L'azione di accertamento della proprietà nella realtà condominiale

23 Gennaio 2019

Nell'azione di mero accertamento della titolarità del diritto di proprietà su un bene, a differenza dell'azione di rivendicazione che tende a recuperare il possesso del bene (ricongiungimento tra titolarità del diritto e potere di fatto), risulta del tutto carente la finalità recuperatoria. L'azione di accertamento della proprietà (comune o esclusiva) nell'edificio in condominio...
Il quadro normativo

L'azione di accertamento della proprietà non è espressamente prevista dal codice civile, tuttavia sembra esperibile dal proprietario - sia o non sia nel possesso materiale del bene - tutte le volte che sussista un interesse concreto ed attuale ad agire ai sensi dell'art. 100 c.p.c., ravvisabile qualora emerga un'esigenza di eliminare una situazione di incertezza oggettiva, fonte di concreto pregiudizio.

Questo interesse può certamente rinvenirsi nel caso di contestazione anche non esplicita della titolarità del diritto di proprietà che altro soggetto faccia o, al limite, al fine di evitare il compiersi dell'usucapione da parte del terzo possessore, sicché la predetta azione non è diretta alla modificazione di uno stato preesistente, ma essenzialmente all'eliminazione di ogni incertezza sulla legittimità del potere di fatto sulla cosa, di cui l'attore sia già investito, mediante la dichiarazione di puntuale rispondenza di esso allo stato di diritto.

Anche qui l'attore deve fornire la prova del diritto di proprietà di cui assume di essere titolare, ma, per la rilevanza giuridica del possesso di cui è già investito, è richiesta una prova meno rigorosa dell'azione di rivendicazione; ciò ha portato i giudici di legittimità a sottolineare che l'attore che proponga una domanda di accertamento della proprietà e non abbia il possesso della cosa oggetto del preteso diritto ha l'onere di offrire la stessa prova rigorosa richiesta per la rivendica - dimostrazione della titolarità del diritto mediante la prova di acquisto a titolo originario, eventualmente risalendo al titolo originario dei propri danti causa, o quanto meno il possesso continuato del bene conforme al titolo, da parte del proprietario ed eventualmente dei suoi danti causa, protratto per il tempo necessario all'usucapione del bene - perché egli esercita un'azione a contenuto petitorio, diretta al conseguimento di una pronuncia giudiziale utilizzabile per ottenere la consegna della cosa da parte di chi la possiede o la detiene; al contrario, è esonerato dall'onere della prova richiesta per la rivendicazione, dei vari trasferimenti della proprietà sino alla copertura del tempo sufficiente per usucapire, l'attore che propone un'azione di accertamento della proprietà ed abbia il possesso della cosa oggetto del preteso diritto - anche se tale minore rigore probatorio rispetto all'azione di rivendicazione non esime dall'onere di allegare e provare il titolo del proprio acquisto - e ciò perché tale azione tende non già alla modifica di uno stato di fatto, ma solo all'eliminazione di uno stato di incertezza circa la legittimità del potere di fatto sulla cosa di cui l'attore è già investito (Cass. civ., sez. II, 9 giugno 2000, n. 7894).

A ben vedere, anche nell'azione di rivendicazione, le domande, e le relative sentenze, contengono pur sempre un accertamento intorno al rapporto giuridico dedotto in giudizio, perché questo è il necessario presupposto per gli ulteriori provvedimenti invocati (si pensi alla condanna al rilascio dell'immobile); tuttavia, nel caso in esame, la domanda ha la specifica funzione e l'unico scopo di accertare quale sia la situazione giuridica esistente tra le parti, purché - come sopra detto - sussista un'incertezza e questa produca un danno.

L'elencazione aperta di cui all'art. 1117 c.c.

La prima norma che disciplina la materia condominiale, ossia l'art. 1117 c.c. - così come leggermente emendato ad opera della l. n. 220/2012 - contiene un'elencazione “aperta” (e non tassativa) delle parti comuni dell'edificio, in quanto il Legislatore si è prefisso soltanto di eliminare alcuni dubbi che erano sorti nella pratica, per cui si è sostanzialmente d'accordo nel ritenere che l'enumerazione contenuta in tale norma sia di carattere meramente esemplificativo e non esaustivo, sia per l'elasticità delle espressioni testuali adoperate nel disposto, sia per l'utilizzo come criterio di qualificazione della funzione in concreto svolta dalla parte al servizio della porzione di proprietà individuale.

Ne consegue che la disposizione in parola può essere integrata ab estrinseco se la cosa, per obbiettive caratteristiche strutturali, serve in modo esclusivo all'uso o al godimento di una parte dell'immobile, venendo meno, in questi casi, il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria, giacché la destinazione particolare del bene prevale sull'attribuzione legale, alla stessa stregua del titolo contrario (Cass. civ., sez. II, 28 febbraio 2007, n. 4787).

D'altronde, le cose comuni contenute nell'elenco dell'art. 1117 c.c. sono indicate sia specificatamente sia in maniera generica (per relationem): ad esempio, si parla al n. 1) di “tutte le parti dell'edificio necessarie all'uso comune”, e al n. 3) di “manufatti di qualunque genere che servono all'uso e al godimento comune”, intendendo far rientrare nella proprietà comune tutte quelle cose che, anche se non menzionate, posseggano la caratteristica dell'accessorietà, ossia risultino strumentali, in senso materiale e funzionale, in quanto necessarie per l'esistenza o per l'uso, oppure perché destinate ad esso o al servizio.

La conseguenza è che le parti “innominate” partecipano al regime di condominialità purché siano effettivamente destinate all'uso ed al godimento di tutti i condomini, sicché è decisiva - non l'astratta riconducibilità del bene alle categorie di cui all'art. 1117 citato, bensì - la funzione concreta che esse oggettivamente svolgono o sono in grado di svolgere (v., tra le altre, Cass. civ., sez. II, 9 giugno 2000, n. 7889, sul cortile; Cass. civ., sez. II, 19 dicembre 2002, n. 18091, riguardo al sottotetto; Cass. civ., sez. II, 27 luglio 2006, n. 17141, in ordine al sottosuolo; Cass. civ., sez. II, 2 marzo 2007, n. 4978, relativamente ai muri)

La presunzione di comunione

In un edificio diviso orizzontalmente per unità immobiliari - che possono essere sia appartamenti adibiti a civile abitazione, sia destinati ad usi diversi, quali negozi, uffici, magazzini, laboratori, e quant'altro - vi sono parti di esso necessarie oppure destinate all'uso o al godimento di tutti i condomini e parti destinate all'uso o al godimento di uno o di un gruppo di condomini, donde la necessità di stabilire quali sono queste parti comuni e quali possono o devono essere dichiarate di proprietà esclusiva o in uso esclusivo.

Il Legislatore si è, quindi, preoccupato di elencare espressamente all'art. 1117 c.c. le parti che possono essere oggetto di proprietà comune dei proprietari dei diversi piani, sempre che diversamente non risulti dal titolo.

Dunque, l'art. 1117 c.c. non è inderogabile per cui, se dal titolo risulta che una delle parti qualificata comune è di proprietà esclusiva, ha valore quanto precisato nel titolo e cade la presunzione di proprietà prevista dalla suddetta norma; in buona sostanza, la legge non impone che dette cose debbano appartenere a tutti i condomini sotto il profilo del diritto di proprietà, ma lascia libere le parti di demandare a chi deve esserne assegnata la proprietà medesima.

La comproprietà non è una necessità, atteso che la norma in oggetto riconosce in modo esplicito la possibilità che su tali cose esista, in virtù dell'autonomia privata, un diritto diverso dal condominio, conseguendone che un determinato locale (per esempio, l'alloggio per il portiere) può appartenere in proprietà privata ad un condomino, anche se destinato al comune vantaggio; esistono, però, delle parti comuni che, per ovvie ragioni pratiche, non possono essere assegnate in proprietà esclusiva (si pensi all'androne o al portone di ingresso).

A questo punto, dobbiamo fermare la nostra attenzione sulla citata “presunzione”.

La norma dell'art. 1117 c.c., stabilendo che «sono oggetto di proprietà comune dei proprietari dei diversi piani o porzioni di piani di un edificio, se il contrario non risulta dal titolo», le cose in essa elencate nei nn. 1), 2) e 3), non ha sancito una presunzione legale di comunione delle stesse - come erroneamente si è affermato in alcune sentenze della Suprema Corte - ma ha disposto che detti beni sono comuni a meno che non risultino di proprietà esclusiva in base ad un titolo (che può essere costituito o dal regolamento contrattuale o dal complesso degli atti di acquisto delle singole unità immobiliari oppure anche dall'usucapione).

In effetti, il termine “presunzione di comunione” non ricorre nell'art. 1117 c.c. e, comunque, contempla un fatto di conoscenza - in quanto l'art. 2727 c.c. definisce la presunzione come la conseguenza che la legge o il giudice deduce da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto - mentre qui si tratterebbe di una regola di attribuzione di determinati beni; si è, comunque, evidenziata la natura particolare di tale presunzione iuris tantum (v., tra le tante, Cass. civ., sez. II, 11 agosto 1990, n. 8233; Cass. civ., sez. II, 25 agosto 1986, n. 5167), cioè che ammette la prova contraria - a differenza di quella iuris et de iure, che è assoluta ed insuperabile - e, in particolare, che può essere superata soltanto dal “titolo” (non, ad esempio, dall'uso fatto da parte di uno dei condomini) e non da altri mezzi di prova (si parla anche di presunzione sui generis).

E che la norma non abbia previsto una presunzione risulta non solo dalla sua chiara lettera che ad essa non accenna affatto, ma anche dalla considerazione che, nel codice civile, si parla esplicitamente di presunzione ogni qual volta con riguardo ad altre situazioni in cui si è voluto richiamare questo mezzo probatorio (artt. 880, 881 e 899 c.c.); d'altra parte, se con la disposizione dell'art. 1117 c.c. si fosse effettivamente prevista la presunzione di comunione, si sarebbe ammessa la prova della proprietà esclusiva con l'uso di qualsiasi mezzo e non soltanto con il titolo.

In realtà, con le pronunce di legittimità nelle quali è stato richiamato il concetto di presunzione, non si è inteso affermare che la prova della proprietà esclusiva delle cose comuni di cui all'art. 1117 citato possa essere fornita con ogni mezzo e non con il solo titolo cui la norma espressamente si riferisce, ma si sono volute escludere, dallo stesso complesso delle cose comuni, quelle parti che, per le loro caratteristiche strutturali, risultino destinate oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari di un determinato edificio (v., ad esempio, Cass. civ., sez. II, 26 ottobre 2000, n. 14128, in materia di cortili).

In altri termini, affermandosi in tali decisioni che «la destinazione particolare vince la presunzione legale di condominio alla stessa stregua di un titolo contrario», benché si sia richiamato erroneamente il concetto di presunzione, del tutto estraneo alla norma dell'art. 1117 c.c., si è enunciato anche il principio, indubbiamente corretto, secondo cui una cosa non può proprio rientrare nel novero di quelle comuni se serva, per le sue caratteristiche strutturali, soltanto all'uso e al godimento di una parte dell'immobile oggetto di un autonomo diritto di proprietà (nel senso che l'accertamento relativo alla sussistenza del legame di essenziale indissolubilità e/o di accessorietà tra il bene di proprietà singola e gli altri beni, dotati astrattamente di una propria autonomia, è demandato al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se non affetto da vizi logici e giuridici, e allo stesso giudice è demandata anche l'interpretazione dei titoli allegati per escludere il diritto di condominio e la valutazione sulla loro idoneità e sufficienza rispetto al fine dedotto, v., di recente, Cass. civ., sez. II, 21 dicembre 2007, n. 27145; cui adde Cass. civ., sez. II, 16 febbraio 2004, n. 2943).

L'equivoco, che dall'espressione adottata in dette sentenze potrebbe derivare, consiste nel ritenere che la c.d. presunzione legale di comunione possa essere vinta sia dalla destinazione particolare del bene, sia dal titolo, mentre è solo da quest'ultimo che una cosa comune può risultare di proprietà singola, in quanto la destinazione particolare esclude già ab origine che il bene rientri nella categoria delle cose comuni, e che ad esso possa, quindi, riferirsi la norma dell'art. 1117 c.c.

La prova della proprietà esclusiva

Succede, talvolta, che l'azione di accertamento non sia esercitata dall'amministratore per far acclarare, in favore della collettività, la condominialità di una parte dell'edificio, ma dal singolo al fine di invocarne la titolarità esclusiva.

Al riguardo, la giurisprudenza ha chiarito che il condomino, che pretenda l'appartenenza esclusiva di un bene compreso tra quelli elencati espressamente o per relationem dall'art. 1117 c.c., ha l'onere di fornire la prova della sua asserita proprietà esclusiva derivante da titolo contrario, in difetto di tale prova, infatti, deve essere affermata l'appartenenza dei suddetti beni indistintamente a tutti i condomini (Cass. civ., sez. II, 4 aprile 2001, n. 4953: nella specie, si era confermata la sentenza impugnata, secondo la quale, in difetto di titolo contrario, doveva considerarsi appartenente in comune a tutti i condomini il vano interrato destinato all'accesso ai garages, compresa quella parte la quale serviva solo per l'accesso all'ultimo garage, che solitamente veniva utilizzata in modo particolare unicamente dal proprietario di questo e non anche dagli altri condomini).

Sul piano probatorio, quindi, deve ritenersi che la presunzione legale di proprietà comune di alcune parti dell'edificio in condominio, che si sostanzia sia nella destinazione all'uso comune del manufatto, sia nell'attitudine oggettiva al godimento collettivo, dispensa il condominio dalla prova del suo diritto ed in particolare dalla c.d. probatio diabolica, con la conseguenza che quando un condomino pretenda l'appartenenza esclusiva di uno dei beni indicati nell'art. 1117 c.c. (la cui elencazione non è tassativa) è onere dello stesso condomino, onde vincere detta presunzione, dare la prova della sua asserita proprietà esclusiva, senza che a tal fine sia sufficiente il suo titolo di acquisto ove lo stesso non contenga in modo chiaro ed inequivocabile elementi utili ad escludere la condominialità del bene (Cass. civ., sez. II, 7 giugno 1988, n. 3862).

Per decidere dell'appartenenza, in proprietà comune o esclusiva di un condomino, di un locale sito nel perimetro dell'edificio condominiale, non incluso fra quelli di proprietà comune elencati nell'art. 1117 c.c. o nel regolamento condominiale contrattuale - ad avviso di Cass. civ., sez. II, 10 febbraio 1994, n. 1366 - acquistano rilievo decisivo le vicende attinenti all'appartenenza in comunione pro indiviso o in proprietà esclusiva del suolo e di quanto sopra vi si costruisce, essendo onere del condomino, che pretenda la proprietà esclusiva del locale di per sé non destinato ad uso comune, di fornire la prova del suo titolo di acquisto originario o derivativo.

Resta inteso che, stante il disposto dell'art. 1131, comma 2, c.c., il quale prevede la legittimazione passiva dell'amministratore solo in ordine alle liti riguardanti le parti comuni dell'edificio, ove un condomino chieda l'accertamento della proprietà esclusiva di parte dell'edificio, viene meno la legittimazione passiva dell'amministratore, dovendo la causa, riguardante l'estensione del diritto dei singoli in dipendenza dei rispettivi acquisti, svolgersi nei confronti di tutti i condomini; nell'ipotesi in cui la suddetta controversia venga proposta e decisa solo nei confronti dell'amministratore, il contraddittorio non può ritenersi validamente instaurato, e, in difetto di giudicato esplicito o implicito sul punto, tale invalida costituzione del contraddittorio deve essere rilevata d'ufficio anche in sede di legittimità (Cass. civ., sez. II, 6 agosto 2001, n. 10828, in un'ipotesi concernente un sottotetto).

Stesso discorso va fatto qualora si agisca per l'accertamento della proprietà esclusiva, non in via principale ma in via riconvenzionale, sicché, qualora il convenuto in rivendicazione eccepisca che la proprietà del bene rivendicato non è comune ai sensi dell'art. 1117 c.c., ma appartiene a lui soltanto, ed occorre, per valutare la fondatezza della domanda di rivendicazione, l'accertamento del titolo di proprietà opposto dal convenuto, si configura un'ipotesi di litisconsorzio necessario ed il contraddittorio deve essere integrato nei confronti di tutti i comproprietari, essendo dedotto in giudizio un rapporto unico ed inscindibile, e potendo la sentenza conseguire un risultato utile solo se pronunciata in contraddittorio di tutti i soggetti attivi e passivi del rapporto (Cass. civ. sez. II, 27 luglio 1999, n. 8119).

Sul punto, si è, da ultimo, puntualizzato (Cass. civ., sez. un., 13 novembre 2013, n. 25454) che, per stabilire se ricorre un'ipotesi di litisconsorzio necessario, occorre considerare non le causae petendi (cioè le astratte configurazioni dei rapporti), bensì i petita delle domande giudiziali proposte (da intendersi come gli effetti che si intendono conseguire), sicché non sussiste un'ipotesi di litisconsorzio necessario ove il condomino attore, invocando che una particella sia condominiale, chieda la condanna di altro condomino convenuto alla demolizione delle opere di delimitazione realizzate sulla particella da questi, il quale si limiti a resistere alla domanda, senza svolgere domanda riconvenzionale di accertamento della proprietà esclusiva della particella.

Le situazioni di condominio parziale

Accade, infine, che l'accertamento di alcune parti dell'edificio in proprietà esclusiva sia appannaggio non del singolo, ma di un gruppo di condomini abitanti nello stabile, e tale declaratoria si riveli strumentale all'attribuzione delle spese di manutenzione di dette parti e all'applicazione delle maggioranze per decidere i relativi interventi: il pensiero corre all'istituto del c.d. condominio parziale, del quale - per esigenze di completezza - è opportuno fare un rapido accenno.

La giurisprudenza, al fine di sostenere l'esistenza ex lege del condominio parziale, ricorre, per lo più, al principio secondo cui la destinazione all'uso (sia pure potenziale), su cui si sostanzia la presunzione legale di alcune parti comuni, deve sussistere anche per quei beni (specificati nell'art. 1117 c.c.), la cui attitudine funzionale è il godimento collettivo, nel senso che, nel condominio di edifici, in mancanza di una specifica contraria previsione del titolo costitutivo, la destinazione all'uso e al godimento comune, nella quale si sostanzia la presunzione legale di proprietà comune di talune parti dell'edificio in condominio, deve risultare da elementi obiettivi, e cioè dall'attitudine funzionale del bene al servizio dell'edificio, considerato nella sua unità, e al godimento collettivo, prescindendosi dal fatto che il medesimo sia o possa essere utilizzato da tutti i condomini; per contro, quando il bene, per obiettive caratteristiche strutturali e funzionali, serva in modo esclusivo al godimento di una parte dell'edificio in condominio, che formi oggetto di un autonomo diritto di proprietà, viene meno il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria di tutti i condomini, giacché la destinazione particolare vince la presunzione legale di comunione, alla stessa stregua di un titolo contrario (Cass. civ., sez. II, 29 dicembre 1987, n. 9644).

Si deve, pertanto, aver riguardo a quella relazione oggettiva tra cosa ed edificio, per cui la prima deve essere destinata strutturalmente e funzionalmente all'uso comune dei vari condomini, e l'ambito condominiale resta individuato in funzione di quella destinazione; quindi, é concepibile che, in un unico complesso condominiale, in cui esista una pluralità di servizi o di cose comuni, ognuna di esse vada riguardata come “comune” - non già alla titolarità dei condomini, ma soltanto - a quella parte di essi al cui uso essa è strutturalmente e funzionalmente destinata, sicché, qualora si accerti una tale limitata destinazione, e si escluda che alla stessa partecipi in qualsiasi modo altra parte dei condomini, servita da analogo ed autonomo servizio, non è possibile ritenere che la totalità dei condomini possa indifferentemente far valere il proprio diritto di comunione su una qualsiasi delle cose strutturalmente destinate a parti diverse dell'edificio.

Affermato, in linea generale, che le parti indicate nell'art. 1117 c.c. possono appartenere, pur non essendo di proprietà esclusiva, ad un gruppo minore di quello integrale del condominio, e poiché il fondamento della presunzione di comunione si trae dalla connessione delle parti con il godimento comune, è quindi, logico che in tal caso la portata della comunione sia ristretta nei limiti del godimento comune, per cui risulta consequenziale ritenere, ad esempio: che un andito, un pianerottolo, un ballatoio che servano soltanto all'ingresso di due condomini, si intenderanno comuni solo a questi; che un lastrico solare, il quale copra soltanto una parte dell'edificio, si presenti comune solo ai proprietari delle unità condominiali sottostanti; che il cortile circoscritto dalle porzioni di una parte soltanto dell'edificio, si presuma essere in comunione solo ai titolari di quelle porzioni; che, quando in un complesso di edifici esistono due portinerie, i locali rispettivamente inservienti siano in comunione limitata a ciascuno dei due gruppi che ad esse fanno capo.

Affinando i concetti, la giurisprudenza più recente ha affermato che il collegamento, che nell'edificio unisce quali beni primari, gli impianti ed i servizi con i piani e le porzioni di piano in proprietà solitaria, si contrassegna per la “strumentalità”; nel legame fisico tra tali beni consistente nell'incorporazione tra entità inscindibili, o nella congiunzione stabile tra entità separabili, la norma di cui all'art. 1117 c.c. considera soprattutto lo scopo: vale a dire, la necessità per l'esistenza o per l'uso, oppure la destinazione all'uso o al servizio delle une in favore delle altre; al collegamento teleologico - che si manifesta appunto come necessità per l'esistenza o per l'uso, oppure come destinazione funzionale all'uso o al servizio - la considerazione normativa assegna rilevanza decisiva ai fini dell'attribuzione del diritto di condominio.

I giudici di legittimità definiscono il collegamento tra beni propri e comuni come “relazione di accessorietà”, mettendo in evidenza, ad un tempo, il legame funzionale e la connessione materiale; la relazione di accessorietà enuncia, sul piano funzionale, il carattere complementare delle cose, degli impianti e dei servizi di uso comune rispetto ai piani o alle porzioni di piano in proprietà solitaria (vale a dire, il difetto di utilità fine a se stessa delle parti comuni e la loro subordinazione funzionale).

L'accessorietà esprime, inoltre, la connessione materiale, che determina la mancanza di autonomia fisica dei beni e, ciò nonostante, non esclude la loro perdurante individualità giuridica nell'orbita dell'incorporazione o della congiunzione stabile; la relazione di accessorietà raffigura il fondamento tecnico del diritto di condominio, in quanto individua la ragione specifica, di cui la norma dettata dall'art. 1117 citato si avvale per conseguire lo scopo, consistente nell'attribuzione del diritto di condominio in capo ai proprietari delle unità immobiliari di cui è composto l'edificio.

Illuminanti, in proposito, le acute osservazioni di una sentenza del Supremo Collegio (Cass. civ., sez. II, 2 febbraio 1995, n. 1255): indipendentemente dal titolo - consistente nell'assetto predisposto dall'autonomia privata - nell'àmbito della più vasta contitolarità, si ammette la costituzione per legge dei c.d. condominii parziali sul fondamento del collegamento strumentale tra le parti comuni ed i piani o le porzioni di piano: vale a dire, sulla base della necessità per l'esistenza o per l'uso, oppure della destinazione all'uso o al servizio di determinate cose, servizi ed impianti limitatamente a vantaggio di talune unità immobiliari.

I presupposti per l'attribuzione della proprietà comune a vantaggio di tutti i partecipanti vengono meno se le cose/servizi/impianti di uso comune, per oggettivi caratteri materiali e funzionali, sono necessari per l'esistenza o per l'uso, oppure sono destinati all'uso o al servizio non di tutto l'edificio, ma di una sola parte (o di alcune parti) di esso; pertanto, del diritto (soggettivo) di condominio formano oggetto soltanto le cose/servizi/impianti, effettivamente uniti alle unità abitative dal collegamento strumentale: vale a dire, le sole parti di uso comune, che siano necessarie per l'esistenza, oppure siano destinate all'uso o al servizio di determinati piani o porzioni di piano.

In effetti, le norme dettate in materia di condominio non contemplano l'edificio come tutto unico e le parti comuni quale insieme aggregato dalla funzione unitaria, bensì considerano come beni i piani o le porzioni di piano in proprietà solitaria e, ad un tempo, le cose, i servizi e gli impianti in condominio; le norme dettate in materia di condominio disciplinano le parti comuni separatamente, in ragione del collegamento strumentale tra le singole cose, i servizi e gli impianti e determinate unità abitative.

Più precisamente, regolano la relazione di accessorio a principale, che intercorre tra le cose, i servizi e gli impianti comuni e i singoli piani e le porzioni di piano; in consonanza con la funzione dell'interesse sotteso (quale fondamento del diritto e criterio per l'individuazione dell'oggetto) e come qualsivoglia diritto reale, il diritto di condominio ha ragione d'essere in quanto garantisce l'utilità inerente ad un bene determinato; sul piano funzionale, i termini dell'utilità e dell'interesse in concreto sono definiti dalla relazione di accessorietà e oltre i confini di questa, l'utilità e l'interesse non sussistono e l'attribuzione del diritto non si giustifica.

In conclusione

È, in effetti, sotto gli occhi di tutti che non sempre il collegamento strumentale intercorre tra tutte le cose/impianti/servizi e tutti i piani o le porzioni di piano compresi nel fabbricato; indipendentemente dal titolo configurato dallo strumento prescelto dall'autonomia privata per regolare la proprietà comune delle cose, degli impianti e dei servizi elencati nell'art. 1117 c.c., nell'àmbito dalla più vasta contitolarità riguardante l'intero edificio, sorge la figura del condominio parziale, sulla base del collegamento strumentale dei beni che, di fatto, può essere più circoscritto: vale a dire, sulla base della necessità per l'esistenza o per l'uso, oppure della destinazione all'uso o al servizio di determinate cose, impianti e servizi a vantaggio soltanto di talune unità immobiliari (per le conseguenze in tema di quorum deliberativo, calcolato con esclusivo riferimento a costoro ed alle unità immobiliari direttamente interessate, v., di recente, Cass. civ., sez. II, 2 marzo 2016, n. 4127).

Guida all'approfondimento

Pezzani, Azioni a tutela della proprietà comune e litisconsorzio necessario tra comproprietari, in Riv. dir. proc., 2014, 1573;

Natali, Negozio di accertamento e transazione nel condominio, in Contratti, 2009, 603;

Scamuzzi, Per provare la proprietà esclusiva il regolamento deve essere vincolante, in Immob. & diritto, 2006, fasc. 7, 41;

Mazzieri, Spese condominiali ed accertamento della titolarità dell'immobile, in Giust. civ., 2003, I, 1901;

De Tilla, Sulla prova della proprietà esclusiva nel condominio, in Arch. loc. e cond., 2002, 40.

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