L’obbligo di repêchage nel caso di licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica o psichica del lavoratore e la tutela reintegratoria
07 Dicembre 2018
Massima
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo consistente sulla inidoneità del lavoratore deve ritenersi illegittimo qualora non sia stato rispettato l'obbligo datoriale di adibire lo stesso a mansioni compatibili con lo stato sopravvenuto di salute, con la conseguente applicabilità della tutela reintegratoria nella sua forma attenuata, come prevista dall'art. 18 comma 4, l. n. 300 del 1970. Il caso
Una lavoratrice agiva in giudizio per impugnare il licenziamento irrogatole per giustificato motivo oggettivo a seguito della sopravvenuta inidoneità allo svolgimento delle mansioni ascritte.
A fondamento della propria domanda, la lavoratrice sosteneva che il licenziamento intimatole fosse illegittimo in quanto il datore di lavoro, prima dell'intimazione del recesso, non aveva assolto all'obbligo di repêchage, non avendo preso in considerazione posizioni diverse, anche inferiori, alle quali adibirla.
La ricorrente, al riguardo, peraltro argomentava che la mancanza di posti di lavoro con mansioni idonee è, nel licenziamento per inidoneità fisica, fatto costitutivo stesso del recesso e pertanto, qualora non sia espletato l'obbligo di repêchage, il motivo addotto a giustificazione del licenziamento è da ritenersi del tutto insussistente con la conseguente applicazione della tutela reintegratoria.
La Corte di appello accoglieva parzialmente il ricorso, riconoscendo però alla dipendente soltanto la tutela indennitaria di cui all'art. 18, comma 5, l. n. 300 del 1970, sostenendo che la violazione dell'obbligo di repêchage non configura una ipotesi di manifesta infondatezza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Avverso tale decisione la lavoratrice proponeva unico motivo di ricorso per cassazione denunciando la violazione e la falsa applicazione dell'art. 18, comma 7, l. n. 300 del 1970. Le questioni
La questione in esame riguarda la tutela da garantire al lavoratore nel caso in cui venga illegittimamente licenziato a seguito della sopravvenuta inidoneità fisica o psichica senza preventivo espletamento dell'obbligo di repêchage.
In tale ipotesi, deve applicarsi la mera tutela indennitaria (come affermato dalla Corte territoriale) ovvero deve trovare applicazione la tutela reintegratoria attenuata prevista dall'art. 18, comma 4, l. n. 300 del 1970? Le soluzioni giuridiche
Per giurisprudenza oramai consolidata, nel caso in cui sia intervenuta una modifica delle condizioni fisiche o psichiche del lavoratore (preesistenti o sopravvenute) che determinino una inidoneità allo svolgimento delle mansioni, il datore di lavoro può procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Quale presupposto per la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo deve individuarsi la impossibilità del datore di lavoro di adibire il lavoratore ad una diversa attività lavorativa, compatibile sia con le condizioni del dipendente sia con l'organizzazione aziendale dell'imprenditore, senza cioè che possa pretendersi, in capo alla società, un obbligo di modificare il proprio assetto organizzativo al solo scopo del mantenimento del posto di lavoro (Cass. 7 marzo 2005, n. 4827).
Nel caso in cui il Giudice accerti, quindi, in conseguenza del provvedimento espulsivo, che lo stesso non è stato preceduto dalla verifica della sussistenza di mansioni compatibili con lo stato di salute (eventualmente sopravvenuto) del lavoratore, deve, pertanto, applicarsi la tutela reintegratoria attenuata, così come previsto dall'art. 18, comma 7, l. n. 300 del 1970, introdotto dall'art. 1, l. n. 92 del 2012. Tale norma prevede espressamente la reintegrazione nel caso in cui il giudice accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato per motivo oggettivo consistente nell'inidoneità fisica o psichica del lavoratore senza che possa sussistere in capo all'organo giudicante alcuna discrezionalità (Cass. 30 novembre 2015, n. 24377).
Tale tutela, come anticipato, si evince dal dettato letterale della disposizione sopra citata secondo cui “il giudice applica la medesima disciplina prevista al quarto comma dell'art. 18 nell'ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3 della l. n. 68/1999, per motivo oggettivo consistente nell'idoneità fisica o psichica del lavoratore”.
Conseguentemente, ne discende che in tutti i casi in cui il giudice accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo consistente nella inidoneità fisica o psichica del lavoratore – sia esso assunto come disabile ovvero nei casi in cui la inidoneità sia sopravvenuta – dovrà applicarsi la tutela reintegratoria attenuata.
Secondo la S.C., peraltro, non par dubbio che, alla luce del riferimento letterale della norma, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo in violazione dell'obbligo di repêchage sia qualificabile come ingiustificato.
Tale interpretazione, oltre ad essere confermata dall'orientamento pressoché univoco della giurisprudenza di legittimità (Cass. 7 marzo 2005, n. 4827), appare confermata anche dalla recente sentenza della S.C. (Cass. 2 maggio 2018, n. 10435) secondo cui è da ritenersi applicabile la sanzione della reintegra per manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento allorquando, valutata la nozione complessiva di giustificato motivo oggettivo così come elaborata dalla giurisprudenza, vi è la carenza di uno dei due presupposti previsti dalla legge per procedere al licenziamento di cui all'art. 3, l. n. 604 del 1966, e quindi pure per la sola impossibilità di una diversa utilizzazione del lavoratore licenziato in mansioni diverse.
Nel caso di mancato assolvimento dell'obbligo di repêchage, infatti, deve ritenersi integrata la assenza del presupposto di legittimità del recesso che giustifica la tutela reintegratoria nel caso di manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento.
Di contro, se si aderisse alla tesi sostenuta dalla Corte territoriale secondo cui dovrebbe trovare applicazione nel caso di specie la sola c.d. tutela indennitaria forte di cui all'art. 18, comma 5, l. n. 300 del 1970, si verterebbe non solo in un'ipotesi di contrasto con la previsione di legge, ma altresì con le tutele riconosciute in ambito internazionale ai lavoratori con disabilità (fra cui la direttiva n. 78/2000/CE del 27 novembre 2000 e la Convenzione sui diritti del disabile delle Nazioni Unite del 13 dicembre 2006).
Nello specifico, il solo ristoro indennitario determinerebbe una discriminazione del lavoratore disabile (anziché ad una sua maggiore protezione sul piano lavorativo, come invece dovrebbe essere in accordo, per l'appunto, ai principi di protezione del soggetto portatore di disabilità in ambito lavorativo) in quanto la violazione dell'obbligo di repêchage comporterebbe l'applicabilità della tutela reintegratoria nel caso di licenziamento per motivi economici, mentre tale tutela sarebbe preclusa in presenza di un lavoratore affetto da inidoneità fisica o psichica.
Discriminazione, questa, che, oltre a non essere conforme con la ratio della previsione normativa, secondo la S.C., contrasterebbe anche con la peculiare tutela riconosciuta dal diritto dell'Unione Europea ai lavoratori con disabilità che impone la parità di trattamento, tra prestatori normodotati e portatori di handicap, anche in ordine alle condizioni di licenziamento. Osservazioni
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa (art. 3, l. n. 604 del 1966).
Come noto, il giudice non può sindacare le scelte del datore di lavoro nell'organizzazione delle attività ma il datore di lavoro deve provare, affinché il licenziamento posto in essere sia legittimo, non solo l'effettività della soppressione lavorativa ma anche che il licenziamento sia l'extrema ratio in quanto il lavoratore non sarebbe utilizzabile in altri posizioni.
Nella nozione di giustificato motivo oggettivo, peraltro, rientrano anche tutte quelle vicissitudini inerenti al lavoratore che incidono sull'assetto organizzativo della struttura societaria.
Peculiare, al riguardo, è l'ipotesi della sopravvenuta inutilizzabilità della prestazione lavorativa che rende incompatibile la prosecuzione del rapporto di lavoro con il dipendente interessato.
L'ipotesi più frequente, in tal senso, è quella della sopravvenuta inidoneità del lavoratore.
Secondo quanto previsto dall'art. 4, comma 4, l. n. 68 del 1999, in tale ipotesi, infatti, il licenziamento del lavoratore per sopravvenuta inidoneità è attuabile solo se sia impossibile utilizzare il dipendente in mansioni equivalenti ovvero anche inferiori.
Ciò posto, appare opportuno ripercorrere brevemente quali sono i presupposti del licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica alla mansione contrattualmente pattuita al fine di evitare le conseguenze reintegratorie previste in caso di illegittimità del licenziamento posto in essere.
Al riguardo, come esaustivamente analizzato dal recente Trib. Milano, 25 ottobre 2017, n. 2449, la società deve primariamente “valutare l'idoneità del lavoratore a svolgere una mansione differente” e, accertate le residue capacità lavorative dello stesso, valutare, nell'ambito del bilanciamento degli interessi contrapposti coinvolti (lavoratore – datore di lavoro), “la reale possibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse ed equivalenti” nell'ambito dell'assetto organizzativo societario esistente. Successivamente, “laddove ciò non sia possibile, sarà quindi necessario valutare la possibilità di impiego del dipendente in mansioni dequalificanti, stante la preponderanza dell'interesse alla conservazione del posto di lavoro rispetto al divieto di dequalificazione”.
Il provvedimento di licenziamento deve essere intimato, quindi, soltanto all'esito di tale processo valutativo come extrema ratio ove non sia percorribile nessuna delle soluzioni sovra citate.
L'orientamento giurisprudenziale pressoché pacifico (ex multis, Cass., 10 marzo 2015, n. 4757), peraltro, ritiene illegittimo il provvedimento di recesso nel caso in cui il datore di lavoro non abbia provveduto all'accertamento dell'esistenza, nell'assetto organizzativo aziendale di mansioni diverse con conseguente applicazione, a tutela del lavoratore, dell'art. 18 comma 4, l. n. 300 del 1970.
La prova dell'immodificabilità dell'organizzazione aziendale, pertanto, rimane quindi l'ultima “vera” analisi che deve attuare il datore di lavoro prima di procedere con il licenziamento per giustificato motivo oggettivo in quanto, nel contemperamento dei vari interessi, non si può pretendere che il datore di lavoro modifichi la propria struttura aziendale per “ricollocare” il lavoratore. Sul punto, peraltro, era già intervenuta la S.C. (Cass. 28 ottobre 2008, n. 25883, secondo cui: "La sopravvenuta infermità permanente del lavoratore integra un giustificato motivo oggettivo di recesso del datore di lavoro solo allorché debba escludersi anche la possibilità di adibire il lavoratore ad una diversa attività lavorativa riconducibile - alla stregua di un'interpretazione del contratto secondo buona fede - alle mansioni già assegnate, o ad altre equivalenti e, subordinatamente, a mansioni inferiori, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell'impresa, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore. Peraltro, nel bilanciamento di interessi costituzionalmente protetti (artt. 4, 32 e 36, Cost.), non può pretendersi che il datore di lavoro, per ricollocare il dipendente non più fisicamente idoneo, proceda a modifiche delle scelte organizzative escludendo, da talune posizioni lavorative, le attività incompatibili con le condizioni di salute del lavoratore".
MINIMI RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI G. Amoroso – V. Di Cerbo – A. Maresca, Diritto del lavoro, Giuffrè, 2017, 1672. |