Intestazione fiduciaria di quote sociali e appropriazione indebita

Ciro Santoriello
02 Gennaio 2019

Non integra il delitto di appropriazione indebita la condotta dell'intestatario fiduciario che non ottemperi all'obbligo di ritrasferire i beni immateriali intestati al fiduciante alla scadenza convenuta, in quanto il fiduciario ha la titolarità reale dei beni.
Massima

Non integra il delitto di appropriazione indebita la condotta dell'intestatario fiduciario che non ottemperi all'obbligo di ritrasferire i beni immateriali intestati al fiduciante alla scadenza convenuta, in quanto il fiduciario ha la titolarità reale dei beni.

Il caso

Nell'ambito di un rapporto fra privati, avente ad oggetto la titolarità di quote sociali, il querelante denunciava la controparte sostenendo che la stessa era solo formalmente titolare delle quote medesime, che in realtà deteneva fiduciariamente per conto del denunciante. Avendo il soggetto formalmente intestatario delle quote rifiutato di restituire le stesse al (presunto) reale intestatario, veniva per l'appunto presentata denuncia per appropriazione indebita. In sede di merito la sussistenza del reato veniva esclusa per due ordini di ragioni e cioè in quanto le quote societarie erano da considerare quali beni immateriali non passibili di "appropriazione", come correttamente sottolineato dai giudici di merito; in secondo luogo, si affermava che non vi sarebbe stata alcuna interversione nel possesso, poiché le quote sarebbero state sempre ed esclusivamente intestate all'imputato, non rilevando in senso contrario a tale conclusione il fatto che lo stesso detenesse la partecipazione sociale fiduciariamente per conto della parte civile.

Avverso la sentenza di assoluzione era proposto ricorso per cassazione dalla parte civile per lamentare il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta insussistenza del reato di appropriazione indebita.

La questione

Tradizionalmente si ritiene che per aversi appropriazione sia necessario che il soggetto agente si comporti, nei confronti del denaro o della cosa mobile altrui di cui ha il possesso, uti dominus, cioè come se ne fosse il proprietario e, quindi, oltrepassando le facoltà di disposizione del bene consentitegli dal titolo in virtù del quale lo possiede (PAGLIARO, Appropriazione indebita, in Digesto pen., I, Torino, 1987, 226). Si parla anche, per esprimere sostanzialmente lo stesso concetto, di interversione del possesso - richiamando così la rubrica dell'art. 1164 c.c. - dato che si ha una sorta di trasformazione (illecita) del possesso in proprietà. Questo non significa naturalmente che il soggetto diventa realmente proprietario, ma solo che in quel momento il possessore è ispirato da un animus domini la cui concreta manifestazione costituisce proprio la condotta appropriativa.

Quest'ultima, nella maggior parte dei casi, non è agevolmente definibile, di per sé, sul piano puramente fisico (come potrebbe essere, ad esempio, il "cagionare la morte") contenendo, per così dire, un'ontologica ambiguità, nel senso che uno stesso identico contegno materiale può costituire (perlomeno se valutato dall'esterno) appropriazione oppure no a seconda che sia sorretto o meno dalla volontà di comportarsi da proprietario (secondo MAGRI, I delitti contro il patrimonio mediante frode, in Trattato di diritto penale - Parte speciale, diretto da Marinucci - Dolcini, Padova 2007, 150, «il termine "si appropria" è un concetto normativo» che rinvia alle norme disciplinanti il diritto di proprietà sanzionando il «compimento di atti riservati al proprietario»). Anche se la legge non le individua esplicitamente, si reputa che forme caratteristiche di manifestazione di tale animus siano la consumazione, l'alienazione (sia a titolo oneroso che gratuito), la ritenzione e la distrazione.

Quanto alla ritenzione, va precisato che la semplice mancata restituzione in quanto tale non pare sufficiente a configurare l'appropriazione, essendo necessario anche un atteggiamento positivo (rectius: commissivo) idoneo ad evidenziare il rifiuto di (e la volontà di non) restituire (ATTILI, L'appropriazione indebita, in VIGANÒ - PIERGALLINI (a cura di), Reati contro la persona e contro il patrimonio, Torino 2015, 745; PAGLIARO, Appropriazione, cit., 227) come, ad esempio, nel caso di diniego in seguito ad una richiesta di resa. La ritenzione c.d. precaria, volta a garantire un richiesto diritto di credito, non dà luogo a condotta appropriativa poiché, in effetti, si tiene il bene a disposizione del proprietario condizionandone la consegna all'adempimento dell'obbligazione pretesa: non si ha, dunque, alcuna volontà di farlo proprio.

Siccome l'aggettivo indebita della rubrica dell'articolo non costituisce per la dottrina prevalente un'ipotesi di antigiuridicità speciale ma, semplicemente, un rinvio all'antigiuridicità obiettiva, cioè alla ovvia pretesa che il reato sia realizzato in mancanza di cause di giustificazione (c.d. antigiuridicità espressa), la ritenzione finalizzata a compensare un proprio credito, pur consistendo in un'appropriazione, - poiché sussiste in capo all'agente la volontà di far sua la cosa - sarà giustificata ai sensi dell'art. 51 laddove sussistano tutti i requisiti perché possa validamente operare la compensazione (art. 1243 c.c.): esistenza, liquidità, esigibilità del credito avente ad oggetto una somma di denaro o altra cosa fungibile.

La mancanza di una norma analoga all'art. 314, comma 2, c.p. e all'art. 626, n. 1, c.p. porta ragionevolmente ad escludere la punibilità dell'appropriazione indebita d'uso ed il semplice uso al di fuori dei poteri consentiti dal titolo del possesso, di per sé, non è appropriazione ma, più propriamente, illecito civile. Tuttavia, in presenza di un uso non momentaneo potrà configurarsi il delitto di cui all'art. 646 quando l'utilizzo abusivo della cosa sia realizzato come se questa fosse propria e con l'intenzione di servirsene uti dominus. Inoltre, l'uso, per essere penalmente irrilevante, non deve comportare la consumazione anche incompleta della cosa (ad esempio, un rimarchevole deprezzamento della stessa) perché, altrimenti, si rientrerebbe nel campo della appropriazione punibile (in questo senso PEDRAZZI, Appropriazione, cit., 844).

Secondo l'esplicito riferimento contenuto nella norma l'oggetto materiale può essere soltanto il denaro o la cosa mobile altrui. Il primo sembra indicato in modo ridondante, rientrando senza dubbio nella nozione di cosa mobile della quale ne rappresenta il tipo per eccellenza. All'interno della categoria, secondo quanto previsto dall'art. 624, comma 2, va annoverata anche l'energia elettrica e ogni altra energia che abbia valore economico. Stante l'esplicita menzione della mobilità della cosa, non appare configurabile il delitto se il soggetto agente per appropriarsi del bene posseduto debba prima mobilizzarlo (es. taglio di alberi da parte dell'affittuario del fondo), potendo delinearsi, in questi casi, il delitto di furto, perlomeno laddove il proprietario non avesse precedentemente autorizzato alla "smobilizzazione" il soggetto agente. Non occorre, peraltro, che la cosa sia stata materialmente consegnata al possessore dall'avente diritto potendo il primo averne avuto la disponibilità senza alcuna particolare traditio (si pensi ad un amministratore di società la cui nomina comporta automaticamente anche la gestione di fondi).

Normalmente l'uso di cose fungibili (come il denaro) non integra il reato se il possessore può e vuole renderne altre della stessa specie, dal momento che egli ha generalmente solo l'obbligo di restituire il tantundem. La conclusione va rovesciata se, invece, vi è un interesse particolare dell'avente diritto ad avere indietro quella particolare cosa, specificatamente individuata (ad esempio una determinata moneta avente un valore affettivo per il proprietario).

Il concetto di "cosa" presuppone una certa corporeità per cui non rientrano nel novero delle cose mobili i diritti in sé stessi; per il medesimo motivo neanche i beni immateriali (idee, invenzioni, opere artistiche, ecc.) possono essere fatti oggetto di appropriazione. Al contrario, i documenti, le copie, i progetti, i modelli in cui questi beni o diritti dovessero essere "incorporati" rientrano a pieno titolo nella nozione di "cosa" e, per ciò, colui che se ne appropri indebitamente potrà incorrere nell'illecito in esame (MAGRI, op. cit., 185).

Più in generale, si può sinteticamente ricordare che si discute se oggetto dell'appropriazione sia il bene inteso nella sua materialità o nel suo valore. Quest'ultima opzione appare più convincente se solo si considera che una cosa senza valore (che, tuttavia, non deve essere necessariamente patrimoniale) non è giuridicamente catalogabile come "cosa".

Quanto all'elemento normativo dell'altruità, esso viene comunemente inteso come proprietà di altri, con la conseguenza che il proprietario non potrebbe mai essere soggetto attivo di un'appropriazione indebita. Non tutti però interpretano tale requisito in senso formalmente civilistico (PAGLIARO, Appropriazione, cit., 232) estendendone l'ambito applicativo a tutti i diritti, reali o personali che, nel caso concreto, abbiano un «valore sociale maggiore» di quello di proprietà. Si è sottolineato che vi sono ipotesi in cui dal punto di vista strettamente civilistico il bene non sarebbe "altrui" rispetto al possessore e, tuttavia, sostanzialmente appartiene ad altri: si pensi, per esempio, al contratto di commissione (art. 1731 c.c.) - tipo speciale di mandato senza rappresentanza - nel quale il commissionario agisce in nome proprio ma per conto del committente (destinatario, quindi, del risultato economico-sostanziale dell'operazione) per cui ci si domanda se il commissionario che dovesse appropriarsi della cosa acquistata formalmente a suo nome commetterebbe o meno il delitto in esame o se nel caso di vendita la mancata dazione del prezzo ricavato integrerebbe il reato. Per semplificare la risoluzione di questo e di altri casi analoghi si è proposto di non identificare necessariamente l'altruità con la «proprietà di altri» ma di interpretarla quale «vincolo preciso e attuale di destinazione a uno scopo cui altri ha interesse» (PEDRAZZI, Appropriazione, cit., 841), vincolo che può gravare anche su chi formalmente è proprietario di un bene (che, in tale eventualità, potrebbe ritenersi soggetto attivo dell'appropriazione).

Peraltro, la stessa dottrina civilistica non sempre è concorde nell'individuazione del momento nel quale, in riferimento ad un determinato negozio giuridico, la proprietà si trasferisca da un soggetto ad un altro. Con la conseguenza che, relativamente a taluni rapporti giuridici, nascono dubbi sull'astratta realizzabilità del delitto in oggetto, si pensi alle ipotesi del contratto di vendita con riserva della proprietà e del contratto estimatorio o alla vendita con condizione sospensiva o con condizione risolutiva.

Anche il concetto di "cosa mobile" sembra assumere, secondo una certa giurisprudenza, natura autonoma rispetto alla corrispondente nozione civilistica: «più ridotta laddove non considera cose mobili le entità immateriali (...) che, invece, l'art. 813 c.c. assimila ai beni mobili; (...) più ampia, laddove comprende beni che, originariamente immobili o costituenti pertinenze di un complesso immobiliare (...) siano mobilizzati, divendo quindi asportabili (...)» (Cass. Pen., Sez. II, 11 maggio 2010, n. 20647).

Si è detto che ci si può impossessare solo di cose fisiche, tangibili. Per questo viene negata l'appropriabilità di beni immateriali (Cass. Pen., Sez. II, 12 luglio 2011, n. 33839; Cass. Pen.., Sez. II, 26 settembre 2007, n. 36592, a proposito di quote di una società), salvo che non si tratti degli oggetti corporei (tipo fogli, disegni, ecc.) nei quali i primi sono contenuti (cfr. Cass. Pen., Sez. III, 25 gennaio 2012, n. 8011, con riferimento all'appropriazione di documentazione industriale e commerciale, avente rilevanza economica, rappresentativa di un'idea immateriale; Cass. Pen., sez. V, 13 novembre 2014, n. 47105, con riferimento ai dati bancari di una società riprodotti su un supporto cartaceo che, pur costituendo un bene immateriale insuscettibile di detenzione fisica, possono essere trasfusi e incorporati in un'entità materiale attraverso la stampa del contenuto del sito di home banking, e possono quindi essere oggetto di appropriazione). Nello stesso senso si è ritenuto che la mancata restituzione di warranty bond, di cui si è acquisita la disponibilità a titolo di garanzia della corretta esecuzione del contratto, in ordine alla quale vi sia contestazione tra le parti, non integra il reato di appropriazione indebita, per difetto dell'altruità dei supporti cartacei rappresentativi della garanzia (Cass., Sez. VI, 17 settembre 2014, n. 46062).

Le soluzioni giuridiche

La Cassazione, nel respingere in radice il ricorso, confermando la correttezza delle statuizioni dei giudici di merito, ha colto il destro per fare alcune precisazioni con riferimento agli estremi del delitto di appropriazione indebita.

In primo luogo, viene ribadito che la condotta di appropriazione indebita può avere ad oggetto solo beni materiali, come il denaro o altra cosa mobile (sulla non estensione del concetto di "cosa mobile" anche a beni immateriali, Cass. pen., sez. II, 26 settembre 2007, n. 36592). La nozione di cosa mobile viene ricostruita nella decisione sulla scorta di quanto previsto dall'art. 624 cpv. c.p., in base al quale va fatto rientrare n tale categoria qualsiasi entità di cui in rerum natura sia possibile una fisica detenzione, sottrazione, impossessamento od appropriazione, e che a sua volta possa spostarsi da un luogo ad un altro o perché ha l'attitudine a muoversi da sé oppure perché può essere trasportata da un luogo ad un altro o, ancorché non mobile ab origine, resa tale da attività di mobilizzazione ad opera dello stesso autore del fatto, mediante sua avulsione od enucleazione. Oltre tale ambito, non è possibile parlare di cose mobili, in quanto il legislatore pretende che in tale definizione sia comunque sempre presente il requisito di base della naturalistica fisicità del bene nella sua accezione penalistica, né il principio di stretta legalità consente di estendere ulteriormente la nozione anche alla proprietà industriale.

Come si vede, la nozione penalistica di cosa mobile non coincide con quella civilistica, rivelandosi per certi aspetti più ridotta e, per altri, più ampia: è più ridotta, laddove non considera cose mobili le entità immateriali - come, appunto, le opere dell'ingegno ed i diritti soggettivi - che, invece, l'art. 813 c.c., assimila ai beni mobili; è più ampia, laddove comprende beni che, originariamente immobili o costituenti pertinenze di un complesso immobiliare (queste ultime assoggettate dall'art. 818 c.c., al regime dei beni immobili), siano mobilizzati, divenendo quindi asportabili e sottraibili e, pertanto, potenzialmente oggetto di appropriazione. Alla luce di tale considerazione nessun dubbio può sussistere sul fatto che le quote societarie, proprio in considerazione della loro natura di bene immateriale, non rientrino nella nozione tipica di "cosa mobile" (Cass. Pen., sez. II, 11 maggio 2010, n. 20647, in fattispecie relativa all'appropriazione di disegni e progetti industriali coperti da segreto in relazione ai quali la Corte ha ritenuto sussistere il reato di appropriazione indebita solo con riguardo ai documenti che li rappresentavano).

Più interessante, tuttavia, è la parte della decisione che si riferisce alla possibilità di rinvenire la fattispecie di appropriazione indebita con riferimento alla mancata restituzione, in esecuzione di un patto fiduciario, dei beni intestati fiduciariamente. In proposito, la Cassazione conferma che non integra il delitto di appropriazione indebita la condotta dell'intestatario fiduciario che non ottemperi all'obbligo di ritrasferire i beni immateriali intestati al fiduciante alla scadenza convenuta, in quanto il fiduciario ha la titolarità reale dei beni e la sua mancata ottemperanza degli accordi integra, la più, un illecito civilistico (Cass. Pen., sez. II, 28 ottobre 2015, n. 46102).

Come è noto, il negozio fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi: l'uno di carattere esterno, realmente voluto e con efficacia verso i terzi, e l'altro di carattere interno - pure esso effettivamente voluto - ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo negozio, ed in virtù del quale il fiduciario è tenuto a ritrasferire il bene al fiduciante o ad un terzo. Pertanto, la intestazione fiduciaria di titoli, integra gli estremi della interposizione reale di persona, per effetto della quale l'interposto acquista - a differenza che nel caso di interposizione fittizia o simulata - la titolarità delle azioni o delle quote, pur essendo, in virtù del rapporto interno con l'interponente di natura obbligatoria, tenuto ad osservare un certo comportamento, convenuto in precedenza con il fiduciante, nonché a ritrasferire i titoli a quest'ultimo ad una scadenza convenuta, ovvero al verificarsi di una situazione che determini il venir meno del rapporto fiduciario. Il mancato rispetto di quest'obbligo di restituzione, posto che le quote erano comunque formalmente intestate al soggetto fiduciario, integra solo un inadempimento civilistico, dovendosi di contro escludere la sussistenza dell'interversione del possesso – che è l'elemento ineludibile perché possa dirsi ricorrente il delitto di appropriazione indebita.

Conclusioni

La sentenza della Cassazione, come si è visto, non presenta elementi di novità rispetto alla consolidata giurisprudenza, ma merita comunque apprezzamento per le conseguenze che possono derivarne con riferimento alla prassi di intestazione fiduciaria delle quote sociali.

E' indiscutibile che di frequente la scelta di intestare fiduciariamente a terzi le proprie partecipazioni in persone giuridiche – scelta che di per sé non presenta alcun profilo di illiceità – è finalizzata al perseguimento di obiettivi criminali, come quelli di occultare le proprie disponibilità al fisco, di rendere il proprio patrimonio inattingibile dalle pretese di terzi, di riciclare proventi delittuosi ecc.. Da tempo, si cerca di arginare tale utilizzo criminale del negozio fiduciario, con interventi normativi o interpretazioni giurisprudenziali (si pensi all'ampio significato che la giurisprudenza ha fornito della nozione di “disponibilità” della cosa in capo al singolo, nozione che ricomprende anche l'ipotesi in cui beni del soggetto verso cui si dirige l'attenzione della giustizia siano intestati fiduciariamente a terzi). Ci pare, però, che uno strumento cui si possa far ricorso a tale scopo sia anche quello di precisare che laddove l'intestatario non restituisca, in esecuzione del patto, i beni intestatigli, non sussiste alcuna ipotesi delittuosa: tale interpretazione, infatti, potrà scoraggiare in futuro i criminali dal far ricorso al negozio fiduciario per occultare il possesso dei propri beni, in quanto – alla luce della giurisprudenza predetta – non vi è alcuna garanzia di ritornare in possesso di quanto fiduciariamente conferito.

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