I limiti al conferimento della delega assembleareFonte: Cod. Civ. Articolo 2373
15 Gennaio 2019
Il quadro normativo
L'art. 67 disp. att. c.c. contempla la facoltà, in capo al singolo condomino, di delegare un altro soggetto per la partecipazione all'assemblea di condominio: in tal caso, il delegante interviene alla relativa riunione e viene considerato presente a tutti gli effetti (ad esempio, correlati alla possibilità di impugnare la delibera che ha registrato il dissenso del delegato). Tale norma continua ad essere espressamente inderogabile da una norma regolamentare in forza del successivo art. 72 disp. att. c.c:; si tratta, però, di verificare se la suddetta inderogabilità riguardi esclusivamente il potere del condomino di conferire apposita delega, e non attenga, ad esempio, ai profili soggettivi e oggettivi, concernenti, rispettivamente, la figura del rappresentante o il numero delle deleghe. Si pensi, infatti, alla disposizione che imponga al singolo di intervenire esclusivamente di persona alle riunioni o, detto a contrario, che escluda assolutamente la facoltà del condomino di intervenire a mezzo di delega, o si pensi alle disposizioni che vietino di delegare un esterno per prevenire eventuali turbamenti nella vita condominiale, oppure limitino la quantità di deleghe al fine di evitare il cumulo delle stesse nelle mani di uno stesso soggetto. Sull'argomento, il Supremo Collegio (Cass. civ., sez. II, 11 agosto 1982, n. 4530) è dell'avviso che la clausola del regolamento di condominio, che limita il potere di rappresentanza, nel senso che possa essere esercitato solo tramite determinate persone - nella specie, parenti o altro condomino - non contrasta con la normativa sul diritto inderogabile del condomino a farsi rappresentare in assemblea (artt. 67 e 72 disp. att. c.c.), in quanto la stessa non è ostativa della regolamentazione di tale diritto quanto alle concrete modalità di esercizio; tale regola, di natura contrattuale, incidente così nella sfera dei diritti e degli obblighi propri di ciascun condomino, assoggetta tutti i condomini che l'hanno accettata ad un vinculum iuris negoziale avente forma di legge e, perciò, insuscettibile di essere sciolto senza il consenso unanime degli interessati. In altri termini, salvaguardando la possibilità dell'istituto della rappresentanza e concedendo al regolamento il potere di disciplinarne la portata, non siamo in presenza di un contrasto di tali limitazioni con il disposto, dichiarato inderogabile, dell'art. 67 in esame: il diritto in esame non viene negato, ma soltanto disciplinato nel suo concreto esercizio, non escludendo mai la possibilità del singolo di farsi rappresentare da un soggetto di sua fiducia all'interno dell'assemblea condominiale. Stesse considerazioni valgono sul versante “quantitativo” della delega, nel senso che limitare il potere dei condomini stessi di farsi rappresentare nelle assemblee non incide sulla facoltà di ciascun condomino di intervenire a questa a mezzo di rappresentante (art. 67, comma 1, disp. att. c.c.), ma regola l'esercizio di quel diritto, inderogabile (secondo quanto si evince dal successivo art. 72) a presidio della superiore esigenza di garantire l'effettività del dibattito e la concreta collegialità delle assemblee, nell'interesse comune dei partecipanti alla comunione, considerati nel loro complesso e singolarmente (Cass. civ., sez. II, 29 maggio 1998, n. 5315: nella specie, si era ridotta la possibilità a non più di due deleghe). In quest'ordine di concetti, non si può dare una rilevanza decisiva al fatto che il potere di intervenire all'assemblea e di esprimere il proprio voto sugli argomenti posti all'ordine del giorno a mezzo di rappresentante, che già spetterebbe in principio a ciascun condomino in applicazione delle regole generali sul mandato e sulla rappresentanza, sia stato ribadito dal legislatore dal comma 1 dell'art. 67 citato, considerata anche l'ampia e generica portata letterale della norma in oggetto - “ogni condomino può intervenire all'assemblea anche a mezzo di rappresentante” - alla quale il successivo art. 72 ha inteso disporre il carattere dell'imperatività rispetto all'autonomia privata. Si conviene, dunque, che, anche in presenza di singole clausole regolamentari che impongano limitazioni nelle modalità di esercizio del diritto del condomino a farsi rappresentare in assemblea nel senso di circoscrivere l'àmbito dei possibili soggetti rappresentanti, occorre valutarne la legittimità, ammettendo quelle che appaiano ispirate da motivazioni razionali e convincenti, comunque in armonia con la disciplina degli opposti e concomitanti interessi dei condomini nella gestione della cosa comune, e, per converso, escludendo quelle che introducano gravi ed ingiustificate restrizioni all'esercizio di tale diritto, comprimendolo in modo eccessivo e indiscriminato (nella giurisprudenza di merito, Trib. Fermo 4 marzo 1983, il quale ha ritenuto nulla la clausola del regolamento condominiale che, consentendo il conferimento della delega soltanto al coniuge o parente entro il secondo grado del condomino, introduceva gravi ed ingiustificate limitazioni al concreto esercizio di quel diritto, restringendo in modo eccessivo e indiscriminato il novero delle persone alle quali il condomino poteva conferire l'incarico di rappresentarlo). Ad esempio, potrebbe considerarsi irrazionale o comunque potrebbe creare seri problemi nel reperimento di un soggetto cui conferire la delega, nei casi in cui questa sia limitata alla persona del coniuge o al fratello, perché in casi frequenti di un single figlio unico si verrebbe sostanzialmente ad espropriare il condomino del diritto di partecipare e votare in assemblea, considerando, peraltro, l'elemento dell'intuitus personae che caratterizza l'affidamento del mandato assembleare, in forza del quale il titolare deve godere di una certa libertà di scegliere il proprio rappresentante tra le persone che egli stima più idonee allo scopo e che non si identificano necessariamente nei parenti più stretti.
I limiti oggettivi
In questa prospettiva, fermi i divieti eventualmente contemplati dal regolamento di condominio, il riformato art. 67 disp. att. c.c. introduce due limiti al potere di conferire la delega: uno oggettivo e l'altro soggettivo, anche se tali limiti, per quanto ispirati a condivisibili esigenze, rischiano fortemente di non agevolare l'attività dell'organo gestorio, a causa delle frequenti insufficienze dei quorum costitutivi e deliberativi in seno alle assemblee. Segnatamente, il comma 1, in fondo, stabilisce che, «se i condomini sono più di venti, il delegato non può rappresentare più di un quinto dei condomini e del valore proporzionale», forse per il timore, in situazioni condominiali abbastanza numerose, che si faccia incetta di deleghe (talvolta, l'accaparramento di molte deleghe, anche con false o imprecise indicazioni, di fatto incideva sul voto finale di una determinata deliberazione); entro questi limiti, per così dire, quantitativi, nulla esclude che i delegati possano rappresentare più condomini, a meno che non vi sia un'apposita disposizione del regolamento in senso contrario (di solito, si stabilisce la soglia insuperabile di tre deleghe). La ratio di tale previsione va rinvenuta nell'esigenza, da un lato, di incentivare la personale e diretta partecipazione del singolo condomino all'assemblea e, dall'altro, di evitare la concentrazione di deleghe in capo ad un soggetto che, benché rappresentativo della volontà dei suoi deleganti, talvolta è portatore soltanto di un suo personale interesse in grado di condizionare fortemente l'esito della votazione (d'altronde, il limite del 20% del numero delle teste e dei millesimi è stato scelto consapevolmente dal Legislatore, in quanto, per l'approvazione di qualsiasi deliberazione condominiale, è pur sempre necessaria una doppia maggioranza più elevata). Dunque, il delegato non può ricevere un numero di deleghe superiori ad un quinto del complessivo numero delle “teste” di cui si compone l'edificio e che, contestualmente, superino un quinto del valore dell'edificio, ma così si rischia che un condomino, il quale rappresenti, da solo, oltre 200 millesimi in un condominio di quattro partecipanti, verrebbe, di fatto, esautorato della possibilità di delegare (si pensi alla posizione della persona anziana o portatore di handicap che sia impossibilitato a partecipare a tutte le assemblee). I limiti soggettivi
Sul versante soggettivo del limite, va ricordato che, in precedenza, si era posto il dubbio se l'amministratore del condominio potesse essere destinatario di delega da parti di uno o più condomini. In generale, si rispondeva che l'amministratore potesse essere portatore di deleghe da parte di un condomino, in quanto valevano le regole generali del mandato, nel senso che, a meno che non fosse diversamente disposto, qualsiasi diritto poteva farsi valere a mezzo del mandatario, e ciò valeva anche per l'esercizio del diritto di partecipare all'assemblea e votare in sua vece. A ben vedere, non operava, al riguardo, la preclusione di cui all'art. 2391 c.c., previsto in materia di società per azioni, sanzionata, peraltro, soltanto con la responsabilità dell'amministratore e non con l'invalidità della deliberazione, e, differentemente da quanto disposto per le società per azioni dall'art. 2372, comma 4, c.c., l'inesistenza nel condominio di un ente diverso dalle persone rappresentate avrebbe fatto mancare la contrapposizione di interessi, conseguendone che, non potendosi configurare in astratto un oggettivo conflitto tra l'amministratore e i singoli condomini, questi potevano affidare a quello la propria rappresentanza in assemblea. Poteva, infatti, sostenersi che la norma che disciplinava tale materia, ossia l'art. 67, comma 1, disp. att. c.c., non poneva alcun limite sotto il profilo soggettivo, permettendo al condomino di conferire a chiunque - e, quindi, anche all'amministratore - la delega a rappresentarlo in assemblea; tale norma, poi, non era suscettibile di essere derogata dal regolamento di condominio in forza del successivo art. 72 disp. att. c.c., mentre, nelle società per azioni, l'atto costitutivo poteva limitare il diritto di rappresentanza del socio o vietare che questi potesse farsi rappresentare in assemblea (art. 2372, comma 1, c.c.). Di contro, si opinava che trovavano applicazione analogica i divieti contemplati nel sistema per le deliberazioni di gruppi organizzati, che contenevano in qualche modo un giudizio sull'operato degli amministratori, ove gli stessi potevano essere portatori di un interesse proprio in conflitto con quello generale (v., per le associazioni, l'art. 21, comma 1, ultima parte, c.c. secondo cui “nelle deliberazioni di approvazione del bilancio e in quelle che riguardano la loro responsabilità, gli amministratori non hanno voto”, nonché, per le società, l'art. 2373, comma 3, c.c. secondo cui “gli amministratori non possono votare nelle deliberazioni riguardanti la loro responsabilità”). In buona sostanza, seguendo quest'ultima tesi, occorreva distinguere a seconda dell'oggetto della deliberazione, ammettendo, di regola, la delega da parte del condomino all'amministratore, ma negando a quest'ultimo il diritto di voto allorché ne sia in discussione l'operato e, in particolare, il rendiconto della sua gestione o la sua riconferma (Cass. civ. sez. II, 22 luglio 2002, n. 10683, ad avviso della quale, però, ciò non comportava, di per sé, la non computabilità del voto espresso dall'amministratore per delega di taluno dei condomini in relazione ai predetti argomenti, ma soltanto qualora venisse dedotto e provato che il condomino delegante non era a conoscenza o non era in grado di rendersi conto, con la normale diligenza, della situazione di conflitto). Anche tra i giudici di merito non erano mancate, in proposito, voci discordi. Alcuni avevano ritenuto inapplicabile, nell'àmbito condominiale, l'art. 2373 citato, in quanto norma eccezionale dettata per la disciplina di casi specifici; il comma 3 di tale disposto prevedeva che il socio-amministratore non potesse votare nelle sole deliberazioni riguardanti la sua responsabilità, e non già in quelle di approvazione del bilancio o di nomina degli amministratori; in caso contrario, il socio di maggioranza avrebbe rischiato di essere escluso dalla carica sociale più determinante nella gestione dell'impresa, come quella di amministratore - per la quale, ai sensi dell'art. 2380 c.c., non era prevista alcuna incompatibilità - proprio nei casi in cui era maggiore l'interesse ad amministrare la società in cui aveva investito i suoi capitali (Trib. Roma 15 marzo 2012, secondo cui, qualora l'amministratore in carica sia stato munito di delega c.d. vincolata al voto di conferma dell'amministratore medesimo e, dunque, non agisca nell'esercizio di un potere discrezionale, attenendosi, piuttosto, alla puntuale osservanza della scelta specificamente effettuata a monte dal condomino delegante, non può ravvisarsi la sussistenza di un conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato). Si era reputato, infatti, difficile configurare un conflitto di interessi tra la società ed il socio-amministratore nell'approvazione del bilancio o nell'elezione di cariche sociali, atteso che il primo atto non liberava da responsabilità l'amministratore e non precludeva l'impugnativa, e il secondo, in sé e per sé, non era produttivo di alcun danno nei confronti della società; si era contestata, inoltre, la possibilità di configurare un conflitto di interessi tra rappresentante e condominio, poiché l'art. 1394 c.c. si riferiva solo ad ipotesi di conflitto reale, mentre, nella specie, il conflitto sarebbe stato soltanto virtuale, stante che l'amministratore avrebbe potuto svolgere correttamente la gestione e, approvando il suo rendiconto, avrebbe potuto perseguire gli interessi della collettività. Altri, invece, avevano ritenuto applicabile analogicamente l'art. 2373 c.c., che prevede l'impugnabilità della relativa deliberazione, previo esperimento della c.d. prova di resistenza (Trib. Barcellona Pozzo di Gotto 5 dicembre 1994; Trib. Milano 14 luglio 1988); invero, il conflitto era certamente presente, nelle materie relative alla discussione ed approvazione del bilancio consuntivo e la nomina o riconferma dell'amministratore medesimo, per cui, ove l'amministratore rappresentasse per delega la maggioranza dei presenti all'assemblea, le deliberazioni assunte erano annullabili, perché in tal caso non vi era stata la possibilità di un concreto dibattito su argomenti rispetto ai quali l'amministratore stesso avrebbe potuto avere un interesse personale in contrasto con quello del condominio. Orbene, in questo acceso dibattito giurisprudenziale, la Riforma del 2013 è intervenuta con una soluzione tranchant, secondo la quale «all'amministratore non possono essere conferite deleghe per la partecipazione a qualunque assemblea», come espressamente prescritto ora dall'art. 67, comma 5, disp. att. c.c. (il che non esclude, però, la possibilità di conferire la delega alla moglie dell'amministratore, ad un collaboratore o ad un dipendente di quest'ultimo). In conclusione
La l. n. 220/2012 ha, dunque, voluto vietare quella frequente abitudine, da parte dei condomini - per i quali, forse, l'intervento alle riunioni costituisce un fastidio e la ricerca di un fiduciario comporta difficoltà - di dare la delega all'amministratore, in quanto, indubbiamente, la posizione di quest'ultimo è peculiare, poiché, tra l'altro, lo stesso riveste la figura di soggetto subordinato al massimo organo gestorio ed obbligato a rendere conto del suo operato all'assemblea. In quest'ottica, si è preferito ritenere che fosse illegittimo tout court il conferimento all'amministratore, da parte del condomino, della delega a rappresentarlo in assemblea anche qualora non si discuti e si voti su argomenti che involgono la carica (nomina, riconferma o revoca) e la condotta del predetto mandatario (come, ad esempio, l'approvazione del conto della gestione ex art. 1135, n. 3, c.c., che, altrimenti, potrebbe considerarsi valida se ha ottenuto il solo voto dell'amministratore, per assurdo, delegato da tutti i condomini). In quest'ottica, il divieto de quo si ispira alla necessità di assicurare un più efficace e limpido funzionamento dell'organo gestorio, specie se l'assemblea debba deliberare sull'operato dell'amministratore stesso, potendo quest'ultimo trovarsi in una situazione conflittuale, poiché tentato di far prevalere il suo personale interesse, valendosi, per la votazione, delle deleghe ricevute dai condomini, che probabilmente non le avrebbero rilasciate se avessero conosciuto come stavano realmente le cose (per la necessità di una verifica caso per caso, v. Cass. 25 novembre 2004, n. 22234, secondo la quale, in caso di conflitto di interessi fra un condomino e il condominio, qualora il condomino confliggente sia stato delegato da altro condomino ad esprimere il voto in assemblea, la situazione di conflitto che lo riguarda non è estensibile aprioristicamente al rappresentato, ma soltanto allorché si accerti in concreto che il delegante non era a conoscenza di tale situazione, dovendosi, in caso contrario, presumere che il delegante, nel conferire il mandato, abbia valutato anche il proprio interesse - non personale ma quale componente della collettività - e l'abbia ritenuto conforme a quello portato dal delegato). Del resto, quanto ora prescritto può reputarsi applicazione di un principio generale nemo iudex in causa propria, per il quale il controllato - l'amministratore - non può essere contemporaneamente, per effetto della delega del condomino, controllore di se stesso (anche se problemi potrebbero sorgere qualora l'amministratore sia anche lui stesso condomino e, in tale veste, destinatario di deleghe). Tale soluzione può, tuttavia, prestare il fianco a qualche critica, atteso che anche il rendiconto della gestione dell'amministratore è un argomento che deve risultare dall'ordine del giorno, per cui il condomino, che conferisce la delega all'amministratore senza alcuna limitazione, sa perfettamente che la stessa comporta anche l'approvazione dell'attività da lui svolta e, con il fatto stesso di conferirgli la delega, gli manifesta nuovamente e chiaramente tutta la sua fiducia (l'amministratore, di regola, dovrebbe essere la persona che gode di maggior fiducia tra i condomini). Questo modo di procedere all'approvazione del rendiconto potrebbe considerarsi scorretto nel caso in cui l'amministratore tentasse di coprire o sanare talune sue manchevolezze o malefatte; tuttavia, se la gestione risulta ordinata e lineare, non si vede perché il condomino, che intenda approvarla consapevolmente, debba conferire la delega ad un terzo, mentre qualora, invece, la gestione non fosse oculata ed ineccepibile, e l'amministratore fosse colpevole di qualche abuso, i condomini che ne avessero subìto un pregiudizio, potrebbero pur sempre impugnare la deliberazione di approvazione del rendiconto, o comunque ricorrere al giudice per il relativo risarcimento. Per completezza, va sottolineato che la partecipazione all'assemblea di un condomino fornito in un numero di deleghe superiore a quello consentito dal regolamento di condominio, oppure in contravvenzione ad un altro limite soggettivo al conferimento o divieto imposto ora dalla legge, comporta la mera annullabilità della deliberazione adottata, impugnabile nel termine di decadenza contemplato nell'art. 1137, comma 2, c.c. (tra le tante, Cass. civ., sez. II, 12 dicembre 1986, n. 7402, puntualizzando che trattasi di un vizio nel procedimento di formazione della relativa deliberazione, che non dà luogo ad un'ipotesi di nullità assoluta della deliberazione stessa). Figini, Le deleghe in assemblea, in Amministr. immob., 2013, fasc. 176, 493; Moscatelli - Correale, La nuova disciplina del condominio, Roma, 2013,189; Tortorici, Delega a un terzo per approvare o modificare le tabelle millesimali, in Immob. & proprietà, 2007, 692; De Tilla, I limiti di efficacia del regolamento contrattuale di condominio nei confronti dell'acquirente e la delega al venditore, in Giust. civ., 1990, I, 408; Balzani, Le presenze in assemblea condominiale e le deleghe: considerazioni sull'art. 67 disp. att. c.c., in Arch. loc. e cond., 1989, 231. |