Transazione, rinuncia o mera dichiarazione di scienza? il testo della dichiarazione non è sufficiente

Teresa Zappia
04 Febbraio 2019

Al fine di potere qualificare come transazione la dichiarazione liberatoria del lavoratore, contenuta nel verbale della conciliazione avvenuta in sede sindacale, è necessario non soltanto ravvisare nel testo, o aliunde, elementi che manifestino la chiara e piena consapevolezza del dichiarante di abdicare o transigere diritti determinati o oggettivamente determinabili, ma anche le reciproche concessioni tra le parti, escludendosi l'applicazione dell'art. 2113, comma 4, c.c. qualora, invece, si sia in presenza di una mera quietanza, recte dichiarazione di scienza.
Massima

Al fine di potere qualificare come transazione la dichiarazione liberatoria del lavoratore, contenuta nel verbale della conciliazione avvenuta in sede sindacale, è necessario non soltanto ravvisare nel testo, o aliunde, elementi che manifestino la chiara e piena consapevolezza del dichiarante di abdicare o transigere diritti determinati o oggettivamente determinabili, ma anche le reciproche concessioni tra le parti, escludendosi l'applicazione dell'art. 2113, comma 4, c.c., qualora, invece, si sia in presenza di una mera quietanza, recte dichiarazione di scienza.

Il caso

La lavoratrice M.T., in seguito alla conclusione in sede sindacale di una transazione con la società-datrice di lavoro Valem Sportswear s.r.l, impugnava il contratto trovando accoglimento la domanda della stessa sia in primo che in secondo grado. I giudici, infatti, avevano escluso la sussistenza di un accordo transattivo per difetto di reciproche concessioni tra le parti, cosicché il verbale di conciliazione risultava di fatto contenere una mera dichiarazione di scienza della lavoratrice, da considerarsi quale “quietanza a saldo” della somma dovuta alla stessa a titolo di TFR .

La società proponeva ricorso in Cassazione sostenuto da due motivi: l'organo giudicante avrebbe erroneamente sostenuto che la conciliazione non contenesse una transazione, essendo la M.T. consapavole, perché informata, delle proprie rinuncie, in modo particolare tenuto conto del luogo “protetto” in cui il contratto era stato stipulato, ossia presso la sede sindacale. La riccorrente contesta anche la mancata dichiarazione di decadenza dal potere di impugnare la transazione: l'organo giudicante avrebbe errato nell'affermarne la mancata eccezione sul punto in quanto la stessa sarebbe da ritenersi inclusa in quella di avvenuta conciliazione sindacale, inserita nell'atto di comparsa e risposta della società.

La questione

Quando la dichiarazione liberatoria, rilasciata dal lavoratore al datore di lavoro e contenuta nel verbale di conciliazione, può qualificarsi come rinuncia o transazione e non quietanza, recte mera dichiarazione di scienza priva di effecacia negoziale?

Le soluzioni giuridiche

La Corte di cassazione dichiara infondati i motivi del ricorso addotti dalla società. La decisione aderisce all'orientamento giurisprudenziale secondo il quale, al fine di potere qualificare una dichiarazione liberatoria scritta, resa tra i soggetti a conclusione del rapporto di lavoro, come quietanza a saldo occorre considerare che la stessa costituisce, di regola, una semplice esternazione del soddisfacimento dei diritti del dichiarante, ergo manifestazione di un convincimento soggettivo, e per tale ragione priva di qualsiasi efficacia negoziale. Diversamente, perché nella suddetta dichiarazione siano ravvisabili gli estremi di un negozio di rinuncia o transazione, sarà necessario individuare elementi interni al documento, ovvero aliunde desumibili, mediante i quali potere sostenere che il dichiarante abbia avuto chiara e piena consapevolezza del contenuto, con l'intenzione di abdicare o transigere sui propri diritti (ex plurimis: Cass. 31 gennaio 2011, n. 2146) Indefettibile sarà inoltre il connotato peculiare del contratto regolato dagli artt. 1965 ss., c.c., ossia l'aliquid datum e l'aliquid retentum. Laddove, quindi, difetti la reciprocità delle concessioni, potrà sicuramente negarsi la natura transattiva della dichiarazione.

Nel caso di specie, la lavoratrice non solo non aveva espresso la volontà di privarsi di diritti specifici, determinati o determinabili, ma neanche sembra possibile inviduare concessioni reciproche tra le parti in quanto, a fronte della rinuncia della M.T., il datore di lavoro si limitava a corrispondere quanto già dovuto ex lege a titolo di TFR.

Dall'impossibilità di qualificare la dichiarazione liberatoria come transazione ne deriva la non applicabilità del quarto comma dell'art. 2113, c.c. Infatti, perché possa escludersi la impugnabilità della conciliazione conclusa in sede sindacale è comunque necessario che all'atto in questione possa essere riconosciuta natura transattiva, e non di mera quietanza liberatoria.

Al fine di inquadrare nel migliore modo possibile la questione trattata nel caso in esame, sembra utile esporre, anche se brevemente, quali siano gli elementi caratterizzanti la quietanza, da un lato, e la transazione, dall'altro.

La quietanza, prevista in via generale all'art. 1191, c.c., è un atto unilaterale recettizio, non negoziale, assimilabile alla confessione stragiudiziale di un fatto estintivo dell'obbligazione alla quale il debitore, destinatario della stessa, era tenuto, con conseguente applicabilità della relativa disciplina legale (Cass., sez. II, 31 ottobre 2008, n. 26325; Cass., Ssez. III, 10 marzo 2000,n. 2813; diversamente in dottrina: E. Capobianco, Contributo allo studio della quietanza , ESI. Napoli, 1992) Si è comunque evidenziato come la quietanza possa atteggiarsi, a secondo del caso, come una rinuncia, qualora si dismetta con la stessa un diritto certo e determinato, ovvero una transazione, se finalizzata alla composizione di una lite con individuazione di un aliquid datum e un aliquid retentum, o ancora un negozio di accertamento, se destinata ad eliminare l'incertezza circa una situazione giuridica preesistente. Occorrerà dunque esaminare la situazione nella sua specificità al fine di poterne valutare la concreta funzione nel caso specifico.

Su un piano differente si colloca invece la transazione, strumento negoziale utile alle le parti che, mediante reciproche concessioni, mirano a risolvere fuori da un'aula di tribunale una lite attuale o potenziale. A ques'ultima si aggiungono, come “elementi costitutivi” della fattispecie contrattuale, la res dubia, ossia l'incertezza circa il rapporto giuridico intercorrente tra le parti e le rispettive pretese (contra: S. Ruperto, Gli atti con funzione transattiva, Giuffrè, Milano, 2002) e la corrispettività del sacrificio sopportato, o meglio le reciproche concessioni, senza che acquisti rilievo l'eventuale squilibrio tra il datum ed il retentum (art. 1970, c.c.).

Nell'ipotesi in cui il verbale di conciliazione contenga attestazioni del lavoratore indefinite e generiche, quale quella di accettare la somma indicata rinunciando “ad ogni ulteriore pretesa” nei confronti del datore di lavoro, difficilmente potrebbe perorarsi la tesi della piena consapevolezza del dichiarante circa l'oggetto della propria abdicazione. Altrettando discutibile sarebbe eccepire una presunzione di consapevolezza semplicemente sulla base del luogo, rectius sede sindacale, presso il quale la conciliazione è avvenuta. Benchè in via generale si ritenga maggiormente tutelata la posizione giuridica del lavoratore, è bene rammentare quanto sostenuto dalla giurisprudenza in merito: è stata esclusa infatti l'applicazione dell'art. 2113, comma 4, c.c., in quei casi in cui non era stata provata un'effettiva assistenza del lavoratore, con mera presenza della parte sindacale e conseguente inidoneità del suo intervento a superare la presunzione di non libertà del consenso del dichiarante, sottraendo lo stesso dalla condizione di soggezione rispetto al datore di lavoro. Si richiede infatti una partecipazione attiva non solo nell'attività di conciliazione e, dunque, di composizione della controversia, ma anche nel rendere il lavoratore edotto circa gli effetti delle proprie dichiarazioni, ponendolo nelle condizioni di comprendere perfettamente a quali diritti sta rinunciando e in che misura ( Cass., 4 settembre 2018, n. 21617; Cass., 23 ottobre 2013, n. 24024), così giustificandosi la deroga prevista alla impugnabilità di cui all'art. 2113, comma 4, c.c.

Ad avviso della giurisprudenza, la rinuncia ad ogni ulteriore pretesa nei confronti della parte datoriale, risultante dal testo del verbale di conciliazione, non potrà avere valore dirimente nell'accertamento della volontà dispositiva del dichiarante in quanto enunciazioni di tal genere sono assimilabili alle clausole di stile, ergo ex se insufficienti a comprovarne l'effettiva sussistenza(Cass., 17 maggio 2006, n. 11536; Cass., 26 maggio 2004,n. 10172). Ne consegue il riconoscimento in capo al lavoratore della facoltà di promuovere, nell'ordinario termine di prescrizione, l'azione per il soddisfacimento di pretese ulteriori insoddisfatte, anche se in un momento successivo alla dichiarazione liberatoria. Oltre a ciò, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, non costituiscono né rinuncia né transazione le dichiarazioni liberatorie predisposte dalla parte datoriale su moduli prestampati o standard.

Il discrimen ai fini della corretta qualificazione giuridicasembra doversi individuare nella determinatezza o oggettiva determinabilità dell'oggetto dell'atto: laddove esso non sia delimitato e, quindi, l'interessato non ne possa avere piena consapevolezza, non potrà configurarsi alcuna rinuncia o transazione, bensì una mera manifestazione del convincimento del dichiarante di essere soddisfatto di tutti i propri diritti, non venendo precluse eventuali future azioni. Tuttavia la giurisprudenza ha evidenziato che anche una dichiarazione con la quale il lavoratore abbia abdicato a maggiori somme genericamente dovute sulla base di una serie di titoli in astratto ipotizzabili in relazione al rapporto di lavoro, e alla conclusione dello stesso, potrà assumere valore di rinuncia ovvero di transazione. Ciò nel momento in cui, mediante l'interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze, quali ad esempio il contegno precedente e successivo delle parti, risulti accertata la consapevolezza del lavoratore circa i diritti da dismettere, specificamente ed univocamente individuati ovvero oggettivamente individuabili, e il cosciente intento dello stesso di rinunciarvi o transigere sui medesimi (Cass. 8 settembre 2017, n. 20976; Cass. 25 gennaio 2008, n. 1657; Cass. 12 luglio 2006, n. 15792). È dunque l'individuazione specifica dei diritti sottesi che consente di superare l'unilateralità della dichiarazione la quale acquisterà, sussistendo gli ulteriori elementi essenziali della fattispecie contrattuale, efficacia di negozio bilaterale transattivo (G. Orefice, La dichiarazione liberatoria: quietanza a saldo del pagamento o transazione sul rapporto contestato?, in I Contratti, 2011, 7, pp. 698 ss.).

Osservazioni

Preclaro è il valore determinante dell'attività di interpretazione del giudice, fondata sui criteri ermenuitici degli artt. 1362 ss., c.c. In modo particolare, l'attenzione sembra doversi poggiare sugli artt. 1362 e 1364, c.c.: in una sorta di movimento ciclico, l'inteprete sposta la propria analisi dal testo all'intento delle parti, per tornare nuovamente alla lettera dell'accordo, sempre con il fine precipuo di individuare l'effettiva volontà dei contraenti. Appare condivisibile la posizione giurisprudenziale secondo la quale, alla luce dell'art. 1364, c.c., per quanto generali siano le espressioni usate nel contratto, questo non può che comprendere gli oggetti sui quali le parti si sono proposte di statuire.

Qualora, quindi, rispetto ad un medesino rapporto, siano sorte o possano sorgere più liti, in relazione a numerose questioni che risultino essere controverse tra le parti, l'avere esse dichiarato, nello stipulare una transazione, di non avere più nulla a pretendere in dipendenza del rapporto, non implica ipso facto che il contratto investa tutte le controversie attuali o potenziali.

Infatti, sempre in forza di quanto disposto all'art. 1364, c.c. e fatta salva la possibilità di dimostrare che i contraenti intesero riferirsi anche a quanto non specificatamente menzionato, se il negozio transattivo concerne soltanto alcune delle suddette controversie esso non si estende a quelle rimaste estranee all'accordo, a onta dell'ampiezza delle espressioni adoperate, le quali piuttosto che agevolare i contraenti, sembrano invece generare insicurezza (Cass. 18 maggio 2018, n. 12367; Cass. 27 novembre 1991, n. 11428; Cass. 28 novembre 1981, sent. n. 6351).

Per approfondire:

  • E. GRAGNOLI, Una transazione sull'indennità di anzianità e la sua discutibile interpretazione, in Lav. giur., 2018, 3, pp. 301 ss.;
  • P. ALBI, La dismissione dei diritti del lavoratore-art. 2113, in Il Codice civile Commentato, Giuffrè, Milano, 2016.

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