiudizio del condominio ricorrente risultava suscettibile di essere valutata economicamente, e, all'uopo, il decidente - non utilizzando il parametro figurativo del valore locatizio dell'area (ritenuto inadeguato al caso) - è ricorso ad una valutazione equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c., che tenesse conto proprio del tipo di utilità comune normalmente ricavabile dalle intercapedini e dell'estensione della superficie illegittimamente occupata.

Il vespaio

Altro manufatto - analogo a quelli sopra esaminati - di cui va indagata la condominialità è rappresentato dal “vespaio”, il quale costituisce quello strato di materiali vari posto al di sotto del pavimento annesso ai locali del piano terra ed avente funzione isolante.

Dal punto di vista costruttivo, il vespaio può essere di tipo “normale”, cioè costituito da uno strato di materiale isolante, non di rado apposito pietrisco, oppure “a camera d'aria”, vale a dire realizzato con due strati di muratura sovrapposti e distanziati a formare un'intercapedine vuota.

La funzione svolta dal vespaio è chiaramente isolante, finalizzata a preservare il pavimento del piano terra dall'umidità che può provenire dal sottosuolo, e dalla funzione propria di tale manufatto discende anche la relativa titolarità, in ossequio ai principi innanzi richiamati.

In quest'ottica, il Supremo Collegio ha avuto modo di precisare che il vespaio, consistente in riempimento calcareo “a nido d'ape” in terra di riporto, sottostante al pavimento del piano terra, che vi viene poggiato, non rientra nell'àmbito del suolo comune a norma dell'art. 1117 c.c., bensì costituisce un manufatto ben distinto dalle fondazioni ed al servizio esclusivo dell'unità immobiliare al piano terreno e poggiante sul suolo comune (Cass. civ., sez. II, 7 giugno 1993, n. 6357).

Deve darsi conto, tuttavia, che da tale impostazione si è discostata una pronuncia di merito, la quale ha, invece, qualificato tale vespaio come bene condominiale, in forza di corrispondente utilità comune: in particolare, il magistrato siciliano (Trib. Palermo 14 febbraio 2001) l'ha ritenuto rientrante nella nozione di suolo comune, poiché si tratta di un manufatto che, realizzando un'intercapedine di isolamento tra il piano terra e quello di posa delle fondazioni, svolge una funzione di conservazione delle strutture portanti dell'intero edificio e, solo in via complementare, dà utilità anche al pavimento del piano terra, preservandolo dal danno causato dall'umidità proveniente dal suolo comune.

A ben vedere, tuttavia, il contrasto è solo apparente, in quanto in entrambe le sentenze il giudicante non ha fatto altro che far discendere dall'accertamento della specifica funzione del vespaio la sua qualificazione in termini di titolarità; in altre parole, qualora si accerti che la funzione isolante del vespaio è svolta a favore di altre strutture comuni, il manufatto ha natura condominiale, mentre, nel caso in cui l'isolamento è prestato a strutture esclusive, il bene non può dirsi rientrante nel patrimonio del condominio, bensì in quello del singolo condomino che di tale utilità usufruisce.

Ad ogni buon conto, appare decisiva la peculiare conformazione dello stato dei luoghi, sicchè la soluzione in ordine alla titolarità del bene de quo va trovata caso per caso, evitando pericolose generalizzazioni.

Casistica

CASISTICA

Ispezione delle fognature

In tema di condominio negli edifici, salvo che il titolo contrattuale non disponga diversamente, devono considerarsi beni comuni non solo quelli espressamente indicati nell'art. 1117 c.c., ma anche quelli ad essi assimilabili in relazione alla destinazione al comune godimento o al servizio delle proprietà esclusive; pertanto, correttamente il giudice di merito ha attribuito qualità di bene comune - in quanto interessante le fondazioni, e comunque destinato al comune godimento dei condomini, quale sede ispezionabile delle stesse fondazioni e delle fognature - al vano ottenuto da uno dei condomini nell'area sottostante l'appartamento di sua proprietà esclusiva, realizzato abusivamente con svuotamento di volume ed asportazione del terreno, e adibito a cantina (Cass. civ., sez. II, 26 maggio 2003, n. 8304).

Apertura comunicante

Negli edifici divisi per piani, il godimento delle cose, degli impianti e dei servizi comuni, a vantaggio dei piani o delle porzioni di piano in proprietà esclusiva, può attuarsi anche mediante l'imposizione su queste parti di veri e propri pesi a beneficio delle unità immobiliari: di pesi che, astrattamente considerati, darebbero luogo al sorgere di una relazione tra le cose che presenti le connotazioni della servitù; ma fino a che i partecipanti utilizzano le parti comuni accessorie secondo la usuale destinazione specifica a vantaggio delle unità immobiliari, vale a dire nell'ambito delle facoltà d'uso e di godimento inerenti al contenuto del diritto di condominio, non può certamente parlarsi di imposizione di servitù sulle cose comuni, posto che l'utilizzazione ed il relativo potere si giustificano, appunto, con il diritto di condominio (fattispecie nella quale si è ritenuto che l'apertura di due porte sui muri comuni per mettere in comunicazione l'unità immobiliare in proprietà esclusiva con l'intercapedine e con il garage comune non costituisce innovazione in senso tecnico - per cui non esige l'approvazione dell'assemblea dei condomini con la maggioranza qualificata - e non determina neppure la costituzione di una servitù) (Cass. civ., sez. II, 3 giugno 2003, n. 8830).

Camere isolanti

Le modifiche apportate dal condominio al vano terraneo in sua proprietà esclusiva, sotto forma di consolidamento e rafforzamento del piano di calpestio con massicciata più profonda, e perfino con creazione di camere isolanti, in relazione alla struttura, funzione e destinazione di siffatto vano, sono ai sensi dell'art. 1102 c.c., pienamente legittime, salvo che, determinando un abbassamento del livello di pavimentazione (per l'utilizzazione della maggior cubatura conseguente), diano luogo ad invasione del suolo comune; ai fini della relativa indagine, occorre accertare in concreto se tale suolo condominiale si identifichi con il piano di posa delle fondazioni dell'edificio, o il livello del piano comune sia più elevato rispetto a tale piano di posa per la struttura delle medesime, comportante la configurazione dello spessore del piano di calpestio come manufatto distinto dalle fondazioni e di proprietà (esclusiva) dei condomini dei piani terranei (Cass. civ., sez. II, 5 aprile 1984, n. 2206).

Guida all'approfondimento

De Tilla, Nel condominio le proprietà individuali non si espandono nel sottosuolo, in Immob. & diritto, 2006, fasc. 7, 22;

Pironti, Escavazione nel sottosuolo comune per ampliamento di un vano esclusivo, in Immob. & proprietà, 2005, 136;

Meo, Il regime condominiale del vespaio, in Nuovo dir., 2002, I, 792;

Sagna, Poteri e limiti del singolo condomino alla costruzione di un vano nel sottosuolo del fabbricato condominiale, in Nuovo dir., 2001, 818;

Branca, Sottosuolo con vespaio e sbancamento, in Foro it., 1978, I, 1380.

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