La liquidazione tabellare milanese del danno non patrimoniale a garanzia di uniformità, eguaglianza e prevedibilità delle decisioni
22 Gennaio 2019
La liquidazione del danno non patrimoniale deve fondarsi su criteri in grado di realizzare, nella più ampia misura possibile, l'uniformità di trattamento a parità di conseguenze lesive, senza per questo trascurare la necessità di tenere adeguatamente conto delle peculiarità (non determinabili a priori) del singolo caso concreto. Del resto, un'equa e integrale riparazione del danno non può avvenire senza fare riferimento alla complessità delle fattispecie che, talvolta, può rendere particolarmente difficoltosa la monetizzazione del risarcimento. Nel liquidare equitativamente il danno non patrimoniale il giudice, mediante analitica motivazione, deve indicare i criteri utilizzati per la sua determinazione. Naturalmente il termine “equità” di cui all'art. 1226 c.c. non può intendersi quale sinonimo di “arbitrio”, essendo necessario che, attraverso una verifica ex post dell'iter logico-giuridico seguito dal giudice, la decisione risulti sorretta da una giustificazione razionale. Ebbene, i criteri previsti dalle tabelle milanesi, riconosciute dalla Corte di cassazione quale riferimento unico nazionale, costituiscono valido e necessario riferimento ai fini della valutazione equitativa del danno non patrimoniale. Escludendo, infatti, il ricorso a un criterio equitativo puro e perdurando la mancanza di criteri legislativamente predeterminati (con particolare riguardo alle invalidità permanenti dal 10 al 100%), il danno non patrimoniale derivante da lesione all'integrità psico-fisica trova oggi adeguata liquidazione col sistema “a punto variabile” elaborato dall'Osservatorio sulla Giustizia civile di Milano, che consente di risarcire tale danno utilizzando parametri liquidatori uniformi, oltre che in maniera unitaria, senza distinguere tra più voci, prevedendo inoltre la possibilità di operare una “personalizzazione” della liquidazione, così da adattare quantitativamente e qualitativamente i valori tabellari standard alle circostanze del caso concreto, sempre che il richiedente abbia dedotto e provato ulteriori e più gravi conseguenze dannose rispetto a quelle ordinariamente derivanti da pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età. Nate a Milano sotto l'illuminante guida dei principi della Corte di cassazione (in special modo, a Sezioni Unite) e della Corte costituzionale, le note tabelle si sono diffuse nel territorio nazionale, fino ad acquisire valore paranormativo – con l'intervento della cosiddetta “sentenza Amatucci” (Cass. civ., sez. III, 7 giugno 2011, n. 12408) – e, dunque, elevate a dignità di generale parametro risarcitorio per il danno non patrimoniale, tanto da influenzare il legislatore nello strutturare l'emananda tabella unica nazionale di cui all'art. 138 cod. ass. per le lesioni macropermanenti. La Corte di legittimità ha, infatti, ritenuto che fosse «specifico compito, al fine di garantire l'uniforme interpretazione del diritto (che contempla anche l'art. 1226 cod. civ., relativo alla valutazione equitativa del danno), fornire ai giudici di merito l'indicazione di un unico valore medio di riferimento da porre a base del risarcimento del danno alla persona, quale che sia la latitudine in cui si radica la controversia» (Cass. civ., n. 12408/2011 cit.). Come già accennato, anche il legislatore, con la legge annuale per il mercato e la concorrenza del 2017 (l. 4 agosto 2017, n. 124) ha espresso, quanto meno per le lesioni da sinistri stradali e da medical malpractice, la chiara opzione per una tabella unica da applicare sull'intero territorio nazionale che ricalca, di fatto, il sistema tabellare milanese. Se è pur vero che non esistono regole che consentano di soddisfare idealmente una perdita anatomica o funzionale e la sofferenza interiore ad essa connessa, cionondimeno la decisione giudiziaria potrà avvicinarsi a maggiore equità muovendo da parametri comuni, seppur convenzionalmente individuati. Il sistema tabellare o “a punto variabile” consente, infatti, di uniformare la liquidazione del danno non patrimoniale, assicurando che casi seppur non identici (non esistendo fattispecie del tutto uguali), ma per lo meno analoghi, siano trattati in modo eguale e, viceversa, che casi dissimili siano trattati in modo dissimile. Ciò fa sì che a pregiudizi di analoga portata corrispondano risarcimenti equivalenti, presupposto fondamentale per il rispetto del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost., eliminando o, quantomeno, limitando disuguaglianze e ingiustizie. Poiché i diritti lesi sono uguali per tutti, soltanto una uniformità pecuniaria di base può consentire di assicurare una tendenziale uguaglianza di trattamento, al tempo stesso «sintomo e garanzia dell'adeguatezza della regola equitativa applicata nel singolo caso, salva la flessibilità imposta dalla considerazione del particulare» (in questi termini, Cass. civ., n. 12408/2011 cit.). Non si può dimenticare in proposito la nota pronuncia emessa dalla Consulta nel 1986 (Corte cost., sent. n. 14 luglio 1986, n. 184) secondo cui occorre contemperare l'esigenza di uniformità pecuniaria di base con quella di “elasticità e flessibilità”, in modo da adeguare la liquidazione all'effettiva incidenza dell'accertata menomazione sulle attività della vita quotidiana, «attraverso le quali, in concreto, si manifesta l'efficienza psico-fisica del soggetto danneggiato»; esigenza recepita dalla giurisprudenza di legittimità (oltre a Cass. civ. n. 12408/2011 cit., tra le tante, Cass. civ., sez. III, 30 giugno 2011, n. 14402; Cass. civ., sez. III, 20 novembre 2012, n. 20292, che rinvia alle tabelle milanesi quale valido e doveroso strumento di liquidazione per tutti i giudici di merito. Le tabelle milanesi soddisfano, dunque, la necessità che la liquidazione del danno non patrimoniale sia il più possibile uniforme ed unitaria, tentando di realizzare, nella più ampia misura possibile, l'equità valutativa e di garantire la certezza nella liquidazione di tale tipologia di danno, evitando, attraverso l'utilizzo di criteri tabellari standard, l'incertezza e la varietà delle decisioni a parità di danni accertati. Ciò al fine di conciliare le rilevate esigenze, apparentemente antitetiche, di uniformità e di elasticità/flessibilità nella liquidazione del danno non patrimoniale. In definitiva, al di là di ogni possibile critica al sistema tabellare, la sua evidente funzione (e utilità) consiste nell'eliminazione o, quantomeno, riduzione di incertezze nella liquidazione del danno non patrimoniale, assicurando per quanto possibile l'uniformità di trattamento e l'integralità del risarcimento. Va da sé che un'adeguata liquidazione del danno non patrimoniale non può risolversi nella mera applicazione dei criteri tabellari standard, dovendo operarsi una “personalizzazione” allorché ne ricorrano i presupposti, ma è altrettanto indubitabile che una corretta, uniforme ed equa liquidazione non può prescindere dall'applicazione delle tabelle milanesi, posto che — come ormai riconosciuto in maniera unanime — l'interprete deve utilizzarle per la quantificazione del quantum risarcibile. Ferma restando, dunque, la necessità che siano apprezzate le conseguenze dannose peculiari che rilevano per l'eventuale “personalizzazione” del risarcimento, così da poter giungere a un equo e integrale ristoro, non può il giudice non tener conto delle regole generali di liquidazione, suscettibili di applicazione a casi analoghi.
I criteri elaborati dall'Osservatorio sulla Giustizia civile del Tribunale di Milano per la liquidazione del danno non patrimoniale rendono tendenzialmente calcolabile l'esito di una controversia giudiziaria anche per un'altra ragione. Occorre ricordare che nel 2009 l'Osservatorio, per rispettare il principio di liquidazione unitaria del complessivo danno non patrimoniale affermato dalle note sentenze delle Sezioni Unite della Corte di cassazione (Cass. civ., Sez. Un. 11 novembre 2008, n. 26972/26973 – 26974-26975), ha incluso nel valore monetario del punto base sia il danno conseguente alla lesione dell'integrità psicofisica della persona nei suoi risvolti anatomo-funzionali e relazionali, sia il danno per le sofferenze fisiche e interiori patite dal danneggiato (Spera, Ponzanelli). Ai fini della costruzione della tabella del danno non patrimoniale e del nuovo valore del punto, come è noto, l'Osservatorio ha preso le mosse dalle precedenti sentenze degli Uffici giudiziari milanesi, aderendo al principio di unitarietà del danno non patrimoniale, sancito dalle richiamate pronunce delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, proponendo una tabella recante valori monetari medi, comprensivi dei pregiudizi in passato liquidati a titolo di “danno biologico” e di “danno morale”, come pure la “personalizzazione”, per particolari condizioni soggettive, del “danno biologico”. Difatti, oltre ad assicurare – come si è detto – un'uniformità di trattamento a parità di lesioni, costituisce ulteriore pregio delle tabelle milanesi quello di prevedere un range di aumento personalizzato laddove la fattispecie concreta presenti peculiarità che vengano allegate e provate dal richiedente, sia in relazione ai profili anatomo-funzionali sia con riferimento alle sofferenze fisiche ed interiori. La struttura delle tabelle milanesi, dunque, è di semplice comprensione e consultazione per tutti gli operatori del diritto e consente alle parti, agli avvocati e ai liquidatori delle Compagnie di prevedere l'esito di un'eventuale controversia giudiziaria e, quindi, di prevenirla attraverso una composizione bonaria. Le tabelle milanesi si rivelano molto utili anche per transigere le controversie nel corso di un giudizio, in genere dopo l'istruttoria e, in particolare, all'esito del deposito della relazione di consulenza tecnica d'ufficio, laddove sussistano divergenze tra le parti quanto a natura ed entità dei postumi permanenti, nonché del nesso eziologico con i fatti di causa. Nomofilachia e certezza del diritto
L'esigenza di calcolabilità delle decisioni giudiziarie del danno non patrimoniale, soddisfatta dalle tabelle milanesi, permette di sollevare lo sguardo affrontando il tema più ampio della nomofilachia, intesa sia in senso verticale (che sovrappone la Corte di cassazione ai giudici di merito) sia in senso orizzontale (che coinvolge questi ultimi alla formazione del diritto vivente) (Canzio). Ebbene, come è stato rilevato da qualificata dottrina (Canzio, Irti), la nomofilachia – la cui fonte principale è riconducibile alla disciplina dell'ordinamento giudiziario (R.d. 30 gennaio 1941, n. 12, che all'art. 65 stabilisce, tra l'altro, che «la corte suprema di cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unità del diritto oggettivo nazionale […])» – è entrata negli ultimi anni nella grammatica del legislatore. Facciamo solo due esempi. L'art. 374, comma 3 c.p.c. stabilisce che se la Sezione Semplice della Corte di cassazione ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, deve rimettere a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso. E ancora l'art. 348-bis c.p.c. stabilisce l'inammissibilità dell'appello quando esso non ha una ragionevole probabilità di essere accolto. Ciò accade, in particolare, quando il gravame si scontra con i principi consolidati espressi dalla Suprema Corte. Il che, operativamente, significa, di fatto, rafforzare la funzione nomofilattica della Corte di legittimità introducendo, in buona sostanza, un vincolo sul precedente. Lo strumento della nomofilachia tende, dunque, a definire criteri che hanno lo scopo di evitare la deriva della giurisdizione verso l'instabilità e il diritto “liquido” (Canzio). Applicando l'istituto in questione al tema che ci occupa, è evidente che di fronte a principi molto autorevoli affermati dalle Sezioni Unite della Suprema Corte sul danno non patrimoniale, per andare incontro alle esigenze di nomofilachia e, quindi, di certezza del diritto, è necessario mantenere ferme, per dirla con le parole di Taruffo, delle “isole di stabilità”. Il tema della nomofilachia e dei precedenti è strettamente legato alla prevedibilità delle sentenze e alla certezza del diritto. Come ci insegnano recenti raccomandazioni del Consiglio d'Europa in materia di giurisdizione, quest'ultima non può essere separata dall'efficacia con la quale essa svolge la sua funzione. E per efficacia si intende che gli utenti del servizio giustizia si aspettano una tendenziale prevedibilità delle decisioni giudiziarie. La giurisdizione, come ha affermato Giovanni Legnini nella presentazione del volume sulla calcolabilità giuridica «deve assumere una consapevole responsabilità circa il recupero della prevedibilità del diritto». Autorevole dottrina (Irti) ha poi rilevato che la prevedibilità delle sentenze è un valore della nostra tavola costituzionale fondata sui diritti fondamentali e sulla divisione dei poteri. Ed è un valore al quale devono poter far affidamento sia le persone sia le imprese. Un valore che tutela la nostra libertà di azione, poiché la libertà è anche conoscere a che cosa si va incontro. In tal senso, libertà è anche permettere al danneggiante di conoscere quali conseguenze risarcitorie derivino dal fatto illecito. E le tabelle dell'Osservatorio sulla Giustizia civile del Tribunale di Milano, utilizzando un criterio che garantisce parità di trattamento a parità di conseguenze lesive, includendo nel valore monetario anche la “sofferenze soggettiva”, rende prevedibili le sentenze, tutelando, nel senso sopra indicato, la libertà dei consociati. Le tabelle milanesi, per dirla altrimenti, rispondono anche alla necessità di prevedibilità delle decisioni future (collegato al principio di uguaglianza), in base alla quale le parti debbono poter fare affidamento sul fatto che i giudici, a parità di conseguenze lesive, si comporteranno, sotto il profilo della valutazione e liquidazione del danno, allo stesso modo. In conclusione
In definitiva, la liquidazione del danno non patrimoniale mediante criteri predeterminati, validi per tutti i consociati a parità di conseguenze lesive, senza peraltro sottrarre al giudice la possibilità di adattare tali criteri alle circostanze del caso concreto, attraverso un'adeguata “personalizzazione” del risarcimento, consente di garantire la massima uguaglianza, oltre che la prevedibilità delle decisioni future, che può avere un effetto disincentivante delle liti giudiziarie, svolgendo pertanto – come ricordato dall'allora Primo presidente della Corte di cassazione, Santacroce, nella Relazione sull'amministrazione della giustizia nell'anno 2014 – anche una funzione economica ( «La prevedibilità – come ha scritto Taruffo – può svolgere anche una funzione economica, dato che se la decisione è prevedibile si può evitare di ricorrere al giudice», giacché «una giurisprudenza costante si può conoscere più facilmente e quindi orienta in modo più efficace i comportamenti dei consociati». Pronunce giurisprudenziali che comportino manifeste disparità di trattamento per quanto attiene non solo ai valori monetari riconosciuti a titolo risarcitorio, ma anche ai criteri utilizzati per la liquidazione, finirebbero con l'incidere negativamente sui fondamentali diritti della persona, e con il porsi in contrasto con i principi di eguaglianza e di prevedibilità delle decisioni, finendo con l'indebolire la fiducia riposta dai cittadini nell'amministrazione della giustizia sino a ledere, in ultima analisi, la certezza del diritto. L'utilizzo di criteri comuni e condivisi garantisce, per contro, l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, atteso che casi uguali sono decisi in modo uguale, e viceversa. È intuibile il riverbero negativo che ingiustificate disparità di trattamento avrebbero anche sull'esito delle conciliazioni e delle composizioni transattive in sede stragiudiziale, alimentando quale effetto il contenzioso giudiziario, incentivando sia la proposizione di infondate pretese risarcitorie sia il fenomeno del cosiddetto “forum shopping” (atteso che tutte le controversie che sorgono sul territorio nazionale trovano, attraverso l'applicazione di criteri tabellari uniformi, una soluzione coerente e il più possibile uniforme, a parità di conseguenze lesive). È stato autorevolmente osservato (Spera) che «in sede stragiudiziale, al fine di comporre bonariamente il conflitto, le parti avranno comunque bisogno di ancorare le rispettive proposte ad un criterio generalmente condiviso e dunque, ancora una volta, alle vigenti tabelle milanesi». Certo, è indubitabile e inevitabile che ciascuna fattispecie sottoposta all'attenzione del giudice presenti differenze rispetto ad altre, benché analoghe, ciò che può comportare una variazione in aumento del quantum risarcibile, possibile solo in presenza di «conseguenze dannose del tutto anomale ed affatto peculiari» (Cass. civ., sez. III, 27 marzo 2018, n. 7513). Di conseguenza, sono le peculiarità della fattispecie dannosa che possono portare a una diversa valutazione e liquidazione di analoghe conseguenze lesive, poiché inducono il giudice ad adattare, di volta in volta, la quantificazione del danno al caso concreto, facendo ricorso ad adeguata “personalizzazione”. È così possibile conciliare l'esigenza di uniformità di trattamento con quella di integralità del risarcimento. Anche sotto questo profilo si può dire che una decisione giudiziaria fondata sulle tabelle milanesi assicura una giustizia che garantisca un trattamento conforme ai principi di uniformità e di uguaglianza, nonché rispettosa del valore della prevedibilità delle decisioni. CANZIO G., Calcolo giuridico e nomofilachia, in “Calcolabilità giuridica” a cura di Carleo A., Bologna, 2017; IRTI N., Per un dialogo sulla calcolabilità giuridica, in “Calcolabilità giuridica” a cura di Carleo A., Bologna 2017; IRTI N., Un diritto incalcolabile, Torino, 2016; LEGNINI G., Presentazione del volume “Calcolabilità giuridica”, a cura di Carleo A., Bologna, 2017; PONZANELLI G., Riparazione integrale del danno senza il danno esistenziale, in Il danno non patrimoniale, Milano, 2009;
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