Il carattere abusivo del leveraged buy out

05 Febbraio 2019

Il carattere abusivo di un'operazione di leveraged buy out va escluso quando sia individuabile una compresenza, non marginale, di ragioni extrafiscali, che possono anche consistere in esigenze di natura organizzativa ed in un miglioramento strutturale e funzionale dell'azienda.
Massima

Il carattere abusivo di un'operazione di leveraged buy out va escluso quando sia individuabile una compresenza, non marginale, di ragioni extrafiscali, che possono anche consistere in esigenze di natura organizzativa ed in un miglioramento strutturale e funzionale dell'azienda. In applicazione del suddetto principio, deve essere negato il carattere abusivo di una operazione di trasferimento di un pacchetto azionario di una società, con l'assunzione di impegni economici per il finanziamento dell'operazione e con conseguente riduzione del carico fiscale, solo perché lo stesso risultato economico avrebbe potuto raggiungersi attraverso un'operazione di fusione.

Il caso

La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha risolto un complesso caso di abuso del diritto, basato sul meccanismo del leveraged buy out.

Nel caso di specie, la società contribuente aveva impugnato le sentenze emesse dalla Commissione Tributaria Provinciale, con le quali erano stati respinti i ricorsi dalla stessa proposti avverso l'avviso di accertamento, con il quale l'Agenzia delle Entrate aveva recuperato a tassazione un maggior imponibile ai fini Irpeg, Irap e Iva per l'anno 2003, ed avverso l'avviso di irrogazione di sanzioni, con il quale era stata applicata, ai sensi dell'art. 13, comma 1, D.lgs. n. 471/97, la sanzione pecuniaria per omesso versamento diretto di imposte.

In particolare, con l'avviso di accertamento oggetto di impugnazione, l'Ufficio aveva contestato la natura elusiva dell'intera operazione di riorganizzazione aziendale posta in essere nel 2003, e che era stata articolata secondo lo schema del leveraged buy out, mediante la costituzione di una nuova società (newco), la quale, previo indebitamento bancario di euro 23.800.000,00, aveva acquistato sia una società italiana, controllata al 100% da società lussemburghese del medesimo Gruppo della contribuente e titolare del 50% di altra società italiana, sia il restante 50% della stessa società, dalla persona fisica che lo deteneva.

Per effetto di tale operazione, la prima società acquistata dalla newco aveva acquisito il controllo del 100% della società italiana, incorporando la stessa e a sua volta venendo poi incorporata nella newco, che aveva infine cambiato denominazione sociale (quella della attuale ricorrente).

Poiché il debito verso la banca per il rimborso del finanziamento e degli interessi generati dalla operazione di leveraged buy out costituiva componente negativa di reddito della prima società acquirente e, per successione, della newco che l'aveva incorporata, con l'avviso di accertamento l'Ufficio aveva quindi rettificato la dichiarazione dei redditi presentata dalla ricorrente per l'anno 2003 ai fini Ires e Irap, ritenendo indeducibili la posta per interessi passivi di euro 662.995,00 e la quota di ammortamento degli oneri connessi al finanziamento.

Secondo la ricostruzione operata dall'Amministrazione finanziaria, infatti, l'intera operazione di riassetto societario integrava un'operazione elusiva ai sensi dell'art. 37-bis d.P.R. n. 600/1973, non sussistendo valide ragioni economiche che potessero giustificare l'oneroso finanziamento sostenuto.

Con separato avviso di irrogazione di sanzioni l'Ufficio, come detto, aveva inoltre applicato alla società una sanzione pecuniaria, ai sensi dell'art. 13, comma 1, D.lgs. n. 471/1997, per omesso versamento di imposte.

La Commissione Tributaria Regionale, previa riunione dei due ricorsi, accogliendo l'appello della contribuente, riteneva infondata la pretesa dell'Ufficio, osservando al riguardo che l'operazione di leveraged buy out, posta in essere per favorire l'uscita di alcuni titolari dalla compagine societaria e per favorire l'entrata di altri soggetti, era del tutto legittima, avendo l'appellante dimostrato che le risorse finanziarie utilizzate erano state reperite con finanziamento bancario e non mediante finanziamento diretto concesso dalla società "obiettivo" e che non era stato compromesso l'equilibrio economico e finanziario con la fusione della società "obiettivo" nella Newco.

La CTR aggiungeva inoltre che la legittimità dell'operazione si evinceva anche dalle valide ragioni economiche dimostrate dalla contribuente, ossia quella di agevolare l'uscita del socio, a cui era riconducibile la quota di partecipazione del 50% detenuta dalla società oggetto di incorporazione, e l'ingresso di due nuovi soci con adeguate risorse finanziarie.

Sottolineava infine il giudice di appello che, successivamente all'operazione di leveraged buy out, erano stati conseguiti ricavi molto elevati e, quindi, redditi imponibili dichiarati, dai quali si evinceva che la strategia perseguita non era stata quella di aggirare l'ordinamento tributario, ma piuttosto di efficientamento aziendale/societario.

Relativamente poi agli interessi passivi, i giudici di merito ritenevano che essi fossero deducibili, in quanto inerenti, avendo la società dimostrato che si trattava di oneri derivanti dal finanziamento bancario, estinto anticipatamente ed utilizzato appunto per finalità aziendali.

La Commissione Tributaria Regionale, non ravvisando quindi scopi elusivi nella operazione, annullava anche la sanzione irrogata e la relativa cartella di pagamento, sottolineando che l'art. 37-bisdel Dpr n.600/73 si limitava a disporre l'inopponibilità all'Amministrazione di atti e negozi giuridici posti in essere ed il disconoscimento dei vantaggi economici conseguiti, ma non ad irrogare sanzioni.

La questione

Avverso la suddetta decisione l'Amministrazione finanziaria proponeva, infine, ricorso per cassazione, censurando la sentenza per omessa e/o insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio e ribadendo che, diversamente da quanto ritenuto dalla CTR, la contribuente aveva posto in essere un'operazione che aveva come unico scopo quello di danneggiare il fisco, ossia di far "...emergere per cinque anni nel conto economico della "nuova" s.p.a. … la posta deducibile di euro 660.000,00 annui di interessi passivi e di oltre euro 150.000,00 di ammortamento di oneri finanziari capitalizzati, del pari deducibili”.

Osservava poi, al riguardo, la ricorrente:

- che la società oggetto di incorporazione era una società florida e capace di autofinanziamento, per cui non vi era ragione di "riorganizzarla" caricandola di debiti;

- ciò era invece avvenuto perché, per effetto dell'operazione di "LBO", l'ingente debito contratto dall'acquirente con la banca era stato traslato, tramite le fusioni, a carico della società;

- l'operazione non era sorretta da alcuna ragione economica, perché l'assetto azionario non era mutato.

Affermava, inoltre, la difesa erariale che la motivazione resa dalla Commissione Tributaria Regionale risultava carente, perché volta a valorizzare circostanze del tutto irrilevanti.

Al riguardo, l'Agenzia delle Entrate puntualizzava infatti che, anche se la Commissione Tributaria Regionale aveva affermato che l'operazione in esame serviva a facilitare l'ingresso di nuovi investitori al posto dei precedenti, che intendevano monetizzare il proprio investimento, l'operazione in debito era stata realizzata esclusivamente per acquisire la partecipazione (50%) del socio persona fisica, il quale però, anziché uscire "monetizzando", era rimasto nella società scaturita dalle diverse fusioni, sempre con la quota del 50%.

Risultava inoltre del tutto ininfluente, perché fatti successivi all'operazione di fusione a debito, la circostanza che negli anni successivi all'operazione la nuova società avesse realizzato importanti utili, regolarmente sottoposti a tassazione.

La CTR aveva invece tralasciato di prendere in esame il punto decisivo della controversia, che imponeva di verificare per quali ragioni era stata creata una posizione debitoria in capo alla società, derivante dalle fusioni, senza mutarne la struttura azionaria, e per quale motivo non era stata effettuata una cessione diretta, senza indebitamento.

Le soluzioni giuridiche

Secondo la Suprema Corte il ricorso risulta infondato.

I giudici di legittimità premettono che l'orientamento giurisprudenziale in materia di operazioni abusive è consolidato nel ritenere che “il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il cui fondamento si rinviene nell'art. 37-bis d.P.R. n. 600/1973, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l'uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un'agevolazione o un risparmio di imposta, in difetto di ragioni economiche apprezzabili, che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici” (Cass., n. 4604/2014; Cass., n. 25537/2011), con la conseguenza che “il carattere abusivo va escluso quando sia individuabile una compresenza, non marginale, di ragioni extrafiscali, che non necessariamente si identificano in una redditività immediata, potendo consistere in esigenze di natura organizzativa ed in un miglioramento strutturale e funzionale dell'azienda”.

La Cassazione ha, del resto, avuto modo di precisare, con riferimento ai processi di ristrutturazione e riorganizzazione aziendale effettuati nell'ambito di grandi gruppi di imprese, che il divieto di comportamenti abusivi, fondati sull'assenza di valide ragioni economiche e sul conseguimento di un indebito vantaggio fiscale, "non vale ove quelle operazioni possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi d'imposta poiché va sempre garantita la libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti anche un differente carico fiscale" (Cass. n. 439/2015).

In applicazione del suddetto principio, è stato quindi negato il carattere abusivo di una complessa operazione di trasferimento di un pacchetto azionario di una società, con l'assunzione di notevoli impegni economici per il finanziamento dell'operazione e con conseguente riduzione del carico fiscale, solo perché lo stesso risultato economico avrebbe potuto raggiungersi attraverso un'operazione di fusione, essendo peraltro non contestate dall'amministrazione finanziaria le necessità organizzative volte ad una gestione unitaria di uno dei settori di attività del gruppo (Cass. n. 1372/2011).

Proprio poi con riguardo alle operazioni di fusione, evidenzia la Corte, l'orientamento del giudice di legittimità è fermo nel ritenere che l'Amministrazione finanziaria ha la facoltà di disconoscere i vantaggi tributari conseguiti solo se poste in essere senza valide ragioni economiche ed allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio d'imposta, essendo pertanto necessario il concorso delle condizioni costituite dall'assenza di valide ragioni economiche nell'effettuazione dell'operazione di fusione, dall'esclusività dello scopo di ottenere, attraverso l'operazione stessa, un risparmio d'imposta, e dalla "fraudolenza", che deve connotare i mezzi utilizzati per il raggiungimento del predetto fine esclusivo (Cass. n. 19227/2006; n. 16097/2007; n. 4317/2003).

Tale orientamento, evidenzia la Cassazione, è peraltro confortato anche dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, la quale, con la sentenza 10 novembre 2011, in causa C-126/10, Foggia - Sociedade Gestora de Participagoes Sociais SA, ha precisato che la nozione di valide ragioni economiche, ai sensi dell'art. 11, n. 1, lett. a), della direttiva 90/434, “trascende la mera ricerca di un'agevolazione puramente fiscale” (punto 34), che “un'operazione di fusione...unicamente volta a raggiungere tale scopo non può costituire una valida ragione economica ai sensi di detta disposizione” (sentenza 17 luglio 1997 in causa C-28/95, Leur-Bloem, punto 47) e che può “costituire una valida ragione economica un'operazione di fusione fondata su più obiettivi, tra i quali possono anche figurare considerazioni di natura tributaria, a condizione tuttavia che queste ultime non siano preponderanti nell'ambito dell'operazione prevista” (punto 35).

E la stessa Corte di Giustizia ha, inoltre, affermato che, conformemente all'art. 11, n. 1, lett. a), della direttiva 90/434, la constatazione che un'operazione di fusione è diretta esclusivamente ad ottenere un'agevolazione fiscale, e non è quindi effettuata per valide ragioni economiche, può costituire una presunzione che tale operazione ha come obiettivo principale o come uno degli obiettivi principali la frode o l'evasione fiscali (punto 36), specificando però che “per accertare se l'operazione prevista abbia un tale obiettivo, le autorità nazionali competenti non possono limitarsi ad applicare criteri generali predeterminati, ma devono procedere, caso per caso, ad un esame globale dell'operazione di cui trattasi. Infatti, l'istituzione di una norma di portata generale che escluda automaticamente talune categorie di operazioni dall'agevolazione fiscale, a prescindere da un'effettiva evasione o frode fiscale, eccederebbe quanto è necessario per evitare una tale frode o evasione fiscale e pregiudicherebbe l'obiettivo perseguito della direttiva 90/434 (sentenza Leur-Bloem, punti 41 e 44)” (punto 37).

Nel caso in esame, in conclusione, secondo la S.C., facendo corretta applicazione dei suddetti principi, con motivazione adeguata ed immune da vizi logici, la CTR aveva escluso la sussistenza della contestata elusione fiscale, sul presupposto che l'operazione posta in essere nel 2003 rientrasse in un più ampio progetto di ristrutturazione societaria e che non fosse individuabile nessuno dei presupposti di operatività della norma antielusiva recata dall'art. 37-bis d.P.R. n. 600/1973.

La Commissione Tributaria Regionale aveva, infatti, riconosciuto che l'operazione di leveraged buy out non aveva la finalità di aggirare obblighi e divieti previsti dall'ordinamento tributario, poiché risultava compatibile con il cd. "divieto di assistenza finanziaria", previsto dall'art. 2358 c.c., dato che nessuna delle condizioni previste dalla predetta disposizione normativa si era verificata.

Sotto tale profilo, in particolare, i giudici di secondo grado spiegavano che la contribuente aveva, in primo luogo, dimostrato che le risorse finanziarie utilizzate per porre in essere l'operazione (euro 23.800.000) erano state reperite con finanziamento bancario diretto e non con finanziamento concesso dalla società "obiettivo", condizione quest'ultima che avrebbe invece reso illecita l'operazione, e, in secondo luogo, che con la fusione della società obiettivo "non era stato compromesso l'equilibrio economico e finanziario" (non si era verificato il "depotenziamento", per usare l'espressione dell'Ufficio nell'avviso di accertamento), e, anzi, con le due fusioni descritte, operazioni peraltro tipiche dell'ordinamento giuridico, la Newco poteva garantire legittimamente con il suo patrimonio l'operazione di indebitamento bancario, secondo quanto previsto dal citato art. 2501-bis c.c..

L'operazione era quindi sorretta da valide ragioni economiche, e, specificamente, dalla esigenza di agevolare l'uscita del socio a cui era riconducibile la quota di partecipazione del 50% e l'ingresso di due nuovi soci con adeguate risorse finanziarie e qualificate competenze, che, nel piano industriale, avevano assicurato di perseguire "un disegno strategico di sviluppo del marchio”. Per effetto di tale operazione, infine, come detto, erano stati ottenuti notevoli ricavi e, conseguentemente, redditi imponibili regolarmente dichiarati.

Nel puntualizzare che "le valide ragioni economiche" sottostanti all'operazione dovevano, dunque, identificarsi nello scopo di configurare un

nuovo assetto proprietario-gestionale della società "obiettivo", la Commissione Tributaria Regionale aveva ritenuto non provata la tesi dell'Ufficio, secondo cui la monetizzazione della partecipazione era finalizzata a conseguire una plusvalenza in esenzione di imposta in capo al titolare persona fisica, ed aveva invece dato rilevanza alle evidenze probatorie dalle quali era emerso che la società interessata nell'operazione di "LBO", ancorchè di proprietà di un'entità domiciliata in Lussemburgo, era riconducibile ad un soggetto terzo, e specificamente alla Holding italiana, a sua volta riconducibile ad altro imprenditore italiano intenzionato a monetizzare la partecipazione nella società "obiettivo", con la conseguenza che l'operazione "LBO" era finalizzata a favorire la circolazione dei diritti di proprietà, con il contestuale ingresso di due soci, anche essi terzi rispetto alla persona fisica controllante l'altro 50%.

La articolata e completa motivazione resa dalla Commissione Tributaria Regionale, secondo la Suprema Corte, facendo riferimento a tutta una serie di circostanze che escludevano la sussistenza del contestato comportamento elusivo e dando conto della ricorrenza di valide ragioni economiche alla base della operazione, imponeva quindi il rigetto della censura.

Così come, sempre secondo la Corte, era da respingere anche la censura relativa alla violazione degli artt. 63, 75, comma 5, d.P.R. n. 917/1986 (vecchio testo) e 37-bis d.P.R. n. 600/1973 (ora abrogato e sostituito dalla nuova norma in tema di abuso del diritto ex art. 10-bis L. n. 212/2000), nella parte in cui la sentenza impugnata ammetteva la deduzione degli interessi passivi scaturenti dall'operazione di leveraged buy out.

I giudici di secondo grado, rileva la Cassazione, avevano infatti ritenuto che l'operazione di ristrutturazione societaria fosse pienamente legittima e che gli interessi passivi esposti in bilancio dalla contribuente fossero deducibili, in quanto avevano "positivamente superato il test dell'inerenza", dato che la società aveva dimostrato che si trattava di oneri derivanti dal finanziamento bancario, anticipatamente estinto in tre anni, anziché in cinque anni, utilizzato per finalità aziendali.

I giudici di merito avevano dunque svolto un accertamento in fatto, non sindacabile in sede di legittimità, laddove, comunque, la censura era anche infondata alla luce dell'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, secondo cui "ai fini della determinazione del reddito d'impresa, gli interessi passivi, a mente dell'art. 75, comma quinto, del d.P.R. n. 917 del 1986, e a differenza della precedente normativa contenuta nel d.P.R. n. 597 del 1973, art. 74, sono sempre deducibili, anche se nei limiti della disciplina dettata dal d.P.R. n. 917/1986, art. 63, che indica misura e modalità del calcolo degli interessi passivi deducibili in via generale, senza che sia necessario operare alcun giudizio di inerenza" (Cass. n. 12246/2010; n. 10501/2014).

Nella determinazione del reddito d'impresa, conclude la Corte, "resta precluso tanto all'imprenditore quanto all'Amministrazione finanziaria dimostrare che gli interessi passivi afferiscono a finanziamenti contratti per la produzione di specifici ricavi, dovendo invece essere correlati all'intera attività dell'impresa esercitata. Gli interessi passivi, infatti, sono oneri generati dalla funzione finanziaria che afferiscono all'impresa nel suo essere e progredire, e dunque non possono essere specificamente riferiti ad una particolare gestione aziendale o ritenuti accessori ad un particolare costo" (Cass. n. 1465/2009).

Osservazioni

In un'operazione di leveraged buy out l'indebitamento assunto dalla società veicolo si presenta, in linea di principio, funzionale all'acquisizione della società obiettivo, come anche disciplinata dall'art. 2501-bis c.c.

Tale tipo di operazione, infatti, rispondendo a finalità extra fiscali, riconosciute dal Codice Civile, difficilmente può essere considerata essenzialmente finalizzata al conseguimento di indebiti vantaggi fiscali.

L'Amministrazione finanziaria deve comunque in questi casi dimostrare l'elusività dell'operazione, gravando invece sul contribuente l'onere di allegare l'esistenza di ragioni economiche, alternative o concorrenti, in grado di giustificare operazioni in tal modo strutturate.

Da un punto di vista civilistico per mezzo delle operazioni di MLBO, del resto, si intende perfezionare l'acquisizione di una società, ricorrendo, in gran parte, all'indebitamento. E, nella pratica, questa operazione prevede di solito che, al fine di pervenire all'acquisizione di una società (c.d. target), il Gruppo costituisca una società “veicolo” (una newco), la quale viene in parte capitalizzata e, per il residuo, ottiene un finanziamento bancario garantito dal pegno sulle azioni della società target.

In questo modo, la newco è in grado di acquisire il pacchetto di maggioranza (o, in taluni casi, la totalità) delle azioni della società target, per poi fondersi ad essa.

L'operazione, come sottolinea anche la Corte nella sentenza in commento, è del resto ormai del tutto ordinaria nel nostro Ordinamento.

Le operazioni di MLBO costituiscono, infatti, tecniche di acquisizione di partecipazioni societarie, la cui peculiarità consiste solo nella circostanza che il debito contratto per l'acquisto della target è destinato ad essere ripagato dai flussi di cassa generati dalla stessa società acquisita, essendo peraltro frequente che gli stessi soggetti finanziatori, allo scopo di vedere meglio garantito il proprio investimento, richiedano la fusione tra la società veicolo e la target (MLBO), così da rendere automatico, in capo al soggetto risultante dalla fusione, il predetto asservimento dei flussi di cassa al sostenimento degli oneri finanziari relativi al debito originariamente contratto dalla veicolo (per l'acquisto della target stessa).

La riforma societaria del 2001 ha del resto definitivamente fugato ogni dubbio circa la liceità civilistica di dette operazioni e le operazioni di MLBO sono ora regolamentate all'interno dell'art. 2501-bis c.c. (Fusione a seguito di acquisizione con indebitamento).

Con particolare riguardo alla fattispecie di MLBO occorre del resto prendere atto che si è ormai sviluppata una giurisprudenza volta ad attribuire a tale operazione la sussistenza di valide ragioni economiche, portando ad escluderne la connotazione elusiva (cfr anche Cass., n. 1372/2011).

Il sindacato dell'Amministrazione finanziaria non può peraltro in questi casi spingersi ad imporre una misura di ristrutturazione diversa tra quelle giuridicamente possibili (e cioè una fusione) solo perché tale misura avrebbe comportato un maggior carico fiscale.

Ed anche la stessa Agenzia delle Entrate sembra, in realtà, averne ormai riconosciuto la legittimità, come emerge dalla Circolare n. 6/E del 30 marzo 2016, che ha esplicitamente invitato gli Uffici ad abbandonare contestazioni in tal senso, rilevando, tra le altre, che “le operazioni di MLBO vedono nella fusione (anche inversa) il logico epilogo dell'acquisizione mediante indebitamento, necessario anche a garantire il rientro, per i creditori, dell'esposizione debitoria”.

Solo in casi di specifici tratti di “artificiosità”, e previa un'analisi caso per caso della legittimità delle singole fattispecie sotto il profilo dell'elusione/abuso del diritto, sarà pertanto possibile contestare l'elusività/abusività di tali tipi di operazioni.

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