Conferimenti societari e criptovalute. Un binomio complicatoFonte: Cod. Civ. Articolo 2464
10 Dicembre 2018
Premessa
L'aumento di capitale sociale mediante conferimento in natura di beni rappresentati da criptovalute, pur astrattamente ammissibile, richiede sempre un'indagine sulla natura e le caratteristiche in concreto della singola criptovaluta oggetto di conferimento, al fine di determinarne l'assimilazione a un bene suscettibile di una valutazione economica attendibile in sede di perizia di stima (nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto legittimo il rifiuto, da parte del notaio, di provvedere all'iscrizione nel registro della delibera con cui l'assemblea di una s.r.l. ha aumentato il capitale sociale mediante conferimento di criptovalute, sul presupposto che quelle specifiche criptovalute, stante la loro volatilità, non consentivano una valutazione concreta dell'effettività del conferimento). (Trib. Brescia, Sez. spec. impresa, 18 luglio 2018)
Non è possibile assegnare alla criptovaluta – in assenza di un sistema di scambio idoneo a determinarne l'effettivo valore ad una data certa – un controvalore certo in euro, essendo a tal fine precluso anche il ricorso alla mediazione della perizia di stima. Pertanto, poiché la moneta virtuale non presenta i requisiti minimi per poter essere assimilata a un bene suscettibile in concreto di una valutazione economica attendibile, non sussistono i presupposti per l'iscrizione nel Registro delle Imprese della delibera di aumento di capitale mediante conferimento di criptovalute. (App. Brescia, Sez. spec. impresa, 24 ottobre 2018) La vicenda processuale
Una società a responsabilità limitata deliberava di aumentare il proprio capitale sociale da €. 10.000,00 ad €. 1.410.000,00 mediante conferimento in natura, in parte, di talune opere d'arte e, in parte, di un certo numero di unità della criptovaluta denominata “One Coin”. Il notaio, tuttavia, riteneva la deliberazione non «sufficientemente dotata dei requisiti di legittimità per ordinarne una immediata e incondizionata iscrizione» nel registro delle imprese, censurando, in particolare, il conferimento della moneta virtuale, con riferimento al quale egli rappresentava che le criptovalute, stante la loro volatilità, «non consentono una valutazione concreta del quantum destinato alla liberazione dell'aumento di capitale sottoscritto» né di valutare «l'effettività (quomodo) del conferimento». L'amministratore unico della società interessata proponeva, dunque, ricorso ai sensi del terzo comma dell'art. 2436 c.c. con il quale chiedeva al tribunale di ordinare l'iscrizione nel registro delle imprese all'uopo evidenziando, tra l'altro, che: la perizia esibita in sede di conferimento aveva confermato il valore, quale bene, della criptovaluta; il conferente aveva provveduto al trasferimento della disponibilità della moneta virtuale in capo alla società; la stessa agenzia delle entrate consente di attribuire valore economico alle criptovalute; se è vero che possono costituire oggetto di conferimento i crediti e taluni beni immateriali, non sussistono ragioni ostative alla liceità del conferimento delle criptovalute; la criptovaluta denominata “One Coin” è una moneta virtuale scambiata su mercati non regolamentati soggetta alla valutazione da parte di operatori specializzati. Il Tribunale di Brescia, con decreto 25 luglio 2018 (che può leggersi su questo Portale, con nota di F. Bartolini, Requisiti della criptovaluta, ex art. 2464, comma 2, c.c., ai fini del conferimento nel capitale sociale di una s.r.l., nonché in Notariato, 2018, 663 con nota di M. Krogh, L'aumento di capitale nelle s.r.l. con conferimento di criptovalute)rigettava il ricorso con una decisione confermata, sebbene con una motivazione diversa, dalla Corte di appello della medesima città a seguito della impugnazione proposta dalla società.
Come appena evidenziato, sia il Tribunale che la Corte di appello di Brescia sono pervenuti al rigetto del ricorso proposto dalla società avverso al rifiuto dell'iscrizione da parte del notaio: tuttavia, i due organi giudicanti hanno seguito percorsi argomentativi significativamente diversi che, ai fini della successiva analisi, appare opportuno richiamare. Il Tribunale - se, da un lato, non affronta la questione concernente la astratta idoneità della categoria di beni rappresentata dalle c.d. “criptovalute” a costituire elemento dell'attivo idoneo al conferimento nel capitale di una società a responsabilità limitata - ritiene che il bene concretamente conferito, la criptovaluta denominata “One Coin”, non soddisfa il requisito di cui al secondo comma dell'art. 2464 c.c. Il giudicante dapprima individua i requisiti fondamentali di qualunque bene al conferimento: 1) nella idoneità a essere oggetto di valutazione, in un dato momento storico (prescindendosi dall'ulteriore problematica connessa alle potenziali oscillazioni del valore); 2) nell'esistenza di un mercato del bene in questione, presupposto di qualsivoglia attività valutativa, che impatta poi sul grado di liquidità del bene stesso e, quindi, sulla velocità di conversione in denaro contante; 3) nella idoneità del bene a essere “bersaglio” dell'aggressione da parte dei creditori sociali, ossia l'idoneità a essere oggetto di forme di esecuzione forzata. Il tribunale precisa, poi, che tali requisiti devono essere specificatamente indicati nella relazione di stima di cui all'art. 2465 c.c., tanto che, se pure deve escludersi che il giudice possa sostituire integralmente la propria valutazione di merito a quella dell'esperto, deve necessariamente ammettersi la facoltà per il giudice di sindacare la completezza, logicità, coerenza e ragionevolezza delle conclusioni raggiunte dall'esperto. Ebbene, nel caso sottoposto alla attenzione del tribunale, la perizia di stima prodotta non presentava un livello di completezza e affidabilità sufficiente per consentire un esauriente vaglio di legittimità della delibera in esame. In particolare, come evidenziato dal giudicante, la valuta virtuale denominata “one coin” non è ad oggi presente in alcuna piattaforma di scambio tra criptovalute ovvero tra criptovalute e monete aventi corso legale, con la conseguente impossibilità di fare affidamento su prezzi, determinati dalle dinamiche di mercato, attendibili. Tale criptovaluta risulta scambiata in un unico mercato costituito da una piattaforma dedicata alla fornitura di beni e servizi riconducibile ai medesimi soggetti ideatori della criptovaluta, nel cui ambito funge da mezzo di pagamento accettato. L'autoreferenzialità della moneta e, dunque, dell'elemento dell'attivo conferendo è incompatibile con il livello di diffusione e pubblicità di cui deve essere dotata una moneta virtuale che aspira a detenere una presenza effettiva sul mercato. Inoltre, quanto alla idoneità del bene a essere oggetto di aggressione da parte dei creditori, manca, ad avviso del tribunale, nella perizia qualunque riferimento alle modalità di esecuzione di un ipotetico pignoramento della criptovaluta oggetto di conferimento, profilo da ritenere decisamente rilevante nella fattispecie, alla luce della notoria esistenza di dispositivi di sicurezza ad elevato contenuto tecnologico che potrebbero, di fatto, renderne impossibile l'espropriazione senza il consenso e la collaborazione spontanea del debitore. In definitiva, secondo il Tribunale, emerge una moneta virtuale ancora in fase sostanzialmente embrionale che - allo stato - non presenta i requisiti minimi per poter essere assimilata a un bene suscettibile, in concreto, di una valutazione economica attendibile.
La soluzione accolta dalla Corte di appello di Brescia, sebbene analoga nelle sue conclusioni, differisce assai quanto a contenuto delle motivazioni. La Corte ha inteso riconsiderare la stessa premessa giuridica da cui muoveva il Tribunale e, in particolare, l'astratta idoneità della criptovaluta a costituire un elemento dell'attivo idoneo al conferimento nel capitale di una società a responsabilità limitata, muovendo, invece, la propria argomentazione dall'esame della funzione di pagamento che, al pari del denaro, assume la criptovaluta, con la conseguenza che la seconda, proprio sul piano funzionale, può essere assimilata al primo, ancorché, strutturalmente, presenti caratteristiche proprie dei beni mobili: la criptovaluta, al pari della moneta avente corso legale (euro), serve per fare acquisti, sia pure non universalmente, ma in un mercato limitato, ed in tale ambito opera quale marcatore (cioè quale contropartita), in termini di valore di scambio, dei beni, servizi, o altre utilità ivi oggetto di contrattazione. L'effettivo valore economico della “criptovaluta” non può in conseguenza determinarsi con la procedura di cui al combinato disposto dei due artt. 2464 e 2465 c.c. - riservata a beni, servizi ed altre utilità, diversi dal danaro - non essendo possibile, per le ragioni sopra esposte, attribuire valore di scambio ad un'entità essa stessa costituente elemento di scambio (contropartita) nella negoziazione. Non è, d'altro canto, dato conoscere, allo stato, un sistema di cambio per la “criptovaluta”, che sia stabile ed agevolmente verificabile, come per le monete aventi corso legale in altri Stati (dollaro, yen, sterlina etc.). Discende che non è, pertanto, possibile assegnare alla criptovaluta un controvalore certo ed effettivo in euro, essendo a tal fine precluso, per le ragioni sopra esposte, il ricorso alla mediazione della perizia di stima. Secondo la Corte, in conclusione, va condivisa l'affermazione del notaio secondo il quale «le criptovalute, attesa la loro volatività, non consentono di una valutazione concreta del quantum destinato alla liberazione dell'aumento di capitale sottoscritto».
Il funzionamento delle criptovalute
Le decisioni in commento, e in particolare la diversità delle motivazioni ad esse sottese, manifestano plasticamente le difficoltà - ad oggi irrisolte e, probabilmente, irrisolvibili sulla base dei principi generali ed in assenza di un intervento del legislatore - concernenti l'inquadramento giuridico delle criptovalute. La principale moneta virtuale è il Bitcoin la cui ideazione risale al 2009 per opera di Satoshi Nakamoto (probabilmente uno pseudonimo sotto il quale si cela un gruppo di lavoro): da quella data, tuttavia, sono innumerevoli le monete virtuali create ed utilizzate in mercati più o meno estesi. In via di prima approssimazione (e evidenziato che ciascuna valuta virtuale segue le regole dettate dai propri ideatori), le criptovalute sono valute virtuali generate attraverso protocolli informatici senza la necessità di ricorrere ad autorità centrali (quali banche o autorità governative) per il loro controllo ed emissione, e liberamente scambiabili tra gli utenti del circuito monetario virtuale afferente senza l'ausilio di intermediari. La criptovaluta è utilizzabile attraverso lo scambio di un «valore» (così, almeno, percepito dalla «comunità» che lo accetta) attraverso una tecnologia peer-to-peer, la quale prevede una serie di nodi consistenti in computer di utenti disseminati in tutto il mondo. In questo sistema, il trasferimento dei valori avviene tra portafogli virtuali e ogni transazione viene inclusa nella c.d. blockchain (catena di blocchi), utilizzando un sistema di crittografia asimmetrica che crea indirizzi di lunghezza arbitraria (Razzante, 383). La criptovaluta rappresenta, dunque, un protocollo, un insieme di regole che servono a definire il funzionamento del software utilizzato dal network di computer, collegati fra loro con lo scopo di creare e gestire la valuta digitale e che consentono pagamenti online tra due soggetti (che quel sistema evidentemente accettano) senza la necessità della intermediazione di un ente finanziario. Il network peer to peer - mediante l'utilizzo delle firme digitali - «marca» temporalmente ogni transazione e le posiziona in una catena continua di prove di lavoro (proof-of-work) che salvaguarda dalla contraffazione digitale formando un registro, di fatto, immodificabile, quale è la blockchain (Cecchetto, 7; sul punto, anche Krogh, 669 ss.; De Stasio, 756 ss.). La blockchain altro non è, quindi, che un registro pubblico di tutte le transazioni in criptovalute, contenute in blocchi ordinati cronologicamente e collegati tra loro. Il blocco è un file in cui sono contenute una serie di informazioni, tra cui: numero del blocco, codice hash, data e ora di creazione, transazioni confermate nel blocco, unità di moneta virtuale movimentate e dimensioni del blocco. Tutti i dati relativi ai blocchi (e alla blockchain) sono memorizzati e distribuiti su computer degli utenti che partecipano ad un determinato network (ad es., bitcoin), organizzato in modo decentralizzato e paritario, così che ogni nodo è in grado di comunicare direttamente con gli altri senza dover passare da un server centrale (Cecchetto, 7-8). La moneta virtuale circola attraverso il sistema della doppia chiave, una chiave privata, assolutamente segreta e conosciuta dal solo titolare della chiave stessa, e da una chiave pubblica associata alla chiave privata; le transazioni finanziarie risultano trasparenti e tracciabili esclusivamente tra le chiavi pubbliche. Le chiavi private, associate alle chiavi pubbliche, sono create in modo del tutto anonimo ed automaticamente dal sistema che le gestisce; su ogni chiave privata possono essere caricati i bitcoin acquistati all'interno del sistema o donati (così, esattamente, Krogh, 672). I bitcoin sono gestiti dall'utilizzatore attraverso un portafoglio digitale (e-wallet), installato su di un personal computer o su di un dispositivo mobile dal quale è possibile eseguire il pagamento della merce o del servizio acquistato: la blockchain registra le credenziali digitali del portafoglio elettronico dal quale è disposto l'ordine di pagamento e i dati del portafoglio digitale del beneficiario (Rubino De Ritis, Bitcoin: una moneta senza frontiere e senza padrone?, 4). Inoltre, almeno per il caso dei bitcoin e delle altre monete virtuali maggiormente diffuse (ma non per tutte le criptovalute) esiste una piattaforma multimediale di scambio dove la domanda di chi è disposto ad acquistare bitcoin e l'offerta di chi è disposto a venderne s'incontrano; parallelamente, è possibile trasformare il valore digitale in proprio possesso in moneta avente corso legale attraverso il successivo accredito in conto corrente (anche non) personale delle somme di danaro convertita; oppure attraverso trattative private tra gli utenti (Rubino De Ritis, Bitcoin: una moneta senza frontiere e senza padrone?, ivi). Essendo create da soggetti privati che operano sul web, le valute virtuali non devono essere confuse con i tradizionali strumenti di pagamento elettronici (carte di debito, carte di credito, bonifici bancari, carte prepagate e altri strumenti di moneta elettronica, ecc.) e con la moneta elettronica che fa riferimento, invece, al valore monetario memorizzato elettronicamente, rappresentato da un credito nei confronti dell'emittente che sia emesso per effettuare operazioni di pagamento: in tal caso, infatti, il valore memorizzato elettronicamente è, pur sempre, un valore monetario, espresso, cioè, in una unità di conto avente corso legale (De Stasio, 753). Al contrario, le criptovalute non rappresentano in forma digitale le comuni valute a corso legale (euro, dollaro, ecc.); non sono emesse o garantite da una banca centrale o da un'autorità pubblica e generalmente non sono regolamentate.
Pur in assenza di una compiuta normativa emanata dai legislatori nazionali, diverse autorità, nazionali ed estere, sono intervenute se non per disciplinare compiutamente il fenomeno, quanto meno per svolgere una sorta di lavoro di catalogazione. Secondo la Banca d'Italia (Avvertenza sull'utilizzo delle cosiddette “valute virtuali”, ma l'elencazione è stata poi ripresa dalla dottrina che si è occupata del problema, cfr., Bocchini, 27; Iemma-Cuppini, 2), le criptovalute presentano le seguenti caratteristiche: 1) sono create da un emittente privato (nel caso delle cc.dd. valute centralizzate) o, in via diffusa, da utenti che utilizzano software altamente sofisticati (nel caso delle cc.dd. valute decentralizzate); 2) non sono fisicamente detenute dall'utente, ma sono movimentate attraverso un conto personalizzato noto come “portafoglio elettronico” (cd. e-wallet), che si può salvare sul proprio computer o su uno smartphone, o che può essere consultato via internet, al quale si accede grazie ad una password. Questi portafogli elettronici sono generalmente software, sviluppati e forniti da appositi soggetti (c.d. wallet providers). Esistono poi delle piattaforme di scambio, che offrono il servizio di conversione delle valute virtuali convertibili in moneta legale; 3) possono essere acquistate con moneta tradizionale su una piattaforma di scambio ovvero ricevute online direttamente da qualcuno che le possiede, per poi essere detenute su un “portafoglio elettronico”; utilizzando questo portafoglio i titolari possono effettuare acquisti presso esercizi commerciali o persone fisiche che accettano le valute virtuali, effettuare rimesse in favore di altri soggetti titolari di portafogli di valute virtuali, nonché riconvertirle in moneta legale; 4) i titolari dei portafogli elettronici e i soggetti coinvolti nelle transazioni rimangono anonimi; 5) le transazioni tramite le quali vengono trasferite sono tecnicamente irreversibili (una volta fatta la transazione non è possibile chiederne l'annullamento). Secondo la definizione offerta dalla Banca d'Italia (Avvertenza sull'utilizzo delle cosiddette “valute virtuali”, cit.), le c.d. valute virtuali sono rappresentazioni digitali di valore, utilizzate come mezzo di scambio o detenute a scopo di investimento, che possono essere trasferite, archiviate e negoziate elettronicamente. Alcuni esempi sono Bitcoin, LiteCoin, Ripple.
Per parte sua, la Banca Centrale Europea (Virtual currency schemes - A further analysis, febbraio, 2015) ha individuato tre tipi di criptovalute e, precisamente: 1) moneta virtuale chiusa, non convertibile in moneta legale, spendibile solo all'interno di un circuito virtuale; 2) moneta virtuale unidirezionale, non convertibile in moneta reale, spendibile per il pagamento di beni e servizi online e, in alcuni casi, beni e servizi reali; 3) moneta virtuale bidirezionale che può essere acquistata e riconvertita in moneta legale senza alcun vincolo ;. Tale definizione si rinviene, altresì, anche nelle classificazioni operate da autorità straniere. Ad es., secondo la Securities and Exchange Commission (SEC), «una valuta virtuale è una rappresentazione digitale di valore che può essere scambiata digitalmente e funziona come mezzo di scambio, unità di conto o riserva di valore. Token o monete virtuali possono rappresentare anche altri diritti. Di conseguenza, in determinati casi, i token o le monete saranno strumenti finanziari e non potranno essere venduti legalmente senza registrazione presso la SEC o in base ad un'esenzione».
La definizione offerta dalla Banca d'Italia è stata, in qualche modo, recepita dal legislatore. Infatti, quest'ultimo è intervenuto, nell'ambito della disciplina antiriciclaggio, con il d.lgs. 25 maggio 2017, n. 90 che ha modificato il d.lgs., 21 novembre 2007, n. 231. L'art. 1, comma 2, lett. qq) definisce la valuta virtuale come la rappresentazione digitale di valore, non emessa da una banca centrale o da un'autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l'acquisto di beni e servizi e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente. Per converso, sono (art. 1, comma 2, ff) prestatori di servizi relativi all'utilizzo di valuta virtuale ogni persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, servizi funzionali all'utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valuta virtuale e alla loro conversione da ovvero in valute aventi corso legale. Come si vede, sia diverse autorità nazionali ed internazionali sia il legislatore, pur tentando di «descrivere» i fenomeni connessi alle criptovalute, hanno evitato di prendere posizione in ordine alla natura giuridica di esse, con la conseguenza che ancora oggi, pure a fronte di una crescita esponenziale del fenomeno, tanto riguardo al numero di valute virtuali esistenti quanto al volume d'affari conseguente al loro utilizzo, permangono intatte le incertezze relative al loro inquadramento giuridico. Non è possibile, in questa sede, dare conto in modo approfondito di tutte le soluzioni proposte dalla dottrina che, nel volgere di pochi mesi, si è occupata del tema, soluzioni che spaziano dalla qualificazione delle criptovalute come moneta vera e propria, come bene giuridico ai sensi dell'art. 810 c.c., come strumento finanziario, come mezzo di pagamento e, infine, come documento informatico. A ben vedere, però, ciascuno di questi inquadramenti non si presenta del tutto appagante a spiegare, in modo completo, il fenomeno (di cui, normalmente, si coglie soltanto un aspetto). Secondo alcuni, le criptovalute, almeno nelle forme (e nei casi) maggiormente evoluti, rappresenterebbero un valore trasferibile per via telematica e convertibile in moneta legale, ciò essendo sufficiente a considerarle una nuova forma di emissione di moneta, priva di un supporto metallico o cartaceo, comunque in grado di trasferire un potere d'acquisto sotto forma di disponibilità finanziaria (così, Rubino De Ritis, Obbligazioni monetarie in criptomoneta). In senso contrario, si è segnalato che, ad oggi, la moneta virtuale non potrebbe essere inquadrata a tutti gli effetti come «moneta» sia a volere accedere alla concezione statalistica della moneta sia ad aderire alla concezione funzionale. Secondo la prima teoria, infatti, soltanto lo Stato può creare, sotto la propria autorità, la moneta attribuendole il potere liberatorio delle obbligazioni pecuniarie (corso legale) e l'impossibilità per il creditore di rifiutarla come mezzo di pagamento (corso forzoso): ebbene, essendo la moneta virtuale priva del potere liberatorio delle obbligazioni (non essendo stati riconosciute in via formale da alcuno stato), essa non potrebbe assurgere ad essere equiparata alla moneta (Iemma-Cuppini, 6; Bocchini, 28). Secondo la teoria economica che definisce la moneta in termini funzionali, la moneta assolve tre funzioni: (i) mezzo di scambio; (ii) riserva di valore (ha l'attitudine ad assicurare la conservazione nel tempo del proprio potere di acquisto, potendo essere oggetto di risparmio per la spendita futura); e (iii) unità di conto (costituisce lo strumento di misurazione del valore dei beni, dei servizi e di altri attivi patrimoniali). Ebbene, anche in tal caso, la circostanza che l'utilizzo solamente su basi convenzionali (come si vedrà nel prosieguo) e, allo stato attuale, il limitato livello di accettazione tra il pubblico, unitamente alla elevatissima volatilità del valore, rendono difficile un inquadramento delle criptovalute come moneta (Iemma-Cuppini, 6; più possibilista, Bocchini, 29, almeno con riferimento ai bitcoin, secondo il quale sarebbero perseguibili le funzioni di mezzo di scambio e di unità di misura). In questa prospettiva, si evidenzia come la criptovaluta non adempia alla funzione di «unità di conto», in quanto in nessun paese i bilanci delle imprese vengono redatti in unità di conto diverse da quelle dello Stato; parimenti, nessuno Stato accetta pagamenti di tributi in moneta virtuale non emessa da una banca centrale (così, De Stasio, 757). Incerta appare, poi, la qualificazione delle monete virtuali come bene giuridico ai sensi dell'art. 810 c.c. in quanto, da un lato, esse non sono né beni materiali, esistendo nella realtà, se non come sequenza numerica su di un computer, né beni immateriali, in ragione dell'inesistenza di una norma che le riconosca come tali e del conseguente contrasto con il principio di tipicità di tali beni (Iemma-Cuppini, 7; Bocchini, 30; Razzante, 383). Ancora, è stato proposto di qualificare la moneta virtuale come un documento informatico ai sensi del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, in quanto recante dati ed informazioni giuridicamente rilevanti e sottoscritto da una progressione di firme elettroniche attestanti, con una sorta di catena di diritti, l'avvenuta validazione della legittimazione al perfezionamento di una certa transazione. Tuttavia, tale orientamento non coglie il valore economico sottostante che, peraltro, costituisce l'essenza dell'utilizzo della criptovaluta. Infine, risulta riduttiva anche la considerazione come strumenti (recte, prodotto) finanziario (come vorrebbe Trib. Verona, 24 gennaio 2017, in Banca, borsa, tit. cred., 2017, II, 467, con nota di Passeretta). Se è vero che i bitcoin, così come molti altri beni, possono essere utilizzati come riserva di valore e come forma di investimento, è anche vero che essi sono nati per procedere allo scambio di beni e servizi.
Le criptovalute, il fondamento «pattizio» del loro utilizzo e la compatibilità con il diritto societario
A prescindere dal corretto inquadramento del fenomeno, è certo che, allo stato, le valute virtuali non hanno corso legale e, pertanto, non devono per legge essere obbligatoriamente accettate per l'estinzione delle obbligazioni pecuniarie. Nulla osta, però, che esse possano essere utilizzate per acquistare beni o servizi nel caso in cui il venditore o il prestatore dei servizi sia disponibile ad accettarle. In altre parole, mentre la moneta avente corso legale si impone a tutti con la conseguenza che il pagamento eseguito con essa non è utilmente rifiutabile dal creditore (art. 1277 c.c.) e la sua misura è vincolata ad un valore economico legale determinato da un referente oggettivo, l'utilizzo della criptovaluta deriva, dipendendone, esclusivamente da una fonte pattizia, nel senso che le parti di uno scambio si obbligano reciprocamente ad eseguire e, dunque, ad accettare un determinato pagamento attraverso la dazione della moneta virtuale. Come è stato efficacemente affermato (Onza, 701), si «prescinde da qualunque rappresentazione o movimentazione di moneta avente corso legale essendo, appunto, il “corso”, la qualificazione non “legale” ma solo pattizia, frutto di una convenzione (nella forma dell'adesione ad un sistema “aperto” e poi elettronico) tra i partecipanti. In questa prospettiva, manca il riconoscimento della moneta da parte di un terzo, essendo il bitcoin destinatario di un potere di acquisto pattiziamente (ma non arbitrariamente) riconosciuto e, così, opponibile e “consumabile” solo tra chi pattiziamente lo riconosce: l'Autorità della “qualificazione” è pattizia, rendendo evidente la rilevanza della “percezione” dell'affidabilità della funzione solutoria del sistema; e legittimando una ricostruzione del pagamento con bitcoin quale datio in solutum tra aderenti ad un contratto plurilaterale normativo». In definitiva, sulla base di una specifica convenzione (e soltanto sulla base di essa), l'accettazione in pagamento di monete virtuali deve ritenersi ammessa (Rubino De Ritis, Obbligazioni pecuniarie in criptomoneta, par. 4). D'altra parte, come visto, la stessa Banca d'Italia, nelle sue avvertenze più volte richiamate, ha evidenziato che «l'utilizzo e l'accettazione in pagamento delle valute virtuali debbono allo stato ritenersi attività lecite; le parti sono libere di obbligarsi a corrispondere somme anche non espresse in valute aventi corso legale». Peraltro, nel dibattito in ordine alla possibilità di qualificare le valute virtuali come mezzo di pagamento (lecito) è intervenuta anche la Corte di Giustizia (sent. 22 ottobre 2015, nella causa C-264/2014, Skatteverket c. David Hedqvist) che ha affermato che le operazioni relative a valute non tradizionali, vale a dire diverse dalle monete con valore liberatorio in uno o più paesi, costituiscono operazioni finanziarie, in quanto tali valute siano state accettate dalle parti di una transazione quale mezzo di pagamento alternativo ai mezzi di pagamento legali e non abbiano altre finalità oltre a quella di un mezzo di pagamento. Se non vi sono dubbi in ordine alla liceità dell'uso della moneta virtuale nell'ambito di uno scambio tra soggetti che quell'uso hanno pattiziamente accettato, maggiori criticità emergono laddove la dazione di esse coinvolge non solo e non tanto la posizione delle parti di uno scambio, ma, soprattutto, la posizione dei terzi. Tale ipotesi si verifica allorquando la moneta virtuale diviene oggetto, tanto in sede di costituzione che in sede di aumento di capitale, di conferimento in una società di capitali. Come è noto, il capitale sociale esprime il valore in denaro della somma dei conferimenti: esso assume, tra le altre, una funzione vincolistica di garanzia dei creditori sociali, poiché indica il valore delle attività patrimoniali che i soci si sono impegnati a non distrarre dall'attività di impresa e che non possono ripartirsi durante la vita della società, ciò che si risolve in un margine di garanzia patrimoniale supplementare per i creditori che possono fare affidamento su un attivo patrimoniale eccedente le passività. In questa prospettiva, il capitale sociale assume un ruolo informativo per i terzi, consentendo al mercato, quantomeno sotto il profilo patrimoniale, di disporre di un indice di valutazione di un'impresa. Pertanto, posto che la disciplina legale si preoccupa di assicurare l'effettività e l'integrità del capitale sociale, occorre valutare se quei principi siano garantiti nell'ipotesi, oggetto dei provvedimenti in commento, di conferimento di criptovalute. Anticipando quanto si evidenzierà nel prosieguo, non è possibile, allo stato attuale, fornire una risposta netta e ciò sia in ragione dell'intrinseca ambiguità del fenomeno “criptovalute” sia in ragione dell'assenza di una normativa legale che ponga le basi ed i limiti del loro utilizzo.
Conferimenti in denaro e conferimenti in natura
Come già evidenziato, mentre il Tribunale - pur consapevolmente non ponendosi il problema dell'astratta conferibilità di monete virtuali - aveva qualificato quel conferimento come conferimento in natura, la Corte di appello ha equiparato la criptovaluta alla moneta reale. A questo punto, non ci si può esimere dal muovere dalla distinzione tra conferimenti in denaro ed in natura. Secondo la dottrina, nella categoria dei conferimenti in danaro devono essere inquadrate tutte - ma solo - le ipotesi in cui l'oggetto del conferimento sia rappresentato da strumenti monetari: quelli cioè che, limitandosi ad esprimere il valore di altri beni in ragione del proprio valore nominale, non si prestano, proprio per ciò, ad essere a loro volta valutati (Ferri, 761). Al contrario, rientrano nella categoria residuale dei conferimenti in natura tutti quei conferimenti aventi ad oggetto entità diverse dagli strumenti monetari e, dunque, le monete straniere, i titoli di stato e gli altri strumenti del mercato monetario, poiché tali ipotesi presentano tutte, accanto al valore nominale, un valore reale (di ammontare in via di principio diverso dal primo), del quale si tratterà allora di determinare l'importo all'esito di una apposita valutazione, al pari di quanto accade in ordine ad ogni altro conferimento in natura (Ferri, 762). In altre parole, per danaro deve intendersi esclusivamente la moneta legale o la moneta bancaria in senso stretto espressa nella valuta nazionale dell'euro, se il capitale nominale non è espresso in altra valuta. L'idoneità del denaro a fungere da misura del valore (senza necessità che si ponga il problema di un suo diverso “valore d'uso” che coincide con il “valore di scambio”) spiega la sua piena idoneità a costituire il capitale reale, come perfetto pendant della cifra del capitale nominale al passivo. Essendo il capitale nominale al passivo espresso normalmente nella valuta nazionale, conferimenti in valuta diversa da quello in cui è espresso il capitale nominale ed il bilancio andrebbero assoggettati alle ben diverse regole del conferimento in natura, mediante stima ed integrale liberazione, ovvero “cambiati”, nel solo caso (attualmente teorico) di valute la cui conversione in euro avvenga a un tasso legale fisso (De Stasio-Nuzzo, 357).
Le criptovalute tra conferimenti in danaro e conferimenti in natura
Come già ampiamente evidenziato, la Corte di appello ha ritenuto che la criptovaluta deve essere considerata, con riguardo al profilo funzionale, come moneta essendo destinata allo scambio di beni e di servizi. Tuttavia, in assenza di un sistema di scambio idoneo a determinare l'effettivo valore ad una data determinata, non è possibile ad essa attribuire, da un lato, un controvalore in euro e, di conseguenza, una valutazione concreta del quantum destinato alla liberazione dell'aumento di capitale sottoscritto. La motivazione della Corte di appello non appare convincente, risultando in qualche modo contraddittoria. Infatti, già l'assimilazione, «a tutti gli effetti», tra criptovaluta e denaro è smentita dall'art. 1, comma 2, lett. o) d.lgs., 21 novembre 2007, n. 231 che definisce come denaro contante «le banconote e le monete metalliche, in euro o in valute estere, aventi corso legale». Ma anche a tralasciare questo aspetto definitorio, non è chiaro se, data per ammessa l'assimilazione sopra richiamata, la Corte abbia ritenuto non conferibile la criptovaluta, intesa quale denaro, in astratto ovvero soltanto con riferimento alla criptovaluta oggetto del caso di specie. Infatti, la corte si limita ad annotare che «non è (…) possibile assegnare alla criptovaluta - in assenza di un sistema di scambio idoneo a determinare l'effettivo valore ad una certa data - un controvalore certo in euro, essendo a tal fine precluso, per le ragioni sopra esposte, il ricorso alla mediazione della perizia di stima». Non è chiara, dunque, la soluzione che la Corte avrebbe adottato ove l'oggetto di quel conferimento fosse stato un determinato numero di bitcoin che, al contrario, hanno tassi di conversione in valute legali regolamentati in mercati ufficiali (come correttamente nota Krogh, 674). Sotto altro profilo, l'argomentazione della Corte è, in qualche modo, tautologica poiché - anche a volere ammettere che la criptovaluta sia assimilabile alla valuta - proprio l'assenza di un sistema di «cambio» imponeva al collegio di vagliare comunque l'astratta conferibilità di essa come «valore dell'attivo» stimabile attraverso appunto la perizia. D'altra parte, come visto nel precedente paragrafo, se le valute straniere possono costituire l'oggetto di un conferimento in natura, nulla dovrebbe ostare a che, una volta parificata, sotto il profilo funzionale, moneta avente corso legale e moneta virtuale, possa pervenirsi al conferimento di questa ultima attraverso un procedimento di stima. In questa prospettiva, una volta che il legislatore ha (d.lgs., 21 novembre 2007, n. 231, art. 1, comma 2, lett. qq.) definito la valuta virtuale come la «rappresentazione digitale di valore» - e, peraltro, neppure «necessariamente collegata a una valuta avente corso legale» - utilizzata come mezzo di scambio per l'acquisto di beni e servizi e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente, l'impossibilità di conferire moneta virtuale dovrebbe trovare basi più solidi che non la semplice assenza di un sistema di cambio. In altre parole, l'assenza di un sistema di cambio, se da una parte può impedire la qualificazione del conferimento come eseguito in danaro, dall'altra, non impedisce tout court la possibilità che quella rappresentazione digitale di valore possa essere essa stessa oggetto di un conferimento in natura. Più lineare - seppure nella assoluta problematicità che circonda la tematica - la motivazione del tribunale di Brescia secondo il quale, presupposta l'ascrivibilità astratta di un simile conferimento alla categoria dei conferimenti in natura, quella specifica criptomoneta (“one coin”): 1) non è ad oggi presente in alcuna piattaforma di scambio tra criptovalute ovvero tra criptovalute e monete aventi corso legale; 2) risulta scambiata in un unico mercato riconducibile ai medesimi soggetti ideatori della criptovaluta; 3) non appare idonea ad essere oggetto di aggressione da parte dei creditori. Orbene, prescindendo dalla specificità del caso concreto, occorre domandarsi se la soluzione del tribunale sarebbe stata diversa nel caso in cui oggetto del conferimento fosse stata una criptovaluta (ed il pensiero non può che rivolgersi nuovamente al bitcoin), diffusa su larga scala e che risulta scambiabile con moneta avente corso legale secondo un rapporto di cambio. Appare evidente, infatti, che i dubbi indicati ai punti 1) e 2) sarebbero, in questo caso, certamente (e verrebbe da dire, facilmente) superabili. Resterebbe, invece, da esaminare la questione sotto il profilo della possibile aggressione da parte dei creditori. Limitando il discorso al solo tipo della società a responsabilità limitata, è noto che, ai sensi dell'art. 2464 c.c., possono essere oggetto di conferimento «tutti gli elementi dell'attivo suscettibili di valutazione economica». La suscettibilità di valutazione economica va interpretata come idoneità a rappresentare un valore non solo per i soci, ma anche per i terzi, misurabile secondo parametri il più possibili oggettivi (Zanarone, 217; Avagliano, 82). Secondo un primo orientamento, vi sarebbe coincidenza tra valutazione economica ed espropriabilità dei beni conferibili, dovendosi considerare valutabile economicamente solo ciò che possa essere oggetto di esecuzione forzata. Una simile ricostruzione, sbilanciata sulla funzione di garanzia del capitale, sembra superata dallo stesso art. 2464 c.c. laddove si ammette la conferibilità di opere e servizi: in questa prospettiva, la suscettibilità di valutazione economica va intesa, come è stato autorevolmente evidenziato, «quale sinonimo di alienabilità, vuoi forzosa che volontaria, vale a dire come possibilità che il bene conferito venga comunque convertito in denaro da destinarsi a sua volta a soddisfare i creditori: e ciò non solo in via diretta attraverso un processo esecutivo attivato da questi ultimi ma anche in via indiretta attraverso l'iniziativa della stessa società, abbia essa ad oggetto l'alienazione autonoma del singolo bene (non sempre possibile come nel caso dell'avviamento, della ditta, dei marchi) oppure l'alienazione dell'intero complesso aziendale in cui il medesimo è inserito» (Zanarone, 218). Va, quindi, verificata la compatibilità tra i principi ora indicati ed il conferimento di criptovalute. Ora, se è vero che il concetto espresso dall'art. 2464 c.c. non si risolve nella espropriabilità del bene (conferito), tuttavia, occorre chiedersi in che termini la moneta virtuale oggetto del conferimento sia suscettibile di essere convertita in denaro da destinarsi a soddisfare i diritti dei creditori e, quindi, in definitiva, sia idonea ad assolvere la funzione di garanzia patrimoniale ai sensi dell'art. 2740 c.c. In questa indagine, non appare pleonastico osservare come la distinzione tra i concetti di espropriabilità e suscettibilità di valutazione economica sia stata ben presente nella disamina svolta dal Tribunale in primo grado secondo il quale non può, comunque, trascurarsi come la dimensione materiale del bene recuperi valenza quanto meno sotto il profilo della quantificazione del valore economico, dovendo per ciò stesso essere oggetto di analisi. Le criticità che, ad oggi, rendono problematica la possibilità di conferire, come bene, la moneta virtuale attengono essenzialmente, da un lato, all'anonimato che circonda il proprietario e l'utilizzatore dei bitcoin e, dall'altro ma conseguentemente, alla impossibilità tecnica di aggredire quel «bene». Con riguardo alla questione della individuazione del soggetto proprietario di bitcoin, va osservato come le operazioni in moneta virtuale sono sicuramente «tracciabili» in senso informatico, rimanendo nel registro pubblico traccia indelebile della circostanza che un (ignoto) detentore di una chiave privata, corrispondente ad una data chiave pubblica, ha trasferito bitcoin ad altro ignoto detentore di altra chiave privata corrispondente, a sua volta, ad altra chiave pubblica. Tuttavia, tutti questi processi si basano non sul concetto di «identificazione» del soggetto, ma su quello di «verifica» delle credenziali informatiche. Ma ammesso che si riesca a conoscere l'identità del titolare della moneta virtuale, ciò non consentirebbe ancora di ritenere possibile l'aggressione di quel «bene» da parte dei creditori. Infatti, soltanto il proprietario di quella moneta virtuale è a conoscenza delle password necessarie per accedere al sistema e, dunque, di disporre di essa. In tal senso anche un eventuale sequestro o confisca dei supporti fisici sui quali sia conservato il wallet, in assenza delle relative chiavi di accesso (che potrebbero non rinvenirsi su quei supporti), impedirebbe comunque l'aggressione da parte dei creditori sociali. In altre parole, tanto l'utilizzo (volontario) quanto la pignorabilità della moneta virtuale implicano la cooperazione del titolare dei bitcoin (più precisamente, del titolare della chiave privata, così, correttamente, Krogh, 675; in senso, almeno in parte contrario, Rubino De Ritis, Obbligazioni pecuniarie in criptomoneta, secondo il quale, malgrado l'utilizzo di pseudonimi, è, però, possibile tracciare le singole operazioni, per cui l'identità che si cela dietro un indirizzo resta ignota finché non sia realizzata un'operazione attraverso la blockchain. L'utente è identificabile, infatti, attraverso le credenziali di registrazione per l'ottenimento di quel dato indirizzo o portafoglio. Il che consente di ricostruire i soggetti coinvolti nelle transazioni e, a differenza dei pagamenti in contanti, risalire in modo completo alle movimentazioni di ciascun utente). In questa prospettiva, il rischio attuale è che l'utilizzo di moneta virtuale divenga una nuova forma, non consentita dall'ordinamento, di «segregazione» patrimoniale ovvero di creazione di un patrimonio separato da quello del soggetto titolare della criptovaluta che, solo, può disporne. È, infatti, appena il caso di notare che un soggetto potrebbe convertire tutto o parte del proprio patrimonio in monete virtuali raggiungendo l'effetto di essere comunque titolare (peraltro, direttamente e non già attraverso ulteriori schermi) di beni che, tuttavia, non sono utilmente aggredibili dai terzi creditori. La combinazione dei due profili accennati - anonimato e impossibilità di pignoramento - rende assai difficoltoso la valutazione della moneta virtuale come posta dell'attivo patrimoniale, in quanto, come pure è stato correttamente osservato (Krogh, ivi), l'incremento patrimoniale che deriverebbe dal conferimento della valuta virtuale stessa non rivestirebbe quei tratti oggettivi idonei a fondare un apprezzabile affidamento da parte dei terzi, ma creerebbe una segregazione assoluta ed impenetrabile del valore a tutto vantaggio del (solo) possessore della chiave privata. In definitiva, appare difficile immaginare la possibilità di conferire criptovalute fin tanto che non sarà trovato un rimedio alle due criticità - anonimato ed impignorabilità - sora accennate.
Il ruolo degli amministratori. Il problema della rivalutazione del valore conferito da parte degli amministratori nella s.r.l.
Ove si ammetta la possibilità di eseguire conferimenti in criptovaluta, assume un particolare rilievo il sistema dei controlli sulla stima operata dal soggetto incaricato. Tuttavia, nella s.r.l., la disciplina è, sotto più profili, frammentaria e lacunosa non rinvenendosi norme analoghe a quelle presenti nella società per azioni. Ebbene, in primo luogo, il controllo preventivo di legalità spetta, in via esclusiva, al notaio in ragione della circostanza che il rispetto delle previsioni in materia di stima rientra tra le condizioni per la costituzione della società ex art. 2329 n. 2 c.c. (Zanarone, 238; Miola, 203; Bertolotti, 53): il notaio, dunque, dovrà verificare non solo l'esistenza della stima, ma anche delle condizioni minime per l'assolvimento della sua funzione tipica, pur senza potere sindacarne il merito; egli potrà, dunque, sindacare l'incompletezza della stima, l'«intrinseca razionalità» e la «formale logicità e coerenza» della motivazione attraverso cui i criteri di valutazione sono stati scelti, con esclusione di ogni valutazione in ordine alla congruità della valutazione (Miola, 204). La norma di cui all'art. 2465 c.c. non richiama l'art. 2343 commi 3 e 4 c.c. che, da un lato, assegnano agli amministratori il compito, nel termine di centottanta giorni dalla iscrizione della società, di controllare le valutazioni contenute nella relazione di stima e procedere, in caso di fondati motivi, alla revisione di essa e, dall'altro, ove il valore dei beni o dei crediti conferiti sia inferiore di oltre un quinto a quello per cui avviene il conferimento, dispongono che la società debba proporzionalmente ridurre il capitale sociale ovvero che il socio possa versare la differenza in danaro o recedere dalla società. Una parte della dottrina ritiene non percorribile la via dell'applicazione analogica di dette norme alla società a responsabilità limitata attesa la diversificazione, sul punto, dei due regimi e la duplice circostanza, da un lato, che il mancato richiamo sarebbe il frutto della volontà (espressa anche nella legge delega) di semplificare le procedure di valutazione dei conferimenti in natura e, dall'altro, che la certezza del valore conferito sarebbe garantito dall'attestazione giurata di un soggetto iscritto in appositi albi (Tassinari, 102). In questa prospettiva, non sussisterebbe più l'obbligo, per gli amministratori, di controllare le valutazioni contenute nella relazione e, ove sussistano fondati motivi, di procedere alla revisione della stima. Appaiono evidenti i pericoli derivanti dall'accoglimento di un simile orientamento. Infatti, dovrebbe concludersi nel senso che l'ordinamento non avrebbe previsto alcun rimedio per il caso in cui il valore imputato a capitale sia «gonfiato» rispetto a quello effettivo, ipotesi questa che lede tanto gli interessi dei creditori in quanto porta allo svuotamento della garanzia patrimoniale quanto quelli dei soci relativamente ad inique ripartizioni delle quote sociali. Proprio per tali ragioni, le conclusioni ora evidenziate hanno lasciato insoddisfatta parte della dottrina. Secondo alcuni autori, in particolare, la mancata riproduzione (o richiamo) nella disciplina della società a responsabilità limitata dei co. 3 e 4 dell'art. 2343 costituirebbe una vera e propria lacuna dell'ordinamento che potrebbe essere colmata attraverso l'applicazione analogica di dette disposizioni, in ragione della non eccezionalità dei rimedi e dell'eadem ratio che giustifica l'estensione del principio. Pertanto, anche nella società a responsabilità limitata, in caso di emersione della minusvalenza dell'apporto, la società dovrebbe ridurre proporzionalmente il capitale sociale, variando la partecipazione del conferente e salva la possibilità di questi di versare la differenza in denaro o recedere dalla società (Zanarone, 242). Altri autori, invece, giungono alle medesime conclusioni prendendo le mosse dal generale dovere di diligenza (art. 2476 c.c.) il quale, necessariamente, implica l'esistenza di un obbligo, gravante sull'organo gestorio, di verificare la corretta formazione del capitale. Gli amministratori, dunque, verificata l'insufficienza del conferimento rispetto al valore imputato al capitale, dovrebbero ingiungere al socio di provvedere all'integrazione, pena l'applicazione della disciplina dell'art. 2466 (Miola, 206). Ebbene, a volere ammettere la conferibilità di monete virtuali, gli amministratori, anche di una società a responsabilità limitata, dovrebbero sotto la propria responsabilità nei confronti della società e dei terzi procedere ad un riesame della stima operata dal perito al fine di verificare la veridicità e la congruità dei valori ivi espressi e, dunque, di evitare una non corretta formazione del capitale sociale.
In conclusione
Le criptovalute hanno assunto - sia pure in ambiti ancora limitati - un significativo rilievo sociale: non è possibile al momento attuale prevedere lo sviluppo futuro, se cioè l'utilizzo delle valute virtuali crescerà ulteriormente diffondendosi su larga scala tra gli operatori economici (con conseguente incremento del loro valore) ovvero se, al contrario, si risolverà in una nuova bolla speculativa, al pari, per citarne il primo caso studiato, della bolla dei bulbi dei tulipani olandesi del XVII secolo. Come evidenziato in precedenza, ad oggi, il fondamento dell'utilizzo di una qualsivoglia criptovaluta è meramente pattizio derivando dall'autonomia privata che l'ordinamento riconosce alle parti di un negozio giuridico. Ma se tale autonomia appare facilmente riconoscibile se si guarda all'uso della moneta virtuale in modo, per così dire, «atomistico» in quanto essenzialmente rivolto alle parti (e solo a loro) di un determinato rapporto negoziale, più critica è la situazione nei fenomeni, come quello societario, ove, soprattutto con riferimento alle regole che garantiscono la corretta formazione del capitale sociale, vengono in rilievo non tanto e non solo la posizione delle parti che consegnano e che ricevono una determinata valuta virtuale, ma la posizione dei terzi che su quel capitale sociale fanno affidamento. Di tali criticità - e delle difficoltà concettuali di inquadramento sistematico delle criptovalute - costituiscono espressione i due provvedimenti ora esaminati. Mentre sembra doversi escludere, contrariamente a quanto affermato dalla Corte di appello di Brescia, l'equiparabilità della criptovaluta alla moneta, assai più complicato è verificare l'ammissibilità del conferimento della moneta virtuale ed i limiti del suo utilizzo. Come evidenziato nel corso della trattazione, i problemi, allo stato non risolti, che rendono critica la risposta affermativa al quesito sono rappresentati dall'anonimato che circonda il proprietario e l'utilizzatore della chiave privata e l'impossibilità di sottoporre quei beni (e, dunque, quei valori) a pignoramento. Come sempre quando si tratta di innovazioni sociali fondate su nuove tecnologie, il legislatore, sia nazionale che comunitario, si trova «in ritardo» rispetto alla necessità, oramai avvertita, di una regolamentazione: è, però, auspicabile che l'ordinamento giuridico intervenga riappropriandosi della funzione di «governare» i fenomeni sociali ed economici, senza che siano proprio questi ultimi a dettare le regole degli operatori.
G. Ferri, art. 2342, in Commentario al codice civile, diretto da E. Gabrielli, Della società, dell'azienda, della concorrenza, a cura di D.U. Santosuosso, Torino, 2015, 756 ss.; V. De Stasio - G. Nuzzo, art. 2342, in Le società per azioni. Codice civile e leggi complementari, diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, Milano, 2016, 344 ss.; R. Bocchini, Lo sviluppo della moneta virtuale: primi tentativi di inquadramento e disciplina tra prospettive economiche e giuridiche, in Rivista dell'informazione e dell'informatica, 2017, 27 ss.; P. Iemma, N. Cuppini, La qualificazione giuridica delle criptovalute: affermazioni sicure e caute diffidenze, in dirittobancario.it; V. De Stasio, Verso un concetto europeo di moneta legale: monete virtuali, monete complementari e regole di adempimento, in Banca, borsa, tit. cred., 2018, I, 747 ss.; M. Rubino De Ritis, Obbligazioni pecuniarie in criptomoneta (nota a Lodo Arb. Marcianise, 14 ottobre 201), in Giustiziacivile.com; M. Rubino De Ritis, Bitcoin: una moneta senza frontiere e senza padrone? Il recente intervento del legislatore italiano, Giustiziacivile.com; M. Passaretta, Bitcoin: il leading case italiano (nota a Trib. Verona, 24 gennaio 2017), in Banca, borsa, tit. cred., 2017, 471; R. Razzante, Bitcoin: tra diritto e legislazione, in Not., 2018, 383; M. Krogh, L'aumento di capitale nelle s.r.l. con conferimento di criptovalute, in Not., 2018, 633 Avagliano, art. 2464, in L.A. Bianchi (a cura di), Società a responsabilità limitata, in Commentario alla riforma delle società, diretto da P. Marchetti - L.A. Bianchi - F. Ghezzi - M. Notari, Milano, 2008; M. Miola, Stima dei conferimenti in natura e di crediti, in A.A. Dolmetta e G. Presti (a cura di), S.r.l. Commentario, dedicato a Portale, Milano, 2011; A. Bertolotti, La disciplina dei conferimenti nella s.r.l., in M. Sarale (a cura di), Le nuove s.r.l., Bologna, 2008; F. Tassinari, I conferimenti e la tutela dell'integrità del capitale sociale, in La riforma della società a responsabilità limitata, a cura di Caccavale, Magliulo, Maltoni, Tassinari, Milano, 2007
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