Licenziamento per g.m.o. di personale in posizione fungibile e relativo regime di tutela in caso di violazione dei criteri di correttezza e buona fede
28 Gennaio 2019
Massima
In tema di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, il nuovo regime sanzionatorio introdotto dalla l. n. 92 del 2012 prevede di regola la corresponsione di un'indennità risarcitoria, compresa tra un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità, riservando la tutela reintegratoria (e cioè il ripristino del rapporto di lavoro), con un risarcimento fino ad un massimo di dodici mensilità, alle ipotesi residuali, che fungono da eccezione, nelle quali l'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento è connotata di una particolare evidenza; ne consegue che la violazione dei criteri di correttezza e buona fede nella scelta tra lavoratori adibiti allo svolgimento di mansioni omogenee dà luogo alla tutela indennitaria. Il caso
La Corte d'appello di Milano, in riforma della pronuncia di primo grado, annullava il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato alla dipendente, condannando la società datrice di lavoro a reintegrarla nel posto di lavoro ed al pagamento di un'indennità risarcitoria pari a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.
La Corte territoriale, premettendo che il licenziamento era stato determinato da una riduzione di un appalto di pulizie con il committente, rilevava come il fatto che la sede produttiva ove la lavoratrice eseguiva i lavori di appalto delle pulizie fosse unica, anche se frazionata tra i vari palazzi dislocati nell'area circoscritta del complesso aziendale del committente, nonché la costante rotazione del personale sulle prestazioni lavorative e l'assoluta fungibilità delle mansioni e quindi del personale addetto all'appalto rendevano di per sé privo di sufficiente funzione individualizzante il lavoratore licenziabile nella persona della dipendente in esame per la riduzione dell'appalto di 60 ore settimanali su 90 lavoratori.
Pertanto, la Corte d'appello concludeva che, in ossequio alla regola di cui all'art. 1175, c.c., avrebbe dovuto applicarsi il criterio dell'anzianità aziendale, che invece non era stato rispettato, rendendo così illegittimo il licenziamento.
In particolare la Corte territoriale osservava che la violazione delle regole di correttezza di cui all'art. 1175, c.c., nella scelta del lavoratore da licenziare spezza il nesso di causa tra il giustificato motivo addotto ed il licenziamento della dipendente, rendendo così rispetto al recesso, il fatto posto a base del licenziamento non rilevante, vale a dire manifestamente insussistente.
Per la cassazione della pronuncia proponeva ricorso la società datrice di lavoro con due motivi. La dipendente resisteva con controricorso. La questione
Il caso in esame consente di riflettere su due delicate questioni: la prima concerne l'individuazione dei criteri di selezione del lavoratore da licenziare in caso di soppressione di un posto di lavoro in presenza di più lavoratori in posizione fungibile, vale a dire con professionalità sostanzialmente omogenee; la seconda, strettamente connessa alla prima, attiene al regime di tutele disegnato dal legislatore in tema di illegittimità del recesso per giustificato motivo oggettivo nel caso di violazione delle regole di correttezza e buona fede. Invero, proprio con riferimento a questo profilo, la fattispecie all'attenzione della Corte di cassazione permette di ribadire il principio di diritto secondo il quale il nuovo regime sanzionatorio introdotto dalla l. n. 92 del 2012 prevede di regola la corresponsione di un'indennità risarcitoria, compresa tra un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità, riservando il ripristino del rapporto di lavoro, con un risarcimento fino ad un massimo di dodici mensilità, alle ipotesi residuali, che fungono da eccezione, nelle quali l'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento è connotata di una particolare evidenza, sicché la violazione dei criteri di correttezza e buona fede nella scelta tra lavoratori adibiti allo svolgimento di mansioni omogenee dà luogo alla tutela indennitaria.
Il tema concerne quella che la Carta sociale europea, ratificata con l. n. 30 del 1999, definisce all'art. 24 il diritto dei lavoratori a non essere licenziati senza un valido motivo, ponendo tra questi quello “basato sulle necessità di funzionamento dell'impresa”.
In via preliminare va osservato come, fermo restando il fatto che il controllo giudiziale riguardo la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo non possa estendersi al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive proprie del datore di lavoro, la Suprema Corte evidenzia che nel caso di licenziamenti inerenti l'attività produttiva e l'organizzazione del lavoro, ai sensi dell'art. 3, l. n. 604 del 1966, in cui il giustificato motivo oggettivo si identifica nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, la scelta del dipendente o dei dipendenti da licenziare per il datore di lavoro non è totalmente libera: risultando la stessa limitata, oltre che dal divieto di atti discriminatori, dal rispetto delle regole di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375, c.c., quali canoni ai quali deve conformarsi ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e, quindi, anche il recesso di una di esse (Cass. n. 7046 del 2011; Cass. n. 11124 del 2004; Cass. n. 13058 del 2003; Cass. n. 16144 del 2001; Cass. n. 14663 del 2001).
In particolare, la Cassazione sottolinea che, a fronte dell'esigenza derivante da ragioni inerenti all'attività produttiva, di ridurre di una o più unità il numero dei dipendenti dell'azienda nella scelta del lavoratore licenziato, tra più lavoratori occupati in posizione di piena fungibilità, occorre rispettare le regole di cui all'art. 1175, c.c.
Fulcro dell'analisi è allora indagare se i criteri da seguire per individuare il dipendente da licenziare senza tradire l'essenza dei principi generali di buona fede e di correttezza di cui agli artt. 1375 e 1175, c.c., possano essere individuati dal datore di lavoro ovvero se debbano essere connotati da un'oggettività determinabile ex ante, sulla scorta di quelli previsti dall'art. 5, l. n. 223 del 1991 (Cass. n. 25192 del 2016).
In questa situazione la giurisprudenza di legittimità ha ribadito che può farsi riferimento, pur nella diversità dei rispettivi regimi, ai criteri che l'art. 5, l. n. 223 del 1991, detta per i licenziamenti collettivi nell'ipotesi in cui l'accordo sindacale ivi previsto non abbia indicato criteri di scelta diversi e, conseguentemente, prendere in considerazione in via analogica i criteri dei carichi di famiglia e dell'anzianità (non assumendo, invece, rilievo le esigenze tecnico produttive e organizzative data la indicata situazione di totale fungibilità).
In analoga prospettiva si è puntualizzato che il ricorso a detti criteri risulta giustificato non tanto sul piano dell'analogia, quanto piuttosto perché i criteri di scelta previsti dal predetto art. 5 rappresentano uno standard particolarmente idoneo a consentire al datore di lavoro di esercitare il suo, unilaterale, potere selettivo coerentemente con gli interessi del lavoratore e con quello aziendale (Cass. n. 6667 del 2002). Le soluzioni giuridiche
Al fine di comprendere meglio l'esatta portata della fattispecie in esame, sembra opportuno ricordare, in via preliminare, che il giustificato motivo oggettivo di licenziamento - determinato cioè da ragioni inerenti l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro ed il regolare funzionamento di essa - è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, quale espressione della libertà di iniziativa economica costituzionalmente tutelata dall'art. 41, Cost.
Invero, come osservato dalla giurisprudenza di legittimità, ciò che è vietato non è la ricerca del profitto mediante riduzione del costo del lavoro o di altri fattori produttivi, ma il perseguire il profitto (o il contenimento delle perdite) soltanto mediante un abbattimento del costo del lavoro realizzato con il puro e semplice licenziamento di un dipendente che, a sua volta, non sia dovuto ad un effettivo mutamento dell'organizzazione tecnico-produttiva, ma esclusivamente al bisogno di sostituirlo con un altro da retribuire di meno, malgrado l'identità (o la sostanziale equivalenza) delle mansioni (Cass. n. 13516 del 2016).
Al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, con la conseguenza in ordine all'insindacabilità dei profili di congruità e opportunità della scelta imprenditoriale che ha comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il lavoratore licenziato, sempre che risulti l'effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato (Cass. n. 24235 del 2010; Cass. n. 18409 del 2016; Cass. n. 16544 del 2016). In proposito si pensi all'ipotesi in cui il recesso possa risultare ingiustificato per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità e sulla pretestuosità della causale addotta dall'imprenditore, ove il licenziamento sia stato motivato richiamando l'esigenza di far fronte a situazioni economiche sfavorevoli ovvero a spese notevoli di carattere straordinario ed in giudizio si accerti che la ragione indicata non sussiste (Cass. n. 25201 del 2016).
Va ricordato che secondo un consolidato orientamento della Suprema Corte, la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo presuppone, da un lato, l'esigenza di soppressione di un posto di lavoro, e dall'altro, l'impossibilità di diversa collocazione del lavoratore licenziato (repêchage), consideratane la professionalità raggiunta, in altra posizione lavorativa analoga a quella soppressa (Cass. n. 4460 del 2015; Cass. n. 5592 del 2016; Cass. n. 12101 del 2016; Cass. n. 24882 del 2017; Cass. n. 27792 del 2017).
Deve allora osservarsi che ai fini del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, l'art. 3,l. n. 604 del 1966, richiede: la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente, senza che sia necessaria la soppressione di tutte le mansioni in precedenza attribuite allo stesso; la riferibilità della soppressione a progetti o scelte datoriali, insindacabili dal giudice quanto ai profili di congruità e opportunità, purché effettivi e non simulati, diretti ad incidere sulla struttura e sull'organizzazione dell'impresa, ovvero sui suoi processi produttivi, compresi quelli finalizzati ad una migliore efficienza ovvero ad incremento di redditività; l'impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse, elemento che, inespresso a livello normativo, trova giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro, che nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale, che non può essere condizionata da finalità espulsive legate alla persona del lavoratore. Sul punto occorre altresì precisare che l'onere probatorio della sussistenza dei suddetti presupposti grava sul datore di lavoro, il quale può assolverlo anche mediante ricorso a presunzioni, restando escluso che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili (Cass. n. 21438 del 2018).
Per quanto attiene più specificamente al licenziamento per giustificato motivo oggettivo in occasione di una generica riduzione di personale omogeneo e fungibile, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che non sono utilizzabili né il normale criterio della posizione lavorativa da sopprimere in quanto non più necessaria, né il criterio della impossibilità di repêchage, in quanto si è al cospetto di un'ipotesi in cui tutte le posizioni lavorative appaiono equivalenti e tutti i lavoratori sono potenzialmente licenziabili (Cass. n. 7046 del 2011). Tuttavia, in questi casi il datore di lavoro deve pur sempre improntare l'individuazione del soggetto o dei soggetti da licenziare ai principi di correttezza e buona fede, cui deve essere informato, ai sensi dell'art. 1175, c.c., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e, quindi, anche il recesso di una di esse (Cass. n. 16144 del 2001).
In proposito, deve osservarsi, che in tale contesto già in precedenza la giurisprudenza di legittimità aveva affermato, che l'art. 5,l. n. 223 del 1991, offre uno standard idoneo ad assicurare che la scelta sia conforme al canone di buona fede e correttezza; ma che tuttavia, non può escludersi l'utilizzabilità di altri criteri, purché non arbitrari, ma improntati a razionalità e graduazione delle posizioni dei lavoratori interessati. A riguardo, deve notarsi che in una fattispecie esaminata dalla Suprema Corte, si è fatto riferimento, per quanto concerne i criteri usati nel caso concreto dal datore di lavoro, al maggiore costo della retribuzione, al minore rendimento lavorativo ed alle condizioni economiche complessive di ciascun lavoratore, i quali sono apparsi ragionevoli in quanto oggettivamente enucleabili tra fatti riferibili alla comune esperienza con riguardo alle qualità ed alle condizioni personali del lavoratore. Sul punto la Cassazione ha rilevato inoltre, che tali criteri si prestavano, ciascuno di essi ed anche in concorso tra loro, alla elaborazione di una graduatoria e dunque consentivano, su basi oggettive, una comparazione tra tutti i lavoratori interessati dalla riduzione dell'organico in quanto assegnati a posizioni di lavoro fungibili (Cass. n. 25192 del 2016).
Per quanto concerne la struttura graduata del regime di tutele prevista dalla l. n. 92 del 2012 è opportuno rilevare che in caso di licenziamento illegittimo il legislatore ha previsto all'art. 18, comma 4, l. n. 92 del 2012, una tutela reintegratoria definita “attenuata” (per distinguerla da quella più incisiva di cui al comma 1), in base alla quale il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore ed al pagamento di una indennità risarcitoria dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, in misura comunque non superiore a 12 mensilità. Il comma 5 dello stesso articolo delinea, invece, una tutela meramente indennitaria per la quale il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore al pagamento di una indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di 12 mensilità e un massimo di 24, tenuto conto di vari parametri contenuti nella disposizione medesima. In proposito, la giurisprudenza di legittimità ha osservato che la linea di confine tra le due tutele, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo, è disegnata dal comma 7 dell'art. 18, st. lav., novellato secondo la seguente formulazione testuale per cui il giudice: “Può altresì applicare la predetta disciplina (ndr. quella di cui al quarto comma) nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma” (Cass. n. 331 del 2018).
Sul punto la Cassazione non ha mancato di osservare che da più parti è stata segnalata l'incertezza di portata applicativa cui può dar luogo la norma citata che ricollega alla nozione di “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo” conseguenze rilevanti quali il riconoscimento di una tutela di tipo reintegratorio in luogo di una mera compensazione economica. Inoltre, la stessa giurisprudenza di legittimità ha recentemente ribadito che – poiché il giudice “può” attribuire la cd. tutela reintegratoria attenuata, tra tutte le “ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi” del giustificato motivo oggettivo, esclusivamente nel caso in cui il “fatto posto a base del licenziamento” non solo non sussista, ma anche a condizione che detta “insussistenza” sia “manifesta”, non pare dubitabile che l'intenzione del legislatore, pur tradottasi in un incerto testo normativo, sia quella di riservare il ripristino del rapporto di lavoro ad ipotesi residuali che fungono da eccezione alla regola della tutela indennitaria in materia di licenziamento individuale per motivi economici (Cass. n. 331 del 2018). Osservazioni
In conclusione è interessante osservare che il caso in esame configura un'ipotesi differente da quella in cui il recesso per giustificato motivo oggettivo non trova giustificazione nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, ma riguarda la soppressione di posti di lavoro di personale adibito all'espletamento di un servizio per un appalto integralmente venuto meno. In tale ipotesi, la Suprema Corte specifica che la ragione giustificatrice del recesso del datore di lavoro si rinviene nella cessazione dell'appalto, e dunque è esclusivamente al nesso causale che lega la ragione organizzativa e produttiva posta a fondamento del recesso con la posizione lavorativa non più necessaria ad identificare il soggetto destinatario del provvedimento espulsivo, che deve farsi riferimento, senza necessità di fare ricorso ad ulteriori criteri selettivi.
Invero i criteri di correttezza e buona fede vengono in rilievo nell'individuazione dei lavoratori da licenziare solo ove si sia in presenza di una generica esigenza del datore di lavoro di riduzione di personale omogeneo e fungibile e non qualora alla base del recesso si ponga la cessazione di un appalto (Cass. n. 25563 del 2017).
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