Violenza sessuale ed estensione degli effetti della querela ad altri episodi emersi dalle dichiarazioni successive
10 Gennaio 2019
Massima
Essendo la querela una condizione di procedibilità, la sua funzione si risolve nel consentire all'autorità procedente la sicura individuazione del fatto reato, cosicché contenuto necessario e sufficiente per la sua validità è che si manifesti l'istanza di punizione in ordine a un fatto reato, senza ulteriori precisazioni, dettagli o circostanziate descrizioni che possono pertanto essere successivamente e opportunamente fornite dalla vittima, pur a distanza di tempo. Sono quindi procedibili d'ufficio gli episodi di violenza sessuale non costituenti oggetto di querela ma rivelati dalla vittima dopo la presentazione di tempestiva querela (o, a maggior ragione, al momento della manifestazione di volontà di chiedere la punizione del colpevole) per analoghi episodi prima avvenuti, se e in quanto sussiste connessione investigativa tra gli episodi tardivamente rivelati e quelli, della stessa specie, oggetto della precedente querela. Il caso
A.C. ricorre per cassazione impugnando la sentenza del 3 marzo 2017 con la quale la Corte d'appello di Napoli ha confermato quella del tribunale di Torre Annunziata, che aveva condannato l'imputato – previa declaratoria di non doversi procedere in relazione alle condotte antecedenti al 28 marzo 2006, per difetto di querela – alla pena di anni tre di reclusione limitatamente alle condotte consumate a far data dal 28 marzo 2006, riconosciuta la circostanza attenuante di cui all'art 609-bis, comma 3, c.p. All'imputato si contesta il delitto previsto dagli artt. 81 cpv, 609-bis c.p., perché, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, mediante violenza, consistita nell'afferrare, tenendola con forza verso di sé, Antonella G., così impedendo alla stessa di potersi sottrarre alla sua volontà, la costringeva a subire atti sessuali consistiti nel baciarla sulla bocca e nel toccarla in tutto il corpo comprese le sue parti intime. Il difensore dell'imputato, per l'annullamento della sentenza, presentava quattro motivi di gravame, deducendo:
La Suprema Corte, investita della questione, ed esaminati i singoli motivi dedotti, ha dichiarato il ricorso dell'imputato A.C. infondato e in larga parte inammissibile per manifesta infondatezza e perché articolato sulle medesime doglianze sollevate nei confronti della prima sentenza, già respinte dal giudice d'appello, così condannando lo stesso anche al pagamento delle spese processuali. La sentenza in esame merita attenta e scrupolosa disamina in quanto affronta questioni delicate e controverse nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale, dotate di notevole impatto sociale e afferenti a sfere e tematiche che, nel presente momento storico, si vedono sempre più orientate verso la protezione della vittima di reati sessuali. In via preliminare la Corte si sofferma sulla dedotta lesione al diritto di difesa per genericità del capo di imputazione, ribadendo l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale, ai fini della completezza dell'imputazione, è sufficiente che il fatto sia contestato in modo tale da consentire all'imputato di difendersi in relazione ad ogni elemento di accusa, così che la nullità per genericità del capo di imputazione si ha esclusivamente nel caso in cui la contestazione faccia generico riferimento alla violazione delle norme indicate senza fornire alcuna indicazione circa le condotte attribuibili all'imputato, con la conseguenza che solo la mancanza di riferimenti ai fatti oggetto dei rilievi mossi nei confronti dell'accusato integrano le omissioni che si traducono in una lesione del diritto di difesa. Dopo di che la Corte si appresta ad affrontare - in linea con un recente orientamento che si va sempre più consolidando in giurisprudenza - il dedotto motivo circa la mancanza di condizione procedibilità in relazione a reati sessuali per i quali, pur non avendo la parte offesa sporto querela (se non in precedenza ma altri diversi episodi), l'imputato era stato ugualmente ritenuto colpevole e, quindi, condannato. La questione
La principale questione di diritto affrontata dai giudici della Suprema Corte nella sentenza in oggetto riguarda la possibilità di procedere d'ufficio per reati di violenza sessuale – non oggetto di atto di querela – quando questi siano stati rivelati dalla vittima o siamo emersi successivamente ad altri episodi precedentemente descritti e denunciati in querela. La scelta di estendere la procedibilità della prima querela, anche a fatti successivi, giungendo a ritenere che questi possano essere comunque perseguiti d'ufficio, si fonda sull'esistenza di una connessione “investigativa”, che consente - per i giudici di legittimità - di considerare i secondi fatti come inevitabile oggetto di indagine e, pertanto, di procedere alla punizione degli stessi, anche in assenza di espressa – e specifica – querela da parte della vittima. Qualora infatti dalle dichiarazioni rese dalla persona offesa o dall'esito complessivo dell'attività investigativa svolta, emergano nuovi fatti di violenza sessuale connessi a quelli per i quali la vittima aveva già manifestato una volontà in termini punitivi, non estrinsecatisi tuttavia in ulteriore querela, resta facoltà del giudice ritenere i nuovi e successivi episodi logicamente e intrinsecamente connessi ai primi, e dunque estenderne la punibilità anche d'ufficio. La terza Sezione, già nel 2011, e successivamente nel 2013 e nel 2015, con pronunce che hanno mutato e scardinato radicalmente il precedente orientamento di legittimità in materia, ha affermato che il «reato di violenza sessuale è perseguibile anche in assenza di querela, se presenta un collegamento rilevante con ulteriori reati procedibili d'ufficio». L'ottica sottesa è stata inizialmente quella di tutelare con maggior vigore la riservatezza della persona offesa e, a seguire, di garantire la libertà di autodeterminazione della stessa, nonché la sua incolumità nei casi più gravi. Da qui, diverse successive sentenze si sono espresse nel senso di garantire e proteggere con maggior rigore la dignità della vittima, anche a costo di sacrificare, in ottica difensiva, una piccola porzione dei diritti riconosciuti all'imputato. Si tratta di un orientamento che pur muovendo non poche critiche in dottrina, sembra ormai consolidato nella ricostruzione operata dalla Corte tanto che, dopo essersi questa pronunciata con analoghe sentenze nel 2016, 2017 e nel 2018, con la decisione in esame ha ritenuto doveroso non solo ribadire come la querela abbia mera natura di condizione di procedibilità e quindi non debba contenere una descrizione analitica degli episodi oggetto di contestazione (che possono essere chiariti e circostanziati dalla vittima pur a distanza di tempo) ma, altresì, come siano procedibili d'ufficio gli episodi di violenza sessuale non costituenti oggetto di querela, ma rivelati dalla vittima dopo la presentazione di tempestiva querela per analoghi episodi avvenuti in precedenza, qualora sussista tra questi una connessione investigativa. Aggiunge infatti la Suprema Corte, a conferma dell'importanza di tale nuovo approccio metodologico, come «l'estensione della procedibilità d'ufficio in ordine ai delitti contro la libertà sessuale, che siano connessi con altro delitto per il quale si deve procedere d'ufficio, trova la sua ratio nella considerazione che l'accertamento di questo ultimo delitto comporta necessariamente l'accertamento degli altri, determinando inevitabilmente la diffusione della notizia, di guisa che viene a mancare la ragione del potere riconosciuto all'offeso di evitare lo strepitus fori non sporgendo querela». Dal momento che si tratta di una relazione tra modalità di accertamento di due o più fatti costituenti reato, tale connessione non si identifica necessariamente con l'istituto processuale previsto dall'art. 12 c.p.p. ma può richiedere anche la sola connessione investigativa, nel senso che ciò che importa, per l'estensione della perseguibilità d'ufficio, è che l'accertamento del fatto costituente delitto perseguibile d'ufficio (che si può identificare anche in un reato sessuale per il quale, essendo stata tempestivamente proposta querela, la stessa sia divenuta per ciò stesso irretrattabile), comporti la necessità di indagare sulla sussistenza o sulla commissione del fatto, anche occasionalmente connesso, integrante gli estremi di un reato contro la libertà sessuale. In poche parole, quando dai fatti denunciati in querela – oramai irretrattabile - scaturisca come logica conseguenza quella di indagare su fatti connessi che integrino a loro volta delle fattispecie contro la libertà sessuale della vittima, non occorre che anche tali ulteriori fatti siano stati oggetto di apposita querela, essendo contrariamente possibile, per essi, procedere in via d'ufficio e contestarli in via diretta all'imputato. La funzione della querela è infatti solo quella di consentire all'autorità procedente la sicura individuazione del fatto reato, non occorrendo, ai fini della sua validità, che contenga precisazioni, dettagli o circostanziate descrizioni. Le soluzioni giuridiche
Con la sentenza in esame la S.C., sulla scorta di un orientamento che si è andato consolidando negli ultimi anni, si dimostrano sempre più attenti alla tutela della vittima di reati sessuali, tanto da accogliere, come principio di diritto, l'estendibilità della querela o meglio della volontà punitiva in essa estrinsecatasi, anche per fatti analoghi successivi, non espressamente denunciati ma che siano “investigativamente” connessi ai primi, giungendo ad affermare la tesi della procedibilità d'ufficio quando tali nuovi episodi siano espressione di un delitto contro la libertà sessuale della vittima. In sostanza, l'identità o l'analogia di episodi per i quali vi era stata già una manifestazione di volontà della vittima a che questi venissero perseguiti penalmente e dunque puniti, è sufficiente per procedere alla perseguibilità d'ufficio di fatti successivi – e strettamente connessi ai primi – pur non oggetto di specifica querela ma idonei a configurare un'ipotesi di reato sessuale. Precisa inoltre la Corte come il solo fatto che la prima querela relativa a reati sessuali sia divenuta irretrattabile, rende l'accertamento di tali fattispecie, ovvero di quelle ulteriori e differenti ma connesse, comunque procedibile d'ufficio. Inciso che costituisce, al momento, l'ultimo tassello di una rinnovata visione a cui ha dato inizio proprio la terza sezione, con una pronuncia del 2011. A questa sono seguite altre sentenze nel 2015 nelle quali è stato introdotto il concetto di connessione e si è stabilito che «i reati di violenza sessuale sono procedibili senza necessità di querela anche nell'ipotesi di collegamento investigativo rilevante a norma dell'art. 371, comma 2, c.p.p. con altra fattispecie procedibile di ufficio - sul rilievo che la ragione della perseguibilità d'ufficio dei delitti contro la libertà sessuale non risiede nel disinteresse dello Stato al perseguimento degli stessi, ma nella necessità di bilanciare l'esigenza del perseguimento dei colpevoli con l'esigenza della riservatezza delle persone offese, data la particolarissima natura di tali reati, in relazione ai molteplici contesti socioculturali nei quali gli stessi possono essere commessi» (Cass. pen., Sez. III, 9 aprile 2015, n. 14247). Con sentenza n. 43330 del 13 ottobre 2016, anche altra Sezione, e per l'esattezza la Sesta penale, si è espressa in termini analoghi, pronunciandosi sul tema della “connessione investigativa”. I giudici in quell'occasione hanno affermato che «in materia di delitti di violenza sessuale, la procedibilità d'ufficio determinata dalla ipotesi di connessione prevista dall'articolo 609-septies, comma 4, numero 4, del codice penale, si verifica non solo quando vi è connessione in senso processuale (articolo 12 del c.p.p.) ma anche quando v'è connessione investigativa, cioè ogni qualvolta l'indagine sul reato perseguibile di ufficio comporti necessariamente l'accertamento di quello punibile a querela: ciò che si verifica nei casi previsti dall'articolo 371, comma 2, del c.p.p.» In termini ancora più chiari: i delitti contro la libertà sessuale, e in particolare quello di violenza sessuale di cui all'articolo 609-bis c.p., generalmente procedibili a querela della persona offesa, lo diventano d'ufficio quando risultano "connessi" «con un altro delitto per il quale si deve procedere d'ufficio» (articolo 609-septies, comma 4, numero 4, del c.p.) ovvero quando si è in presenza di reati commessi in occasione di altri reati, di reati commessi per eseguirne altri o quando la prova di un reato o di una circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di un'altra circostanza. L'esigenza che in prima battuta si voleva perseguire era la protezione della riservatezza della vittima posto che l'indagine investigativa sul delitto procedibile d'ufficio comportava necessariamente, e talvolta inevitabilmente, l'accertamento degli altri e, quindi, la diffusione della notizia, tanto da far venire meno ogni ragione, e possibilità, di garantire la riservatezza della persona offesa. Di recente invece, anche alla luce di altra recentissima sentenza del 6 marzo 2018, la n. 30045, e nell'ottica di proteggere in termini sempre più ampi la dignità della parte offesa (dignità in senso ampio comprensiva non solo del concetto di riservatezza), la terza Sezione ha ribadito il senso da attribuire alla procedibilità per connessione, comprendendo cioè sia quella in senso processuale (art. 12 c.p.p.) che quella materiale (ipotesi questa che si concretizza ogniqualvolta l'indagine sul reato procedibile d'ufficio comporti necessariamente l'accertamento di quello punibile a querela, in presenza delle condizioni di collegamento probatorio di cui all'art. 371 c.p.p., purché le indagini sul reato procedibile d'ufficio siano state effettivamente avviate e sebbene all'esito del giudizio i relativi fatti siano stati diversamente qualificati). Osservazioni
Alcune osservazioni paiono doverose considerata la delicatezza delle questioni affrontate nell'odierna e nelle richiamate sentenze della terza Sezione: ciò che emerge ictu oculi è il possibile contrasto tra due esigenze particolarmente sentite e tutelate dal nostro ordinamento processuale: il diritto di difesa dell'imputato in relazione a condotte per le quali la procedibilità a querela si trasforma in perseguibilità d'ufficio, alla luce di una ipotizzata connessione investigativa, e la necessità, in un momento storico come quello attuale, in cui molto sentito è il problema della violenza sulle donne - in tutte le sue forme - di tutelare con la massima estensione possibile, non solo la riservatezza delle vittime ma anche e soprattutto la vita e l'incolumità personale di queste ultime (spesso messe in pericolo proprio da reiterate condotte di violenza sessuale ai loro danni). Se quindi da un lato alcuni giuristi appaiono poco propensi a una interpretazione estensiva (forse) in malam partem di certi istituti giuridici, in quanto apparentemente contrari al diritto di difesa costituzionalmente garantito e pregiudizievoli per l'imputato (basti pensare che, se di norma per i delitti procedibili a querela, l'assenza di quest'ultima comporta una sentenza di non doversi procedere ai sensi dell'art. 129 c.p.p., nel caso di specie tale principio di diritto viene completamente soppiantato, comportando una possibile possibile condanna per fatti uniti solo da una “connessione investigativa”); altri ritengono invece che una estendibilità della querela ovvero una punibilità d'ufficio anche a fatti successivi e parzialmente differenti, ma pur sempre analoghi a quelli per i quali era stata già sporta querela (e i cui effetti si estendono automaticamente in ragione della codificata irretrattabilità), sia doverosa per garantire al soggetto più debole (ovvero la vittima di reati sessuali) una maggiore garanzia. E ciò in quanto quei nuovi fatti sarebbero comunque emersi a seguito dell'attività di indagine svolta dalle forze di polizia (anche indipendentemente dalla denuncia della vittima stessa), e il desiderio di punibilità di questi ultimi sarebbe da rintracciarsi già nella pregressa volontà sanzionatoria manifestata con la prima querela. A riprova del fatto che il Legislatore si stia muovendo sempre più in una direzione “garantista” delle vittime di alcuni delitti, quali i reati di violenza sessuale, è sufficiente il richiamo alle recenti norme processuali - solo per citarne alcune - sulla non rimettibilità della querela (rendendola di fatto fattispecie punibile d'ufficio); sulla connessa estensione del termine di proponibilità a sei mesi, anziché tre; sulla possibilità per la vittima di reati violenti di essere avvisata sia in caso di richiesta di archiviazione che di emissione di avviso ex art. 415-bis c.p.p. all'indagato; ovvero di esprimere il proprio parere in merito alle misure cautelari a costui applicate etc. Ciò in quanto la lesione della libertà di autodeterminazione in ordine ai rapporti sessuali, dell'onore e dell' integrità fisica e morale della vittima, costituiscono, per l'opinione pubblica ma anche per il Legislatore, beni di rango primario meritevoli di particolare tutela, ancor più oggi che anche il diritto comunitario, manifestando una certa attenzione e preoccupazione al diffondersi di fenomeni di violenza, impone agli Stati membri di recepire direttive volte alla massima protezione dei soggetti deboli e “vulnerabili”. La conseguenza è che la gravità di certe fattispecie e la connessa fragilità/vulnerabilità delle vittime rende tollerabile e necessario un intervento teso a ridimensionare certe garanzie dell'imputato, o quantomeno a rafforzare quelle in favore delle parti offese, come la Suprema Corte ha avuto modo di chiarire nelle più recenti sentenze, anche con prese di posizioni assai nette e decise. Basti pensare al deciso e inequivocabile intervento che anche nell'odierna sentenza i Giudici hanno operato in tema di:
In conclusione, non si può non apprezzare il punto di vista innovativo e garantista manifestato nell'odierna sentenza dalla Suprema Corte, da cui si evince come nessuna lesione al diritto di difesa possa essere invocato lì dove l'interpretazione estensiva della norma sulla procedibilità a querela si ponga come obiettivo solo quello di esonerare la parte offesa dal -talvolta difficile e faticoso onere di - reiterare la propria volontà punitiva per fatti ulteriori quando questi, per la loro natura delittuosa e per le loro caratteristiche siano talmente connessi ai primi da renderne il loro accertamento necessario e quasi automatico, pur in assenza di una meticolosa e circostanziata descrizione. E ciò tanto più quando la prima manifestazione di intento punitivo, cristallizzatasi in ragione di una non ritrattabilità (prevista per legge), abbia di fatto trasformato anche i primi delitti descritti in querela, punibili d'ufficio. Pertanto, anche qualora la parte offesa non si sia fatta carico di un onere di precisione nell'individuazione dei fatti di reato a suo danno, o quando le circostanze nelle quali si è venuta a trovare ne hanno impedito l'adempimento, vuoi per pudore, vuoi per paura, vuoi per impossibilità, vuoi per il trauma derivante dall'aver subito certe violenze, Lo Stato è tenuto a garantire maggiore difesa al soggetto più debole, facendosi carico, attraverso i propri organi giudiziari, dell'adempimento degli obblighi di corretta qualificazione ed individuazione delle ipotesi di reato sommariamente descritte dalla parte offesa. E allora, anche queste sentenze sembrano annunciare quel cambio di prospettiva da molti auspicato e richiesto, per un diritto processuale penale ove la vittima di reato possa essere dotata di maggiori e più incisivi poteri di difesa, e ove le sue garanzie non siano “soffocate” o “offuscate” da quelle talvolta – eccessivamente - sproporzionate a favore dell'imputato. |