Il nuovo Codice della crisi e le sue ricadute sulla disciplina della bancarotta

Sergio Sisia
Carlo Tremolada
14 Febbraio 2019

La poderosa riforma della materia fallimentare realizzata con il Decreto attuativo della Legge Delega n. 155/2017, definitivamente approvato dal Consiglio dei Ministri il 10 gennaio 2019, nonostante sembri limitarsi all'adattamento linguistico delle vigenti disposizioni penal-fallimentari e alla loro pedissequa trasposizione nei capi da I a III del Titolo IX del C.C.I., comportano inevitabili ricadute in ambito penalistico in merito, in particolare, alla disciplina della bancarotta, come i rilievi che seguono pongono in evidenza.
Premessa

La poderosa riforma della materia fallimentare realizzata con il Decreto attuativo della Legge Delega n. 155/2017, definitivamente approvato dal Consiglio dei Ministri il 10 gennaio 2019, nonostante sembri limitarsi all'adattamento linguistico delle vigenti disposizioni penal-fallimentari e alla loro pedissequa trasposizione nei capi da I a III del Titolo IX del C.C.I., comportano inevitabili ricadute in ambito penalistico in merito, in particolare, alla disciplina della bancarotta, come i rilievi che seguono pongono in evidenza.

Uno sguardo di insieme alla novità del codice della crisi di impresa e dell'insolvenza

Al fine di comprendere l'impianto concettuale attorno al quale ruota l'intera novella legislativa non può, preliminarmente, farsi almeno un cenno alle principali novità previste dal C.C.I. sul versante civile e fallimentare. Ciò risulterà utile anche per comprendere le ragioni che hanno determinato il legislatore a rinunciare, al momento, a por mano ad un'incisiva rivisitazione delle fattispecie penali-fallimentari, lasciando sostanzialmente immutata la disciplina penale dell'insolvenza, salvo che per aspetti (apparentemente) marginali e, secondo alcuni, di non semplice applicazione. Insomma, uno sguardo d'insieme – necessariamente sommario e non esaustivo – al C.C.I., e alla filosofia che lo ha ispirato, potrà aiutare a rispondere al quesito se davvero la mancata rivisitazione dei reati fallimentari segni una “occasione perduta”, come alcuni Autori hanno sostenuto (lo stesso Renato Rordorf, Presidente della Commissione Ministeriale alla quale è stato affidato il compito di elaborare i decreti attuativi della Legge Delega n. 155/2017, con riferimento alla mancata rivisitazione delle fattispecie penal-fallimentari, ha parlato di “lacuna da colmare”: “Nella prospettiva di una riforma organica dell'intera materia dell'insolvenza sarebbe naturale trovasse posto anche la revisione delle disposizioni penali oggi contemplate dalla legge fallimentare ed in altre leggi operanti in tale ambito ….. è doveroso segnalare la necessità di procedere anche alla riforma delle suindicate disposizioni penali, tanto più in presenza di una rivisitazione generale della materia cui, come si è già sottolineato, è sotteso un diverso modo del legislatore di porsi di fronte al fenomeno dell'insolvenza”, cfr. Relazione allo schema di Legge Delega per la riforma delle procedure concorsuali del 29/12/2015, pag. 39), ovvero se di una simile riforma non se ne avvertisse la necessità, e non solo per ragioni collegate a scelte di politica criminale.

Il nuovo C.C.I. rappresenta un corpus normativo imponente, composto da ben 391 articoli, ed è frutto di una elaborazione legislativa complessa ed articolata, durata oltre tre anni, tant'è che il primo schema di Legge Delega per la riforma delle procedure concorsuali risale al dicembre del 2015, e la Legge Delega che ne è seguita ha trovato definitiva approvazione quasi due anni dopo. Il primo schema di D.Lgs. recante “Codice della crisi di impresa e dell'insolvenza” ha visto la luce infatti nel dicembre del 2017, ed è stato riveduto e corretto nel febbraio dell'anno successivo. Infine un nuovo e definitivo schema di D.Lgs. attuativo della Legge Delega è stato elaborato nell'ottobre del 2018 e consegnato per i pareri alle competenti Commissioni parlamentari il 14 novembre 2018. In ogni caso, il nuovo C.C.I. ha il pregio di riscrivere in modo organico e in termini di novità radicale la disciplina complessiva delle situazioni di crisi (intesa, ai sensi dell'art. 2 del C.C.I. come “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l'insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”) nelle quali sempre più spesso rischia di versare l'impresa, introducendo istituti e rimedi principalmente orientati a favorire la tempestiva emersione delle difficoltà finanziarie dell'impresa e la loro “gestione” in una fase precoce della vita aziendale, sì da evitare situazioni di insolvenza (intesa questa, ai sensi dell'art. 2 del C.C.I., come “lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”) e le ricadute negative del dissesto non solo sull'imprenditore ma anche sull'intero tessuto socio economico. Da qui la sostituzione del termine “fallimento” con il termine “liquidazione giudiziale” (cfr. art. 349 del C.C.I.) anche al fine di superare lo stigma che da sempre inevitabilmente accompagna la figura dell'imprenditore dichiarato fallito, per cui è immediatamente visibile lo sforzo dei compilatori di enucleare procedure e strumenti orientati decisamente a privilegiare la composizione della crisi e la prosecuzione dell'attività aziendale piuttosto che la liquidazione del patrimonio dell'impresa.

Nel disciplinare nel medesimo contesto unitario sia la crisi delle imprese di maggiori dimensioni e sia quella delle imprese minori, invero, il codice ha introdotto per l'imprenditore l'obbligo di istituire assetti organizzativi idonei alla tempestiva rilevazione dei “sintomi” della crisi e l'obbligo di attivarsi immediatamente per tentare il suo superamento utilizzando gli strumenti messi a disposizione dall'ordinamento (cfr. gli artt. 3, con il richiamo all'art. 2086 c.c., e 4 del C.C.I.).

Il sistema di allerta di cui l'impresa deve dotarsi è previsto agli artt. 14 e 15 del C.C.I., e consiste, in sostanza, in una serie di obblighi di verifica e di segnalazione a carico degli organi di controllo della società, del revisore contabile e della società di revisione, nonché dei creditori pubblici qualificati (I.N.P.S., Agenzia delle Entrate e agente per la riscossione) finalizzati alla precoce rilevazione della crisi di impresa in vista della tempestiva adozione delle misure idonee a superarla o a regolarla. A tale stregua, ai sensi dell'art. 14 C.C.I., gli organi di controllo della società hanno il dovere di monitorare costantemente l'equilibrio economico finanziario della stessa e il prevedibile andamento della gestione, segnalando all'organo gestorio, in caso di mancato equilibrio, l'esistenza di fondati indizi della crisi affinché quest'ultimo si attivi immediatamente presso l'organo istituito per la composizione. Secondo le previsioni dell'art. 15, invece, i creditori qualificati (a pena d'inefficacia del titolo di prelazione sui crediti dei quali sono titolari) sono tenuti a segnalare all'imprenditore che la sua esposizione debitoria nei loro confronti ha superato la “soglia rilevante” (stabilita per le diverse imposte dal comma 2 dell'art. 15, secondo una previsione che varia in ragione del volume d'affari dell'impresa) concedendo un termine pari a novanta giorni per l'estinzione del debito, scaduto il quale l'imprenditore, in caso di mancato pagamento, dovrà proporre istanza di composizione assistita della crisi al competente organismo. Vedremo più avanti come proprio il puntuale e tempestivo adempimento di un simile obbligo da parte dell'imprenditore assuma diretta rilevanza sul piano della punibilità di talune fattispecie penal-fallimentari. Per quanto riguarda la soluzione della crisi, l'art. 16 del C.C.I. ha previsto un apposito organismo al quale viene appunto demandata la raccolta delle segnalazioni di cui alle norme precedenti e l'assistenza del debitore nell'assunzione delle iniziative per il superamento della crisi. Si tratta dell'Organismo per la Composizione della Crisi di Impresa (“OCRI”), il quale opera in composizione collegiale (la nomina e la composizione del collegio sono disciplinate dall'art. 17 del C.C.I.: un membro è nominato dal Presidente del Tribunale delle imprese individuato ai sensi dell'art. 4 del C.C.I., uno dal Presidente della Camera di Commercio e uno infine dall'associazione rappresentativa del settore di riferimento del debitore; in ogni caso i componenti del collegio “non devono aver prestato negli ultimi cinque anni attività di lavoro subordinato o autonomo in favore del debitore, né essere stati membri degli organi di amministrazione o controllo dell'impresa, né aver posseduto partecipazioni in essa”), convoca il debitore entro i quindici giorni successivi alla segnalazione da parte dei creditori o all'istanza del medesimo debitore, e fissa un termine (di tre mesi, prorogabile per una sola volta di altri tre mesi, ai sensi dell'art. 19, comma 1 del C.C.I.) per la ricerca di una soluzione concordata della crisi dell'impresa, incaricando un membro del collegio di seguire le trattative tra l'imprenditore e i suoi creditori. Allorchè il debitore dichiari che intende presentare domanda di omologazione di accordi di ristrutturazione dei debiti o di apertura del concordato preventivo, il collegio dell'OCRI attesta la veridicità dei dati aziendali forniti da quest'ultimo. Se allo scadere del termine non è raggiunto un accordo stragiudiziale con i creditori dell'impresa e permane una situazione di crisi, il collegio invita l'imprenditore a proporre domanda di accesso a una procedura regolatrice della crisi o dell'insolvenza, come previsto dagli artt. 40 e ss. del C.C.I. (a norma degli artt. 22 e 38 del C.C.I., se il debitore non compare per l'audizione davanti all'OCRI o non propone istanza di composizione assistita della crisi ovvero non propone istanza di accesso ad una delle procedure di regolazione della crisi e dell'insolvenza nel termine previsto, il collegio, se ritiene che sussistano elementi che rendano evidente lo stato di insolvenza dell'impresa, ne dà notizia al Pubblico Ministero, il quale – se condivisa la valutazione del collegio – presenta ricorso per l'apertura della liquidazione giudiziale).

Come può facilmente cogliersi da questi rapidi cenni, il sistema delineato dal C.C.I. è diretto a favorire una rapida soluzione delle difficoltà economico-finanziarie che possono colpire temporaneamente l'impresa, al punto che – durante il termine fissato dall'OCRI e per tutta la sua durata – il Tribunale, al fine di favorire il raggiungimento dell'accordo con i creditori, può concedere al debitore “misure protettive” per paralizzare eventuali azioni esecutive e cautelari sul suo patrimonio da parte di questi ultimi (si vedano gli artt. 20 e 54 del C.C.I.). In tale contesto è facile comprendere come alla “liquidazione giudiziale” venga riservato un momento residuale rispetto agli strumenti negoziali o giudiziari di regolazione della crisi volti invece ad anticipare e (possibilmente) evitare l'irreversibile dissesto dell'azienda.

Del resto - come si osserva nella Relazione illustrativa all'ultimo Decreto attuativo – la necessità di “consentire alle imprese sane in difficoltà finanziaria di ristrutturarsi in una fase precoce, per evitare l'insolvenza e proseguire l'attività è principio riconosciuto da tutti gli ordinamenti e fa parte dei principi elaborati dalla UNCITRAL (Commissione delle Nazioni Unite per i diritto commerciale internazionale) e dalla Banca Mondiale per la corretta gestione della crisi di impresa”. È la diretta osservazione dell'esperienza a suggerire la fondatezza di un simile approccio, posto che – sempre secondo la Relazione illustrativa al C.C.I. - si è reso sempre più evidente che “le possibilità di salvaguardare i valori di un'impresa in difficoltà sono direttamente proporzionali alla tempestività dell'intervento risanatore, mentre il ritardo nel recepire i segnali di una crisi fa sì che, nella maggior parte dei casi, questa degeneri in vera e propria insolvenza sino a divenire irreversibile” (così a pag. 5 della predetta Relazione). I rilievi qui ripresi dalla Relazione illustrativa al Decreto attuativo mostrano una peculiare aderenza alle condizioni ed alle esigenze di un sistema quale il nostro. Tutti i più recenti e autorevoli studi aziendalistici – invero – sono concordi nell'evidenziare l'incapacità manifestata sino ad ora dalle imprese italiane, per lo più medie o piccole, di promuovere autonomamente processi di ristrutturazione precoce, per una serie di fattori che ne riducono la competitività (sottodimensionamento, capitalismo familiare, personalismo autoreferenziale dell'imprenditore, debolezza degli assetti di corporate governance, assenza di monitoraggio e pianificazione, anche a breve termine), ed era dunque necessario che il legislatore introducesse strumenti giuridici capaci di scongiurare il più possibile la dispersione del “valore aziendale” nel sistema socio economico nostrano.

La mancata rivisitazione delle fattispecie penal-fallimentari: occasione perduta o presa d'atto di una riforma non necessaria?

Nell'affrontare ora i riflessi penalistici prodotti dal C.C.I., va detto anzitutto che questo ponderoso apparato normativo, con una semplice operazione di adeguamento lessicale, ha immediatamente reso le fattispecie incriminatrici previste dalla l. fall. attualmente in vigore, conformi e compatibili con la nuova disciplina civilistica della crisi e dell'insolvenza. Il già richiamato art. 349 del C.C.I. (non a caso inserito tra le norme del Titolo X, intitolato “Disposizioni per l'attuazione del codice della crisi e dell'insolvenza, norme di coordinamento e disciplina transitoria”) prevede, infatti, che “nelle disposizioni normative vigenti i termini ‘fallimento', ‘procedura fallimentare', ‘fallito', nonché le espressioni dagli stessi termini derivate devono intendersi sostituite, rispettivamente, con le espressioni ‘liquidazione giudiziale', ‘procedura di liquidazione giudiziale' e ‘debitore assoggettato a liquidazione giudiziale'”. Ciò evidentemente ha comportato la riscrittura delle norme penal-fallimentari, inserendo all'interno delle stesse il termine “liquidazione giudiziale” in luogo del termine “fallimento”, con la precisazione che detta riscrittura non comporta l'abrogazione delle fattispecie incriminatrici attualmente in vigore (gli artt. 216 e segg. l. fall.) alla stregua delle quali proseguiranno ad essere disciplinate le condotte di bancarotta fraudolenta, preferenziale e semplice commesse prima dell'entrata in vigore del nuovo C.C.I. (in proposito si vedano la disciplina transitoria di cui all'art. 389, comma 3, del C.C.I. e anche la Relazione illustrativa, pag. 234. La Relazione precisa, peraltro, che “le disposizioni penal fallimentari attualmente in vigore sono destinate ad esaurire la loro efficacia nel tempo, quando saranno definite le relative procedure secondo la previgente normativa, producendosi per questa via la loro abrogazione implicita”). In questa prospettiva – precisa la Relazione illustrativa – “è garantita di fatto continuità normativa, non contenendo la delega disposizioni che autorizzassero modifiche di natura sostanziale al trattamento penale riservato alle condotte di bancarotta e alle altre condotte oggi contemplate al Titolo sesto della legge fallimentare”, di talché le nuove fattispecie incriminatrici previste dagli artt. da 322 a 328 del C.C.I. risultano corrispondere in tutto (salvo che per la locuzione “liquidazione giudiziale” in luogo della parola “fallimento”) a quelle previste dagli attuali artt. da 216 a 222 l. fall.. Il dato di sintesi, insomma, è piuttosto chiaro: il legislatore delegante, al netto del semplice adattamento linguistico resosi necessario per ragioni di compatibilità con il nuovo nomen della procedura liquidatoria (che rappresenta la “condizione obiettiva di punibilità” del reato di bancarotta), non ha inteso affidare ai compilatori del C.C.I. il compito di ridefinire i contenuti delle fattispecie penal-fallimentari, e men che meno di attenuarne il rigore sanzionatorio. E proprio una simile scelta ha sollevato non poche critiche da parte degli studiosi che già hanno avuto modo di occuparsi del tema (va segnalato al riguardo, tra l'altro, l'interessante Convegno tenutosi il 26 e 27 ottobre 2018 dal titolo “Nuove frontiere della crisi di impresa e Riforma dei reati fallimentari” organizzato dall'Università Luigi Bocconi di Milano) e, come già segnalato in precedenza (vedi §. 1), un certo rammarico persino in taluni componenti della Commissione governativa incaricata di elaborare il decreto attuativo della delega legislativa. Si obietta, in sintesi estrema, che il diverso atteggiamento del legislatore di fronte al fallimento avrebbe dovuto suggerire la riformulazione di quelle fattispecie – la bancarotta fraudolenta, in primis – che proprio in quella procedura concorsuale trovano il loro perno costitutivo, e che mai come oggi rischiano dunque di apparire anacronistiche (si veda Gambardella, Il nuovo codice della crisi di impresa e dell'insolvenza: un primo sguardo ai riflessi in ambito penale, in www.dirittopenalecontemporaneo.it del 27 novembre 2018, pag. 2). Si sarebbe persa l'occasione – continuano i critici – di cambiare finalmente volto a una disciplina che risale a un intervento legislativo del 1942 ed è rimasta inalterata sino ad oggi, e che risulta connotata da un rigore sanzionatorio che appare eccessivo anche alla luce di uno scenario economico decisamente mutato rispetto al passato: la crisi finanziaria che da oltre un decennio attanaglia l'Occidente – ed il nostro Paese in modo particolarmente acuto – ed in generale gli sviluppi di un'economia sempre più globalizzata, documentano come molto spesso il dissesto dell'impresa non possa ricollegarsi alle (e/o comunque solo alle) scelte dell'imprenditore, bensì a dinamiche finanziarie ed economiche non sempre del tutto controllabili (tali rilievi polemici riprendono in realtà critiche già rivolte in passato alla decisone del legislatore di non “ritoccare”, se non marginalmente, le norme penal-fallimentari in occasioni di precedenti parziali riforme della materia delle procedure concorsuali, come il D.Lgs. n. 5 del 2006; si veda, ad esempio, Di Amato, Note sulle implicazioni penalistiche della nuova disciplina dei finanziamenti dei soci in crisi, in Diritto penale dell'Impresa, 11 marzo 2013). Se così è, risulterebbe allora del tutto eccentrica la severità delle sanzioni previste dalla attuale disciplina penalistica dell'insolvenza. In definitiva - sostengono gli studiosi più critici verso la scelta del legislatore delegante - l'assenza di norme nel C.C.I. idonee a incidere in radice sulla disciplina penale dell'insolvenza, aprirebbe la via a un diritto delle procedure concorsuali a due velocità: un versante civilistico moderno, semplificato, veloce ed orientato a valorizzare la prosecuzione dell'attività d'impresa più che la liquidazione del patrimonio; ed un versante penalistico “vetusto” (la definizione della fattispecie ex art. 216 l.fall. come “vetusto arnese” è di Piergallini, Civile e penale a perenne confronto: l'appuntamento di fine millennio, in Riv. it. dir. proc. penale, 2012, 1304) inadeguato e tuttora ancorato al fallimento (rectius: alla liquidazione giudiziale), connotato da una severità sanzionatoria non più giustificabile anche in relazione al rimodulato contesto giuridico (oltre che economico). Solo il tempo potrà confermare la fondatezza delle argomentazioni critiche sin qui rappresentate. Occorrerà ovviamente attendere lo sviluppo della prassi applicativa del nuovo articolato normativo per verificare se la scelta del legislatore delegante di non riformare in via diretta la materia dei reati fallimentare sarà davvero – come temuto - fonte di incertezze interpretative ed applicative nella disciplina penale dell'insolvenza. Insomma, occorrerà attendere il vaglio della storia per sentenziare se l'istituto della “bancarotta” rappresenti davvero un “vetusto arnese” in un contesto caratterizzato da dinamiche giuridiche ed economiche del tutto nuove. Quel che, tuttavia, si può già osservare è il fatto che le argomentazioni critiche di coloro che biasimano la scelta della Legge Delega di non includere nell'intervento riformatore la materia penal-fallimentare, paiono (almeno a prima vista) prescindere da alcune semplicissime riflessioni, che non è inutile ricordare.

Una prima, immediata riflessione non può che mutuarsi dalle osservazioni svolte in precedenza sui nuovi istituti introdotti con la riforma civil-fallimentare: se è vero che la nuova disciplina delle procedure concorsuali non ha direttamente intaccato il “volto” delle fattispecie penal-fallimentari, è altrettanto vero che - mettendo a disposizione degli attori coinvolti efficaci strumenti civilistici per monitorare l'equilibrio finanziario delle imprese e risolvere in fase precoce quelle situazioni di crisi che potrebbero altrimenti incancrenirsi e mutarsi in irreversibile insolvenza (nel comunicato del 10/1/2019 con il quale il Consiglio dei Ministri ha segnalato l'approvazione definitiva della riforma della crisi di impresa e dell'insolvenza, si indica testualmente tra le principali novità introdotte dalla novella legislativa: “…un sistema di allerta finalizzato a consentire la pronta emersione della crisi, nella prospettiva del risanamento dell'impresa e comunque del più elevato soddisfacimento delle ragioni dei creditori [e]…. si dà priorità di trattazione alle proposte che comportino il superamento della crisi assicurando la continuità aziendale [e]…. si privilegiano, tra gli strumenti di gestione delle crisi e dell'insolvenza, le procedure alternative a quelle dell'esecuzione giudiziale”)- essa riserva potenzialmente al fallimento (rectius: alla dichiarazione di liquidazione giudiziale) uno spazio sempre più residuale, rendendo così potenzialmente assai più infrequente il verificarsi dello stesso “presupposto” delle fattispecie delittuose in discorso. Come noto, infatti, il più recente, ma ormai consolidato, orientamento della giurisprudenza di legittimità, ha individuato nel fallimento (ora: liquidazione giudiziale) la condizione obiettiva di punibilità del reato di bancarotta (cfr. in particolare, Cass. pen. S.U., 31 marzo 2016, n. 22474). In altri termini, se è vero che il D.Lgs. in parola non incide in via diretta sullo schema tipico della bancarotta (e delle fattispecie ad essa collegate), è altrettanto vero che esso potrebbe avere rilevantissime ricadute in via mediata sulla materia riducendo vieppiù la centralità di quella figura delittuosa nel panorama penalistico. Forse è anche questa la ragione per la quale la riforma dei reati fallimentari, per il momento, non risulta avere occupato i pensieri del legislatore.

La seconda riflessione attiene invece ad aspetti di carattere sistematico. Come noto, il contenuto e le prospettive applicative della norma - di qualunque norma, ivi compresa la norma incriminatrice - non possono essere ridotte a quel che affiora dalla lettura della semplice disposizione legislativa che la prevede, e anzi, a ben vedere, il significato e la portata della norma sono il frutto dell'interazione tra la disposizione codificata (il diritto positivo, impenetrabile a ogni cambiamento e modificabile solo dal legislatore) e la sua continua e costante interpretazione da parte della giurisprudenza e della dottrina (il c.d. “diritto vivente”, in continua evoluzione ed in continuo dialogo con la norma scritta e codificata; si ricorda, in proposito, che secondo la Corte cost. il diritto vivente “costituisce un sintagma utilizzato in diversi contesti e in differenti accezioni per indicare la communis opinio maturata nella giurisprudenza e nella dottrina in ordine al significato normativo da attribuire ad una disposizione”, si veda Cavino, Diritto vivente, voce in Dig. pubbl. 2010). Il volto vero e ultimo della norma è dunque il portato della lenta evoluzione ermeneutica che ne modifica incessantemente i tratti, adeguandoli alla “coscienza sociale”. Se così è, tornando allo specifico tema che qui ci occupa, ci si deve chiedere se simile processo di adeguamento non abbia riguardato anche le fattispecie penal-fallimentari, delle quali – come visto – si lamenta l'anacronismo e la “vetustà”.

Ora, non sarebbe corretto a tal proposito tacere sui numerosi e recenti arresti della Suprema Corte in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, distrattiva e dissipativa (vale a dire, le fattispecie più frequentemente oggetto di penale contestazione e più gravemente sanzionate tra quelle previste dalla normativa penal-fallimentare) attraverso i quali hanno cominciato a farsi strada principi decisamente orientati a precisare e a circoscrivere la sfera dei fatti penalmente rilevanti, evitando così arbitrarie dilatazioni del campo applicativo della fattispecie in parola, e a definire con maggior concretezza i contenuti del coefficiente soggettivo di responsabilità richiesto dal reato, sì da limitare la platea dei destinatari dell'incriminazione. E' ormai “diritto vivente” – vale a dire: regola recepita e consolidata in dottrina e giurisprudenza, e dunque nell'ordinamento – il principio secondo il quale la bancarotta fraudolenta (per distrazione o per dissipazione) rappresenta “reato di pericolo concretò”, di talché non ogni e qualsiasi atto di depauperamento del patrimonio aziendale compiuto dall'imprenditore potrà essere ritenuto penalmente rilevante, ma solo quegli atti e quelle condotte distrattive o dissipative che, per essere intervenute in un momento prossimo al dissesto dell'impresa, sono oggettivamente idonee a creare un vulnus all'integrità del patrimonio inteso quale garanzia per i creditori. E d'altra parte – su di un piano soggettivo – l'incriminazione per ipotesi di bancarotta fraudolenta richiederà la rigorosa dimostrazione in capo all'imprenditore della “fraudolenza” del suo comportamento, la consapevolezza – cioè – di avere messo effettivamente a repentaglio con il proprio comportamento distrattivo o dissipativo la garanzia dei creditori (si vedano i numerosi e recenti arresti della V sez. pen. della Corte di Cassazione: tra gli altri, n. 17819 del 24 marzo 2017; n. 16388 del 4 aprile 2017 e n. 38396 del 23 giugno 2017). È di tutta evidenza come l'ipotesi di una simile probatio sarà tanto più improbabile quanto più le condotte oggetto di contestazione risultino risalenti nel tempo e distanti dal momento del dissesto dell'impresa.

A fianco di tali interventi di “affinamento selettivo” dei fatti idonei ad essere sussunti nella fattispecie ex art. 216 l.fall. (la cui sanzione, peraltro, prevede una tale forbice tra il minimo e il massimo edittale da consentire all'interprete applicazioni di pena adeguate alla concreta gravità della singola condotta addebitata ed alla specificità del suo contesto) si colloca poi la recentissima sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018 con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 216, ult. comma l. fall., cancellando il precedente automatismo e la precedente predeterminazione in misura fissa nell'applicazione delle gravosissime pene accessorie (si tratta dell'inabilitazione all'esercizio di un'impresa commerciale e dell'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata fissa di anni dieci) collegate alla condanna per il reato di bancarotta fraudolenta, stabilendo che “d'ora in avanti, nel condannare un imputato per bancarotta fraudolenta il giudice penale dovrà determinare discrezionalmente la durata delle pene accessorie che si aggiungono alla pena principale della reclusione. La durata delle pene accessorie sarà stabilita caso per caso dal giudice, fino al tetto massimo di dieci anni ma senza più alcun automatismo, tenendo conto della concreta gravità del fatto commesso dall'imputato”.

In conclusione, la posizione di coloro che non si avvedono dei profondi mutamenti subiti dalla fattispecie in parola - e nella sua portata applicativa, in particolare - ostinandosi a considerarla un “vetusto arnese” tuttora ancorata allo spirito del legislatore del 1942, non danno conto degli esiti di un percorso evolutivo che - piaccia o meno – non può essere negato.

Un'ultima brevissima riflessione riguarda la censura di coloro che ritengono l'entità delle sanzioni (principali ed accessorie) collegate alle fattispecie incriminatrici penal-fallimentari previste al Titolo IX del C.C.I, ed in particolare al reato di bancarotta fraudolenta, eccessive e non più giustificate nel quadro di un complesso ed articolato impianto normativo che non parrebbe riservare più alla procedura fallimentare (ora: di liquidazione giudiziale) la centralità del passato. La censura – ad avviso di chi scrive – non coglie nel segno. Non sembra esservi alcuna correlazione logica tra una disciplina della crisi che volge con ogni mezzo a evitare il dissesto dell'impresa e l'esigenza di alleviare il trattamento sanzionatorio nei confronti di chi - al contrario, e proprio disattendendo le finalità di tutela dell'impresa proprie della riforma - ne cagiona dolosamente l'irreversibile insolvenza. Ed anzi, proprio la centralità dell'impresa quale “bene” il cui valore trascende gli interessi del solo imprenditore, così potentemente affermata dal C.C.I., giustifica semmai il rigore sanzionatorio verso quei comportamenti che consapevolmente tale valore mirano a distruggere. Non vi è dubbio – invero - che la dolosa causazione del dissesto di un'impresa finisca per colpire l'interesse di una vastissima platea di soggetti. Il rilevantissimo danno collaterale alle condotte distrattive e dissipative che cagionano o concorrono a cagionare il dissesto di un'impresa ne fonda il profondo disvalore penalistico, e giustificano il rigore sanzionatorio previsto dal legislatore del 1942. Né la riforma fallimentare introdotta dal nuovo C.C.I. offre spunti per soluzioni opposte.

Le novità della riforma direttamente incidenti sulla disciplina penale dell'insolvenza

L'intervento della novella legislativa nella disciplina penale dell'insolvenza non è ovviamente limitato all'adattamento linguistico delle vigenti disposizioni penal-fallimentari e alla loro pedissequa trasposizione nei capi da I a III del Titolo IX del C.C.I..

Norma di sicuro impatto sulla disciplina della “bancarotta” è quella prevista all'art. 25, comma 2 del C.C.I., la quale prevede una speciale causa di esclusione della punibilità per l'imprenditore che, pur avendo commesso uno dei fatti contemplati dagli artt. 322 (bancarotta fraudolenta), 323 (bancarotta semplice) e 325 (ricorso abusivo al credito) del C.C.I, abbia tempestivamente (a mente dell'art. 24 C.C.I., ai fini dell'applicazione delle misure premiali di cui alla disposizione in esame, la domanda di accesso a una delle procedure di regolazione si considera tempestiva se proposta entro sei mesi dal verificarsi di una delle situazioni debitorie verso dipendenti e fornitori alternativamente previste alla lett. a), b) e c) dello stesso art. 24 C.C.I.; mentre l'istanza di composizione assistita della crisi si considera tempestiva se proposta entro tre mesi dalla predetta data) proposto all'organismo di composizione assistita della crisi istanza di composizione o domanda di accesso ad una delle procedure di regolazione della crisi di cui al medesimo codice (la causa di esclusione di punibilità si estende anche ai reati di bancarotta fraudolenta e semplice e al reato di ricorso abusivo al credito di cui agli artt. 329, 330 e 331 C.C.I. commessi da “persone diverse dall'imprenditore in liquidazione giudiziale”). La non punibilità è limitata ai fatti commessi prima della proposizione dell'istanza di composizione assistita o della domanda di accesso ad una delle procedure di regolazione della crisi, ed ha quale condizione che il danno da essi derivato risulti di speciale tenuità. Ove invece il danno non possa considerarsi di speciale tenuità – ma l'attivo inventariato alla data di proposizione delle istanze in parola o offerto ai creditori superi il quinto dell'ammontare dei debiti – la pena per i fatti delittuosi commessi dall'imprenditore sarà ridotta della metà: in tal caso, dunque, non si è più in presenza di una causa di esclusione della punibilità ma di una circostanza attenuante speciale.

Si può ben rilevare già a una sommaria lettura della disposizione in parola come l'aspetto più problematico della norma riguardi la causa di non punibilità in relazione alla nozione di “speciale tenuità del danno” derivante dai fatti di bancarotta commessi anteriormente all'attivarsi dell'imprenditore presso l'OCRI. La norma, per l'appunto, non introduce soglie quantitative, mentre la Relazione illustrativa si limita a segnalare che il danno si considera di tenue entità quando la condotta “ha cagionato effetti depauperativi del patrimonio estremamente modesti con una incidenza minima sul soddisfacimento dei creditori” (si veda la Relazione illustrativa allo schema di D.Lgs. – pag. 48). La genericità di una simile formula è sotto gli occhi di tutti, e non è difficile prevedere che l'istituto porrà non poche difficoltà nella sua concreta applicazione. Basti pensare che la giurisprudenza è stata sino ad ora sin troppo prudente nell'applicazione della circostanza attenuante ex art. 219, comma 3 l. fall.. (danno di speciale tenuità), sì da limitarne l'operatività a situazioni nelle quali l'entità del danno derivato da condotte di bancarotta risultava pressoché trascurabile, tanto da ritenere le medesime condotte non punibili per assenza di offensività (si consideri l'orientamento dei Giudici di legittimità secondo cui il danno di modesta entità è escluso dall'esistenza di un passivo rilevante, cfr., tra le altre, Cass. pen. sez. V del 2.3.2015 n. 17351).

Altra norma del C.C.I. che, pur non all'interno del Titolo X dedicato alle “disposizioni penali”, risulta avere dirette ricadute nel contesto della disciplina penale dell'insolvenza è quella prevista all'art. 14, comma 3. Come visto a proposito del “sistema di allerta” di cui l'impresa deve dotarsi per osservare gli “standards di sicurezza” imposti dalla novella legislativa, i componenti del collegio sindacale hanno l'obbligo di vigilare costantemente sull'adeguatezza dell'assetto amministrativo e sull'equilibrio finanziario della società, segnalando immediatamente all'organo gestorio gli indizi della crisi laddove ne abbiano fondato sospetto anche alla stregua degli indicatori previsti all'art. 13 del C.C.I. Con la segnalazione, i sindaci assegnano all'organo amministrativo un termine non superiore a trenta giorni entro il quale deve riferire in ordine alle soluzioni che intenda adottare. In caso di inerzia degli amministratori, l'organo di controllo deve informare senza ritardo l'OCRI fornendo allo stesso ogni elemento utile per le relative determinazioni. Bene: l'adempimento tempestivo di tali doveri di segnalazione da parte dell'organo di controllo esclude la responsabilità del medesimo (in solido con quella degli amministratori) per i danni derivanti dalle azioni o dalle omissioni di questi ultimi successivi alle segnalazioni operate dai sindaci. La norma in parola, apparentemente dedicata a statuire unicamente in ordine alla responsabilità civile dei sindaci ne esclude, alle medesime condizioni, anche la concorsuale responsabilità penale ex art. 40 cpv. c.p. in relazione alle eventuali imputazioni di bancarotta fraudolenta e semplice contestate agli amministratori. La norma in parola pare – invero – introdurre una vera e propria causa di esclusione della “posizone di garanzia” dei sindaci in relazione ai fatti (anche) distrattivi e/o dissipativi commessi dall'organo gestorio in epoca successiva alla segnalazione dei sindaci, e pare escludere per ciò stesso ogni e qualsiasi ipotesi di responsabilità penale concorsuale per omesso impedimento dell'evento (id est: la condotta illecita degli amministratori) ai sensi dell'art. 40 cpv. c.p..

La causa di esclusione della responsabilità (anche) penale prevista dalla norma in esame mira ad una maggiore responsabilizzazione dell'organo gestorio nella tempestiva rilevazione della crisi d'impresa e nella gestione delle possibili soluzioni. Proprio per conseguire simile risultato, il legislatore ha inteso compensare la previsione di un aggravamento degli obblighi operativi gravanti sui sindaci con l'esonero della responsabilità dei medesimi, a condizione che detti obblighi siano puntualmente adempiuti.

Il Titolo VIII del C.C.I. contiene le norme che regolano i rapporti tra la liquidazione giudiziale e le misure cautelari reali disposte nell'ambito di un procedimento penale anteriore o in pendenza della procedura concorsuale, prevedendo discipline differenti a seconda che si tratti di sequestro di prevenzione e/o sequestro di cose destinate alla confisca ovvero di sequestro impeditivo (art. 321, comma 1 c.p.p.). Così l'art. 317 C.C.I. stabilisce che i rapporti tra il “sequestro di cose di cui è consentita la confisca” e la gestione concorsuale dei beni dell'imprenditore (dichiarato in liquidazione giudiziale) appresi dal Curatore vengano regolati alla stregua delle disposizioni previste dal Codice Antimafia di cui al D.Lgs. n. 159/2011. In estrema sintesi la norma in parola estende a ogni ipotesi di sequestro preventivo destinato a sfociare in provvedimento di confisca (art. 321, comma 2, c.p.p.) il principio di prevalenza della misura cautelare previsto per il sequestro di prevenzione dal Codice Antimafia: i beni già assoggettati a sequestro finalizzato alla confisca o a confisca alla data della dichiarazione della liquidazione giudiziale non possono entrare a far parte della massa attiva concorsuale (art. 63 D.Lgs. n. 159/2011) mentre, ove la misura cautelare cada sui beni dell'imprenditore già appresi alla massa attiva, ne sono separati dal Curatore con successiva consegna all'Amministratore Giudiziario. In sintesi, ove vi sia conflitto tra le ragioni dello Stato (beneficiario della misura ablativa) e quelle dei creditori dell'imprenditore in liquidazione giudiziale, le norme del Titolo VIII – così come riformulate a seguito delle indicazioni contenute nei pareri delle commissioni parlamentari di Camera e Senato – hanno decisamente inteso dare prevalenza alle prime.

L'efficacia della misura cautelare reale e la sua relazione con la procedura concorsuale muta radicalmente, invece, allorché si tratti di semplice sequestro impeditivo (sequestro preventivo ex art. 321, comma 1 c.p.p. di cose non destinate alla confisca obbligatoria). L'art. 318 C.C.I. stabilisce, infatti, che in pendenza della procedura di liquidazione giudiziale non può essere disposto il sequestro preventivo ai sensi del comma 1 dell'art. 321 c.p.p. sui beni del debitore già appresi alla massa attiva, e che – laddove un simile sequestro sia stato disposto prima della liquidazione giudiziale – una volta aperta la procedura concorsuale il giudice della cautela reale ne dispone la revoca su richiesta del Curatore. Sempre che – è ovvio – il sequestro non cada su beni intrinsecamente illeciti (vale a dire: beni la cui fabbricazione, uso, detenzione e alienazione non può essere consentita se non a seguito di autorizzazione amministrativa). Disciplina identica alla precedente è dettata dall'art. 319 C.C.I. per quanto attiene ai rapporti tra la procedura concorsuale ed il sequestro conservativo.

Il C.C.I. – contrariamente alle indicazioni contenute nella Legge Delega – non ha inteso prevedere, nella sua versione definitiva, una disciplina specifica e autonoma per il sequestro a fini di confisca pronunciato nei confronti della persona giuridica ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001. Il richiamo contenuto nell'art. 317 C.C.I. proprio alle medesime norme (art. 321 c.p.p.) già oggetto di rinvio da parte del D.Lgs. n. 231/2001 ha indotto a non creare uno statuto del sequestro alternativo, ulteriore e diverso quando esso riguardi una persona giuridica, sul rilievo che la finalità di assicurare una prevalente tutela degli interessi di caratteri penale (quando vi sia conflitto con le ragioni dei creditori della società) deve essere affermata anche quando si agisca nei confronti dell'ente.

Da ultimo, va fatto un rapido cenno alle due norme di carattere processuale contemplate dal C.C.I., del tutto prive di novità rispetto alla vigente disciplina. L'art. 346 C.C.I. – per quanto attiene all'esercizio dell'azione penale per i reati in materia di liquidazione giudiziale – riproduce integralmente il contenuto del vigente art. 238 l.fall., mentre l'art. 347 C.C.I. – relativo alla costituzione di parte civile nel processo relativo ai reati in materia di liquidazione giudiziale – riproduce fedelmente il contenuto del vigente art. 240 f. fall..

In conclusione

Al termine del breve percorso svolto nei paragrafi precedenti non è certo semplice trarre delle conclusioni sulle conseguenze pratiche che potrebbero derivare dall'impatto della complessa riforma della disciplina della crisi d'impresa e dell'insolvenza sulle vigenti fattispecie penal-fallimentari, in primis sulla bancarotta, ed anzi ogni tentativo in tal senso potrebbe persino apparire un azzardo. Come visto, il C.C.I. è di recentissima approvazione, e occorrerà attendere la sua entrata in vigore e almeno le sue prime applicazioni per valutarne gli effetti tanto sul versante civilistico quanto sull'assai meno rivisitato versante penalistico. Occorrerà dunque attendere del tempo anche per valutare la fondatezza delle critiche formulate, come visto, su più fronti circa l'apparente modestia dell'intervento legislativo nella materia penal-fallimentare. L'impressione, peraltro, è che la riforma, pur avendo escluso dai propri confini la (da molti) auspicata rivisitazione della fattispecie penal-fallimentare, contenga gli spunti per una – almeno potenziale – decisa riduzione dell'intervento penalistico nelle procedure concorsuali. Nella misura in cui gli strumenti negoziali e i rimedi giuridici messi a disposizione dell'imprenditore per la rapida soluzione della crisi d'impresa riveleranno la loro concreta efficacia, saranno meno frequenti quelle situazioni di insolvenza che preludono alla dichiarazione della liquidazione giudiziale e che nel contempo rappresentano il presupposto (anche) normativo per la configurabilità dell'ipotesi delittuosa della bancarotta (e delle altre ad essa collegate). Per questa via potrebbe, dunque, raggiungersi quell'obiettivo di restringere l'intervento penalistico ai soli casi di effettiva lesione del bene giuridico protetto dalle fattispecie penal-fallimentari, che secondo alcuni la riforma avrebbe mancato.

Guida all'approfondimento

In dottrina sul tema: Gambardella, Il nuovo codice della crisi di impresa e dell'insolvenza: un primo sguardo ai riflessi in ambito penale, in www.penale contemporaneo.it del 27 novembre 2018, pag. 2; Di Amato, Note sulle implicazioni penalistiche della nuova disciplina dei finanziamenti dei soci in crisi, in Diritto penale dell'Impresa, 11 marzo 2013; Piergallini, Civile e penale a perenne confronto: l'appuntamento di fine millennio, in Riv. it. dir. proc. penale, 2012, pag. 1304; Cavino, Diritto vivente, voce in Dig. pubbl. 2010.

In giurisprudenza: Cass. pen. S.U., 31 marzo 2016, n. 22474; Cass. pen. sez. V, 24 marzo 2017, n. 17819; Cass. pen. sez. V, 4 aprile 2017, n. 16388 e Cass. pen. sez. V, 23 giugno 2017, n. 38396; Corte Cost., 5 dicembre 2018, n. 222; Cass. pen. sez. V, 2 marzo 2015, n. 17351.

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