E’ incostituzionale la durata fissa e indifferenziata delle pene accessorie nella bancarotta fraudolenta

Enrico Corucci
18 Gennaio 2019

E' dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 27, commi 1 e 3 Cost., l'art. 216 ultimo comma l. fall. nella parte in cui dispone: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa»
Massima

E' dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 27, commi 1 e 3, l'art. 216 ultimo comma l. fall. nella parte in cui dispone: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa», anziché: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni».

Il caso

La pronuncia della Corte Costituzionale qui in commento trae origine da una ordinanza con la quale la prima Sezione della Corte di Cassazione sollevava questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 4, 41, 27 e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, e 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione, fatto a Parigi il 20 marzo 1952, entrambi ratificati e resi esecutivi con la legge 4 agosto 1955, n. 848, degli artt. 216, ultimo comma, e 223, ultimo comma, l. fall. «nella parte in cui prevedono che alla condanna per uno dei fatti previsti in detti articoli conseguono obbligatoriamente, per la durata di dieci anni, le pene accessorie della inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e della incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa». In particolare la Suprema Corte dubitava della legittimità costituzionale della disciplina della commisurazione della durata delle pene accessorie in caso di condanna per fatti di bancarotta fraudolenta nell'ambito del giudizio originato dal ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello di Bologna che, in sede di rinvio, aveva condannato gli imputati di uno dei procedimenti penali scaturiti dal tracollo del gruppo Parmalat per una pluralità di fatti per l'appunto di bancarotta fraudolenta, con la conseguenza che i medesimi imputati, in ragione del combinato disposto degli artt. 216, ultimo comma, e 223, ultimo comma, l. fall., erano stati condannati anche alle pene accessorie dell'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e dell'incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata indifferenziata di dieci anni.

La questione

La questione sottoposta all'attenzione della Corte Costituzionale concerne la disciplina sanzionatoria dei reati di bancarotta in relazione all'applicazione delle pene accessorie ed in particolare alla loro commisurazione.

Com'è noto le norme di riferimento sono costituite dall'art. 216, comma 4 l. fall. e dall'art. 217, comma 3 l. fall.; la prima dispone che “salve le altre pene accessorie, di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna per uno dei fatti previsti nel presente articolo importa per la durata di dieci anni l'inabilitazione all'esercizio di un'impresa commerciale e l'incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi preso qualsiasi impresa”, mentre la seconda che “salve le altre pene accessorie di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna importa l'inabilitazione all'esercizio di un'impresa commerciale e l'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a due anni”.

Inoltre, in ordine al reato di ricorso abusivo al credito, l'art. 218, comma 3 l. fall. dispone che, salve le altre pene accessorie previste dal codice penale, la condanna importa l'inabilitazione all'esercizio di un'impresa commerciale e l'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a tre anni.

In riferimento alla bancarotta semplice ed al ricorso abusivo al credito, quindi, le pene accessorie sono determinate soltanto nel massimo per cui, secondo il maggioritario orientamento della giurisprudenza di legittimità di seguito citato, trova applicazione l'art. 37 c.p., secondo il quale la pena accessoria deve avere durata pari a quella della pena principale.

Per la bancarotta fraudolenta, diversamente, la durata delle pene accessorie è stabilita in misura fissa e proprio tale carattere di fissità ha indotto la Suprema Corte a denunciare la illegittimità delle disposizioni che lo disciplinano.

Le soluzioni giuridiche

La rigidità delle previsioni legislative contenute nella legge fallimentare circa la durata delle pene accessorie da applicare in caso di condanna per il reato di bancarotta fraudolenta in effetti ha più volte generato, nella giurisprudenza di merito e di legittimità, dubbi circa la sua conformità alla Costituzione.

La ratio sottesa alle disposizioni in questione ha carattere specialpreventivo, mirando ad impedire che, quale sia la pena principale in concreto applicata, il condannato per un lungo peirodo di tempo possa nuovamente svolgere attività di impresa nei cui ambiti ha creato danno e “disordine”, sì anche da tutelare il credito ed i traffici commerciali tout court.

La fissità di cui trattasi, tuttavia, non consente all'evidenza che la pena accessoria sia quantificata in rapporto alla gravità del fatto di reato ed alla personalità del reo, dubitandosi se la soluzione del legislatore, cui spetta la determinazione del trattamento sanzionatorio per i fatti previsti come reato, sia conforme a ragionevolezza.

In un primo momento la Corte Costituzionale, investita di quesiti analoghi circa la costituzionalità dell'art. 216 comma 4 l. fall., aveva dichiarato inammissibili le questioni in ragione del fatto che le Corti rimettenti le chiedevano di aggiungere le parole “fino a” all'ultimo comma dell'art. 216 l. fall. al fine di rendere possibile l'applicazione dell'art. 37 c.p., tale essendo, ad avviso del giudice delle leggi, soltanto una tra le soluzioni astrattamente ipotizzabili in caso di accoglimento della questione sì da non costituire una soluzione costituzionalmente obbligata (Corte. Cost., 31 maggio 2012, n. 134, in Il Fall., 2012, 933; La Giust. Pen., 2012, 242).

Con la sentenza in commento la Corte Costituzionale, alla luce di una complessiva rimeditazione dei termini delle questioni, è giunta invece a conclusioni difformi, e segnatamente:

1. La durata delle pene accessorie temporanee di cui all'art. 216, comma 4 l. fall. - prevista indefettibilmentein dieci anni quale che sia la qualificazione del reato per cui vi è stata condanna (potendo trattarsi di bancarotta fraudolenta patrimoniale o documentale ovvero di bancarotta preferenziale, la cui sanzione principale ha, rispetto a questi ultimi reati, cornice edittale di significativo minor rigore), quale che sia la gravità in concreto delle condotte delittuose poste in essere ed ancora quali siano le circostanze aggravanti o attenuanti ricorrenti nel caso specifico- non può che generare la possibilità di risposte sanzionatorie manifestamente sproporzionate per eccesso - e dunque in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost. - rispetto ai fatti di bancarotta fraudolenta meno gravi, apparendo quindi irragionevole e comunque distonica rispetto al principio di rilievo costituzionale dell'individualizzazione del trattamento sanzionatorio.

2. In merito al trattamento sanzionatorio che nell'immediato, in attesa di una riforma organica della materia, possa sostituirsi a quello dichiarato costituzionalmente illegittimo non è condivisibile le soluzione prospettata dalla Corte rimettente secondo cui, eliminato l'inciso “per la durata di dieci anni”, potrebbe trovare applicazione l'art. 37 c.p. giacché, in questo modo, la durata delle pene accessorie rimarrebbe di fatto fissata in termini indifferenziati, ancora una volta precludendosi al giudice, con valutazione disgiunta da quella che presiede alla quantificazione della pena detentiva, ogni possibilità di apprezzamento discrezionale circa la gravità del fatto e la personalità del reo.

3. La soluzione alla questione sub 2, ovvero quella in grado di sostituirsi alla disciplina dichiarata incostituzionale, è in realtà offerta dalla stessa legge fallimentare agli artt. 217, comma 3 e 218, comma 3 ove si dispone che le pene accessorie per il reato di bancarotta semplice siano stabilite fino a due anni e per quello di ricorso abusivo al credito fino a tre anni; tale opzione normativa, capace di conservare margini di discrezionalità del giudice, deve allora mutuarsi ai reati di bancarotta fraudolenta, con la conseguenza che all'inciso “per la durata di dieci anni” deve sostituirsi quello “fino a dieci anni”.

Osservazioni

La sentenza in commento, che come anticipato costituisce rivisitazione delle conclusioni cui la stessa Corte Costituzionale era giunta in precedenza, muove dalle difficoltà, tra le righe non nascoste, che seguono alla mancanza da parte del legislatore dell'approvazione di una riforma organica del sistema delle pene accessorie che lo renda pienamente compatibile con i principi costituzionali.

La soluzione prospettata dal giudice delle leggi in sostituzione di quella dichiarata costituzionalmente illegittima desta, tuttavia, qualche perplessità.

Invero, pur accedendo alla tesi che la soluzione in argomento sia frutto di una pronuncia additiva a contenuto costituzionalmente obbligato sì da ritenere, nel caso di specie, non superati i poteri di intervento della Corte Costituzionale, la prospettazione secondo cui l'applicazione dell'art. 37 c.p. darebbe luogo ad una quantificazione delle pene accessorie in termini ancora una volta indifferenziati lascia margini di opinabilità perché essa è pur sempre conseguente, a cascata, alla quantificazione della pena principale discrezionalmente operata dal giudice.

Ma soprattutto le perplessità seguono alla considerazione secondo cui l'applicazione dell'art. 37 c.p. sarebbe esclusa dalla introduzione dell'inciso "fino a dieci anni" in quanto esso, al contrario, prevede una sanzione determinata soltanto nel massimo, previsione che, secondo l'interpretazione prevalente nella giurisprudenza di legittimità, darebbe luogo proprio all'applicabilità di detto art. 37 c.p. (tra le molte, Cass., 14 giugno 2012, n. 23606, in CED rv 252960 così massimata, “in tema di bancarotta semplice documentale, le pene accessorie devono essere commisurate alla durata della pena principale, in quanto essendo determinate solo nel massimo, sono soggette alla regola di cui all'art. 37 c.p., per il quale la loro durata è uguale a quella della pena principale inflitta”).

Il più volte menzionato inciso “fino a dieci anniconsentirebbe invece al giudice una valutazione della misura della pena accessoria non vincolata alla quantificazione della pena principale, bensì autonoma e discrezionale sempre secondo i criteri generali stabiliti dall'art. 133 c.p., soltanto ove si acceda alla diversa e fino ad ora minoritaria interpretazione giurisprudenziale (peraltro nata nei diversi casi di previsioni sanzionatorie con doppia soglia edittale) secondo cui, sempre al fine di evitare forme di automatismo sanzionatorio, quando la durata di una pena accessoria temporanea è determinata dalla legge solo nella misura massima "non trova applicazione il principio dell'uniformità temporale” tra pena accessoria e pena principale previsto dall'art. 37 c.p., ma spetta al giudice determinarne in concreto la durata applicando i parametri di cui all'art. 133 c.p. (così Cass., 10 gennaio 2014, n. 697 in CED rv. 257850-01, in tema di applicazione delle pene accessorie previste per i reati in materia di stupefacenti dall'art. 85 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309).

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