La crisi di impresa alla luce del nuovo diritto fallimentare

01 Febbraio 2019

Con la Legge delega n. 155 del 19 ottobre 2017 e con l'approvazione del Codice della crisi il legislatore si è posto l'ambizioso obiettivo di risolvere le crisi d'impresa in modo più veloce e, soprattutto, più efficace, con l'anticipazione significativa dell'intervento concorsuale ed il trattamento prioritario delle proposte che garantiscono il proseguimento delle attività d'impresa.
Premessa

Con la Legge delega n. 155 del 19 ottobre 2017 e con l'approvazione del Codice della crisi il legislatore si è posto l'ambizioso obiettivo di risolvere le crisi d'impresa in modo più veloce e, soprattutto, più efficace, con l'anticipazione significativa dell'intervento concorsuale ed il trattamento prioritario delle proposte che garantiscono il proseguimento delle attività d'impresa. L'autore analizza la questione tenendo conto della mutata realtà aziendale rispetto agli anni in cui la vecchia legge fallimentare del 1942 si trovò ad operare nonché di un quadro legislativo in continuo fermento e, ancora oggi, in continua evoluzione.

Le cause della crisi d'impresa

La crisi dell'impresa, come ogni stato patologico, ha alla base un'alterazione del suo equilibrio generale. Tale alterazione, prima di coinvolgere l'impresa nel suo complesso, trae spesso origine da specifici e particolari settori del sistema aziendale, svelandone i primi ma inequivocabili sintomi. Vi è pertanto sempre una fase prodromica e sintomatica che, se individuata tempestivamente, potrebbe essere sanata con apposite contromisure senza sfociare necessariamente in una fase patologica irreversibile.

Poiché le cause che danno luogo alla crisi di impresa possono essere endogene ed esogene, appare evidente che principalmente le prime, in quanto interne al sistema aziendale, possono essere più facilmente corrette direttamente dall'imprenditore.

Le seconde, invece, essendo esterne al sistema aziendale sfuggono, almeno al loro sorgere, a qualsiasi controllo da parte della governance (si pensi a modifiche di trattati internazionali o al riacutizzarsi di conflitti sindacali, a crisi economiche o a fibrillazioni dei mercati finanziari; ma gli esempi potrebbero continuare all'infinito). In tali casi, anche se amministratori accorti potrebbero avere già messo in atto misure preventive, l'imprenditore potrà intervenire solo in un secondo momento, a danno ormai avvenuto, basandosi soprattutto, oltre che sulle proprie capacità, sulla solidità strutturale della propria azienda nonché sulla capacità delle stessa di adattarsi alle mutate condizioni del sistema esterno ad esso. Va da sé che una attenta ed oculata gestione aziendale costituisce il primo fondamentale passo per evitare una crisi ancora in divenire: prevenire è infatti meglio che curare!

E' pertanto evidente che è soprattutto per le crisi endogene che vi è uno spazio maggiore per una tempestiva azione di risanamento da parte dell'imprenditore, se non altro per la possibilità di attingere agli indicatori delle cosiddette “condizioni di salute” dell'impresa, quali il bilancio d'esercizio, il rendiconto finanziario e gli altri strumenti di controllo della gestione.

Irreversibilità della crisi d'impresa

Ma qual è il momento in cui una crisi di impresa ancora embrionale o comunque appena all'inizio del suo iter e quindi ancora completamente reversibile diventa così grave da assumere i caratteri patologici della irreversibilità? Naturalmente non esiste un momento e, conseguentemente, una formula valida in tutti i casi. Ogni impresa ed ogni contesto socio economico in cui questa si trova ad operare hanno peculiarità proprie che sfuggono ad una catalogazione di ordine generale. Situazione questa ben chiara ai giudici delle sezioni fallimentari i quali troppo spesso sono chiamati in causa in extremis, quando ormai c'è poco o nulla da fare.

Una risposta al quesito sembra averlo dato il legislatore del 2017 allorché ha inteso lo stato di crisi come “probabilità di futura insolvenza” che, in quanto tale, precede cronologicamente lo stato di insolvenza; cioè lo stato patologico in cui la irreversibilità risulta ormai definitivamente conclamata.

Stato d'insolvenza e temporanea difficoltà

Viene così forse definitivamente superata l'impasse relativa alla dicotomia tra temporanea difficoltà e stato di insolvenza. Con la prima, infatti, l'impresa è ancora fondamentalmente sana e almeno apparentemente lontana da una crisi irreversibile – fasi di temporanea difficoltà, lato sensu intese, anche cicliche, rientrano anzi nella fisiologia della vita dell'impresa –; con la seconda invece la crisi è ormai irreversibile ed appunto per questo costituisce il presupposto del fallimento perché essa, più che combattuta, viene constatata.

Nella temporanea difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni invece, l'insolvibilità è più attenuata e soprattutto non è definitiva; gli inadempimenti hanno un carattere presuntivamente transeunte e per essi può ancora trovarsi rimedio restituendo all'impresa, in un adeguato lasso di tempo, la sua originaria vitalità. Si rientra, quindi, nel campo della probabilità, anche forte, ma non della certezza. Nel fallimento tutto ciò non sarebbe possibile: per la sua dichiarazione l'insolvenza è, e deve essere, certa, definitiva e quindi irreversibile.

Autorevole dottrina ha attribuito ad insolvenza e temporanea difficoltà connotazioni autonome dalla crisi di impresa, considerandole quasi avulse dalle scelte aziendali adottate. Indubbiamente entrambe le fasi critiche costituiscono degli effetti di cause tutte da scandagliare e sono sintomi premonitori (temporanea difficoltà) o terminali (stato di insolvenza) di una patologia che non nasce quasi mai improvvisamente, ma ha sempre un percorso evolutivo che l'imprenditore accorto dovrebbe poter intercettare (cause esogene) se non prevenire (cause endogene).

Il dibattito oggi in corso sulla riforma del diritto fallimentare, anche dopo la legge delega del 19 ottobre 2017 n. 155, tende sempre più ad attribuire un ruolo strategico allo stato di insolvenza quale presupposto del fallimento (rectius: liquidazione giudiziale). Anche perché la finalizzazione delle procedure concorsuali alla tutela dei creditori, sempre tutelati prioritariamente dal legislatore del 1942, ha dovuto fare i conti con la tutela di interessi che nel corso degli anni hanno assunto un ruolo altrettanto prioritario agli occhi del legislatore successivo, quali la prosecuzione della produzione, il mantenimento dell'occupazione, la tutela del sistema economico quando non addirittura, in caso di crisi di imprese di grandi dimensioni, dell'intero sistema Paese oltre che, naturalmente, la tutela dello stesso imprenditore.

Va da sé che una così vasta gamma di interessi in gioco debba spingere l'interprete a capire se la crisi di cui trattasi sia genericamente di tipo economico e non anche di tipo finanziario. In quest'ultimo caso potremmo trovarci di fronte ad una crisi meramente congiunturale - si pensi, ad esempio, alle diverse forme possibili di illiquidità quali, per citarne solo alcune, la difficoltà di liquidare beni aziendali non più necessari alla produzione, ad eccedenze del passivo sull'attivo sanabili nel breve periodo – che non esclude l'economicità della produzione in sé considerata. Così come in caso di una crisi non meramente finanziaria ma strutturale, e quindi di più grave intensità – si pensi, per esempio, ad una insufficiente produttività dovuta alla obsolescenza degli impianti piuttosto che ad una restrizione della domanda, che implicano una obiettiva difficoltà di sopravvivenza dell'impresa – potrebbe in ipotesi essere superata con una adeguata ristrutturazione.

In conclusione

Oggi, con la legge delega del 19 ottobre 2017 n. 155 ed il Codice della crisi - anche sulla spinta della “Raccomandazione della Commissione Europea su un nuovo approccio al fallimento dell'impresa e dell'insolvenza” (Raccomandazione 2014/135/UE) - il legislatore ha predisposto un quadro legislativo che permette alle imprese con difficoltà finanziarie non ancora patologiche - e quindi ad imprese essenzialmente sane - di ristrutturarsi prima che la patologia diventi irreversibile e quindi prima che la dichiarazione di fallimento sia inevitabile. Il Governo è stato pertanto delegato ad introdurre una definizione dello stato di crisi, intesa come probabilità di futura insolvenza, mantenendo espressamente in vita l'attuale nozione di insolvenza di cui all'art. 5 del Regio Decreto n. 267 del 16 marzo 1942.

Sicché, a coloro i quali si sono sempre dimostrati critici su un diritto fallimentare di più ampio respiro rispetto a quello tradizionale, che affianchi alle istanze liquidatorie ed esecutive quelle sociali ed assistenziali – si è parlato polemicamente di diritto fallimentare trasformato in diritto dell'economia assistita – il legislatore ha opposto la volontà di salvaguardare l'intero tessuto imprenditoriale, ritenendo che la perdita di una realtà aziendale, grande o piccola che sia, possa nuocere gravemente all'intero sistema economico e produttivo.

Lungi in realtà dall'idea di contrapporre frontalmente procedure liquidatorie e procedure conservative – le prime non postulano obbligatoriamente il frazionamento dell'azienda così come le seconde non implicano il salvataggio della stessa ad ogni costo – la soluzione adottata dal legislatore sembra porsi nella direzione di dare adeguata tutela a nuovi interessi particolarmente presenti nell'idem sentire senza farne pagare troppo il prezzo ai creditori dell'impresa.

Una situazione di compromesso la cui validità ed efficacia sarà tutta da verificare.

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