L'esercizio dell’impresa e la liquidazione dell’attivo nel Codice della crisi

Salvo Leuzzi
18 Febbraio 2019

L'art. 213, comma 1, del Codice della crisi e dell'insolvenza mutua a pieno il contenuto attuale del primo comma dell'art. 104-ter l.fall., spalancando un'identica “finestra” temporale, entro cui il programma di liquidazione va predisposto: l'elaborazione andrà svolta nei sessanta giorni successivi alla redazione dell'inventario e in ogni caso non oltre i centottanta giorni dalla sentenza dichiarativa dell'apertura della liquidazione giudiziale.
Il nuovo programma di liquidazione: forma e contenuto

L'art. 213, comma 1, del Codice della crisi e dell'insolvenza mutua a pieno il contenuto attuale del primo comma dell'art. 104-ter l.fall., spalancando un'identica “finestra” temporale, entro cui il programma di liquidazione va predisposto: l'elaborazione andrà svolta nei sessanta giorni successivi alla redazione dell'inventario e in ogni caso non oltre i centottanta giorni dalla sentenza dichiarativa dell'apertura della liquidazione giudiziale. Il mancato rispetto, senza giustificato motivo, di detto secondo termine seguiterà a rappresentare giusta causa di revoca del curatore.

Nel comma 2 dell'art. 213 si assiste ad un altro innesto ortopedico, che attiene al primo periodo dell'attuale comma 8 dell'art. 104-ter l.fall., laddove è assegnata al curatore, sul presupposto dell'autorizzazione rilasciatagli dal comitato dei creditori, una prerogativa di derelictio anticipata di beni inservibili, in quanto difficilmente monetizzabili: l'organo della curatela potrà, anche nel quadro delle nuove insolvenze abdicare all'aquisizione all'attivo, come pure alla liquidazione di uno o più beni, qualora tale attività appaia manifestamente non conveniente. In tal caso, il curatore ne indirizza comunicazione ad hoc ai creditori i quali, in deroga al “blocco” delle esecuzioni individuali (ora previsto nell'art. 150 C.C.I. in piena simmetria all'attuale art. 51 l.fall.), potranno intraprendere azioni espropriative o cautelari sui beni rimessi nella disponibilità del debitore.

Si introduce, peraltro, - ed è un aspetto di novità – una presunzione di manifesta sconvenienza in relazione all'evenienza dei sei tentativi di vendita andati a vuoto, occorrendo, in tal caso, che sia il giudice delegato ad autorizzare la prosecuzione dell'attività liquidatoria, corredandola di giustificati motivi. Secondo la relazione di accompagnamento dello schema di Decreto: “è infatti evidente che, nella generalità dei casi, il prolungato disinteresse del mercato rispetto al bene è sintomatico del suo scarso valore, sicché la prosecuzione dell'attività liquidatoria aggrava inutilmente il passivo ed incide negativamente sulla durata della procedura”. Il nuovo innesto normativo, riproduce, peraltro, una “regola” che nell'esperienza concreta aveva già attecchito in via di prassi.

A un'istanza di razionalizzazione dell'attività pianificatoria tiene dietro il comma 3 dell'art. 213, che – mutuando anche stavolta una prassi pregevole – esige ora dal curatore la suddivisione documentale del programma in sezioni, con lo scopo di dare ordine alla molteplicità delle materie trattate.

Entro detti “capitoli” andrà fatta separata specificazione dei criteri e delle modalità che accompagneranno la liquidazione, in primo luogo dei beni immobili – che il Riformatore menziona per primi, quasi a riconoscerne la più spiccata importanza –, quindi degli altri beni, infine della riscossione dei crediti.

In ciascun caso è pretesa dal comma in parola l'indicazione, non solo dei tempi presumibili di realizzo, ma anche – ed è un'originalità di non poco momento – la segnalazione dei costi. Proprio l'esborso ipotizzabile diviene la pietra di paragone cui comparare, ex latere creditoribus, i benefici dell'iniziativa liquidatoria prospettata, anche avuto riguardo al lasso cronologico che sarà necessario affinchè la stessa giunga a buon fine.

Nel programma – prosegue il comma 3 dell'art. 213 – sono, inoltre, puntualizzate le azioni giudiziali di qualunque natura che il curatore stimi opportuno intraprendere e le cause pendenti nelle quali intenda subentrare. Viene nuovamente in risalto l'attenzione per i costi da sostenere, che, infatti, vanno precisati con riguardo al “primo grado di giudizio”. Il contenzioso sarà, in altri termini, – con una specificazione di assoluto rilievo – censito ab initio e immantinente “governato”. I creditori e il giudice avranno chiara la “mappa” delle controversie che impegneranno anche economicamente la procedura, sia in quanto suscettibili d'essere intraprese (revocatorie fallimentari e ordinarie, azioni di responsabilità, azioni di recupero dei crediti, azioni verso le società di revisione "infedeli", azioni verso le banche per erogazione abusiva di credito, azioni ex art. 2476 c.c., azioni di simulazione, di nullità, di annullamento), sia in quanto destinate ad essere proseguite.

Il comitato dei creditori potrà, pertanto, valutare in partenza la vantaggiosità delle singole liti e disapprovare, all'atto dell'approvazione del programma, quelle che reputi poco redditizie o inutilmente dispendiose. Non sarà sufficiente, dunque, prevedere la vittoria della lite e i suoi tempi, occorrendo illustrare il risultato economico finale, ossia il flusso di cassa atteso.

Il comma 3 in parola si conclude commissionando al curatore l'onere di informare, attraverso il programma, circa gli esiti delle liquidazioni già compiute. Sebbene nel C.C.I. venga cassata la previsione in essere al comma 6, dell'art. 104-ter l.fall. sulle c.d. alienazioni extra-programmatiche (“prima della approvazione del programma, il curatore può procedere alla liquidazione di beni, previa autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori se già nominato, solo quando dal ritardo può derivare pregiudizio all'interesse dei creditori”), parrebbe, dunque, doversene desumere che le vendite urgenti e indilazionabili di beni potranno essere realizzate pure nel nuovo quadro normativo ogni qualvolta precluderle vorrebbe dire arrecare un pregiudizio ai creditori. Ragionevole, peraltro, che queste dismissioni anticipate seguano un inter rapido e destrutturato, ma tale da coinvolgere sia il comitato – che andrà celermente audito – sia il giudice delegato, cui sarà richiesto dal curatore di autorizzarle.

Il comma 4 dell'art. 214 corrisponde all'attuale lett. a) dell'art. 104-ter l.fall. e richiederà l'enucleazione programmatica degli atti necessari alla conservazione del valore dell'impresa, i quali si compendiano nell'esercizio dell'impresa del debitore e nell'affitto di azienda, ancorchè relativi a singoli rami di essa.

Del pari, il curatore dovrà precisare le modalità di cessione unitaria compendio produttivo, di singoli rami di esso, di beni o di rapporti giuridici individuabili in blocco.

È significativo che, topograficamente, il riferimento all'azienda, da richiamo “d'esordio” accluso nella lett. a) della norma attuale di disciplina della pianificazione, scivoli al comma 4 dell'art. 213 C.C.I., quasi ciò rivelasse una presa d'atto della sporadicità o dell'eccezionalità – perlomeno in rapporto alla cifra complessiva delle procedure – delle liquidazioni unitarie dei complessi aziendali o delle aggregazioni di beni o rapporti, nel marketplace aperto dall'insolvenza.

Il comma 5 dell'art. 213 C.C.I. spicca per la considerazione dei tempi della liquidazione, che esso intende meglio scandire.

Nel programma sarà allora indicato, non soltanto – more solito – il termine di presumibile completamento della liquidazione, ma anche quello entro il quale la relativa attività avrà inizio. Si tratta di una novità annodata “allo scopo di accelerare lo svolgimento della procedura” (così la Relazione allo schema di Decreto).

Alla previsione espressa dello start della liquidazione, fa da pendant l'altra originale disposizione che pretende adesso la messa in atto del primo esperimento di vendita e dell'avvio delle attività di recupero dei crediti, entro i dodici mesi dall'apertura della liquidazione giudiziale, fermo e impregiudicato il solo caso in cui il giudice, con decreto motivato, non abbia autorizzato un differimento.

Il termine per il completamento della liquidazione non potrà, infine, eccedere i cinque anni dal deposito della sentenza di apertura della procedura. Solo in ipotesi tendenzialmente infrequenti, che la norma confina nell'alveo della “eccezionale complessità”, il termine potrà essere allungato a sette anni dal giudice delegato.

La cronologia definita dal Riformatore mostra a prima vista una prudenza di base, ove comparata con il periodo attualmente concesso per il compimento della liquidazione, che si riduce allo struminzito segmento di due anni, di cui al comma 3 dell'art. 104-ter l.fall., segmento ampliabile su richiesta motivata (e frequentissima) del curatore, pressochè costantemente impossibilitato a rientrarvi.

Il comma 6 dell'art. 213 C.C.I. valorizza, dal canto suo, le sopravvenute esigenze, acconsentendo al curatore di amministrarle mediante la presentazione, ove occorra, di un supplemento del piano di liquidazione, che, deve ritenersi, debba assumere la medesima fisionomia, benchè su scala ridotta, del programma cui accede.

Ai sensi del comma 8 della norma in commento, il mancato rispetto dei termini previsti dal programma di liquidazione senza giustificato motivo è causa di revoca del curatore, al modo di quanto accade già oggi in virtù dell'ultimo comma dell'art. 104-ter l.fall..

Nel tentativo di abbreviarne la durata, la Riforma grava, dunque, il curatore del compito di pronosticare lo sviluppo della liquidazione, che, tuttavia, è massimamente influenzata dalle risposte del mercato.

In linea di principio, la nuova norma non sembra escludere che il curatore possa illustrare in successione diversi scenari, a seconda dell'esito delle singole operazioni progettate.

Una menzione ad hoc nella norma avrebbe, probabilmente, meritato il “paragrafo” delle origini del dissesto, con la spiegazione della natura e delle ragioni del default. Nessuna programmazione è affidabile se non è chiaro il fenomeno da cui scaturisce; né è immaginabile una ricollocazione sul mercato di un'azienda, se non è dato cogliere le motivazioni per le quali il mercato stesso l'ha espulsa.

Una cenno avrebbero meritato pure i rapporti pendenti, per il riverbero che la loro sorte è destinata a produrre proprio sulla liquidazione, salvo che non si decida di alienarli unitamente all'azienda, ove possibile.

Nemmeno in sede di Riforma, il legislatore ha, infine, pensato di dettare delle disposizioni per poter secretare parti del programma, per quanto risulti evidente che, qualora sia intenzione dell'Ufficio proporre azioni di responsabilità, se del caso precedute da procedimenti cautelari, la trasparenza debba essere contemperata con l'esigenza di non pregiudicare le iniziative giudiziali in fieri.

Il ridisegnato ruolo del giudice delegato

È il comma 7 dell'art. 213 C.C.I. a descrivere, in punto di programma di liquidazione, il più pregnante dei cambiamenti, disponendo che il piano è trasmesso al giudice delegato, il quale, prima ne autorizza la sottoposizione al comitato dei creditori per l'approvazione, successivamente, a placet conseguito, ne autorizza i singoli atti liquidatori in quanto ad esso concretamente conformi. Dunque, rispetto alla disciplina vigente, l'interlocuzione fra curatore proponente e comitato dei creditori decidente viene separata da un diaframma: sarà il giudice ad autorizzare il primo a presentare il programma al secondo, al fine di ottenerne il consenso.

Vi è nella scelta del Riformatore la sottesa convinzione dell'inidoneità del controllo atomistico sugli atti del programma “a valle” della relativa approvazione da parte del comitato. Detto controllo è, in effetti, inadeguato a leggere la vastità del fenomeno dell'insolvenza, con la galassia di interessi che lo descrivono e di implicazioni che lo solcano. Un vaglio giudiziale limitato al singolo atto rischia di perdere spessore e visione d'insieme, finendo per assumere una declinazione notarile ed amministrativistica che si è inteso archiviare e superare.

Nell'esercizio dello scrutinio preventivo ora concepito dal C.C.I., il magistrato non esprimerà, com'è ovvio, alcuna valutazione di convenienza o di opportunità (in quanto demandata al comitato dei creditori). Eppure il suo vaglio, osservando ab initio la panoramica delle iniziative programmate dal curatore, sarà ben più esteso di un controllo formale di stretta legalità. Il senso di questo passaggio procedimentale consisterà in una risposta all'esigenza di garantire la legittimità, non solo formale, ma sostanziale delle opzioni e delle modalità liquidatorie selezionate dal curatore. Attraverso la vigilanza anticipata sulla pianificazione effettuata dal curatore, il giudice monitorerà le operazioni e la loro coerenza intrinseca; la congruenza formale, giuridica e sostanziale dell'una iniziativa rispetto alle altre; la razionalità e la ragionevolezza della tempistica ipotizzata; la correttezza delle metodologie impiegate nel prevedere gli esiti delle soluzioni proposte; il rispetto da parte del curatore dei doveri che gli derivano dalla legge; l'effettività della tutela dei diritti e della tutela del credito; la legittimità del singolo atto nel quadro delle vicende cui la liquidazione giudiziale si fonda; la correttezza metodologica delle prospettive prefigurate.

Né a questo previo esame sembrerà avulsa l'opportunità dell'esercizio susseguente di una moral suasion sull'opportunità delle soluzioni rappresentate, in ragione delle antinomie emerse. In altri termini, il curatore verrà posto nelle condizioni di “correggere il tiro” in anticipo, azzerandosi in tal guisa rallentamenti della sua attività, posteriori all'approvazione del piano.

Successivamente all'approvazione, l'autorizzazione ad eseguire i singoli atti, che il comma 7 anzidetto fa salva, si riassumerà in un più comodo riscontro di conformità degli atti stessi al programma avallato dal comitato dei creditori.

La vendita dell'azienda, dei blocchi di beni o rapporti, dei crediti e delle partecipazioni

L'art. 214 C.C.I. riprende fedelmente il contenuto dell'art. 105 l.fall.. Eppure, se, sulla scia della norma vigente, quella nuova ribadisce la preferenza per le alienazioni aggreganti di beni e/o rapporti – legandola all'esigenza di conservazione, anche nel contesto delle insolvenze, dei valori insiti in esse – non mancano aspetti originali.

Il primo sta nell'espunzione dal testo dell'art. 214 C.C.I, della previsione di cui all'attuale comma 3 dell'art. 105 l.fall., avvertita come pleonastica, nella parte in cui rimanda alle “norme vigenti”, in tema di trasferimento parziale dei lavoratori alle dipendenze dell'acquirente e di ulteriori modifiche del rapporto di lavoro.

Il secondo aspetto si rinviene nel comma 7 del menzionato art. 214, a tenore del quale “le azioni o quote della società che riceve il conferimento possono essere attribuite, nel rispetto delle cause di prelazione, a singoli creditori che vi consentono”, nel mentre “sono salve le diverse disposizioni previste in leggi speciali”. Si tratta di una puntualizzazione non secondaria, condensandosi in essa un approccio alla regolazione dell'insolvenza che fa perno su una nuova opportunità: rendere compatibile il soddisfacimento dei creditori con la protezione dei complessi aziendali. In un rinnovato orizzonte non disgregativo, deve leggersi il senso dell'attribuzione ai creditori della facoltà di dismettere le vesti di soggetti in attesa della vecchia "moneta fallimentare", per assumere, ove lo vogliano, quelle di investitori, di (ri)finanziatori, di soci di newco, disposti a rilevare l'azienda accettando partecipazioni societarie in luogo del denaro connesso alla ragione di credito. In ciò sta l'essenza di una nuova "privatizzazione" della procedura concorsuale: la liquidazione giudiziale non più “stanza di compensazione” dei crediti, ma luogo di offerta di investimento per tutti, i creditori per primi.

Infine, l'ultimo comma dell'art. 214, si incarica di porre al riparo da tattiche elusive lo stendardo della par condicio, consentendo che il pagamento del prezzo sia effettuato mediante accollo di debiti da parte dell'acquirente, alla sola condizione che non ne risulti alterata “la graduazione dei crediti”.

Ciò detto, anche l'attuale art. 106 l.fall., in tema di liquidazione avente ad oggetto crediti e partecipazioni, viene riversato, senza una virgola in meno, nel nuovo art. 215 C.C.I.; si riconosce in tal modo l'alternatività piena fra cessione e riscossione diretta, mediante contratti di mandato.

Le modalità della liquidazione

Il comma 1 dell'art. 216 C.C.I si incarica di precisare che i beni acquisiti all'attivo della procedura sono stimati, in funzione della successiva liquidazione, da esperti nominati dal curatore “ai sensi dell'articolo 129, comma 2”, ossia su autorizzazione del comitato dei creditori.

La relazione di stima dovrà essere depositata con modalità telematiche, nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici, nonché delle apposite specifiche tecniche del responsabile per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia. La mancata ottemperanza agli oneri telematici assurgerà a motivo di revoca dall'incarico di curatore.

I modelli informatici delle relazioni di stima andranno pubblicati sul portale delle vendite pubbliche e, qualora la stima dovesse riguardare un bene immobile, dovrà contenere le informazioni previste per la perizia propria delle esecuzioni forzate individuali, giusta il rinvio testuale all'art. 173-bis disp. att. c.p.c.. Il Riformatore non si accontenta più – come fa la legge vigente – di contenuti essenziali e succinti, per quanto metodologicamente corretti, pretendendo, di contro, che la perizia assuma una connotazione analitica e puntuale.

Il comma 1 dell'art. 216 si cura, peraltro, di precisare che “la stima può essere omessa per i beni di modesto valore”.

Per la liquidazione del compenso dell'esperto viene richiamato, infine, il comma 3 dell'art. 161 disp. att. c.p.c..

L'art. 107, comma 1, l.fall., è ripreso testualmente nell'incipit del comma 2 dell'art. 216 C.C.I., in forza del quale “le vendite e gli altri atti di liquidazione posti in essere in esecuzione del programma di liquidazione sono effettuati dal curatore o dal delegato alle vendite tramite procedure competitive, anche avvalendosi di soggetti specializzati, con le modalità stabilite con ordinanza dal giudice delegato”.

Merita rilevare che il “filtro” della competizione non tollererà più nemmeno l'eccezione oggi in essere, relativa ai “beni di modesto valore”, che nel contesto dell'art. 107 alle forme competitive sfuggono per espressa deroga di legge, ma che nel quadro dell'art. 216, vi saranno pienamente sottoposte.

Estremamente significativo, poi, che, contrariamente a quanto succede nel vigore della l.fall., le modalità della liquidazione, anziché essere messe in atto, per proprio conto, dal curatore, in esito all'approvazione del piano, saranno necessariamente trasfuse e e suggellate in un'ordinanza del giudice delegato, il quale – si rammenti – avrà, a quel punto, già autorizzato ai sensi del comma 6 dell'art. 213, sia la sottoposizione al comitato del piano di liquidazione, che l'esecuzione dei singoli atti dopo l'approvazione di esso.

L'ordinanza – collocandosi in un momento posteriore a quello in cui il magistrato avrà effettuato il proprio controllo – servirà, con ogni evidenza, a plurime funzioni: innanzitutto, a dare un ordine specifico ed un'uniformità di modello e indirizzo, a livello di Ufficio, ad operazioni di dismissione di beni, che, altrimenti, risulterebbero inutilmente parcellizzate, tanto da disorientare gli utenti; in secondo luogo, a inserire in una cornice strutturata ed univoca autorizzazioni all'esecuzione degli atti liquidatori che, diversamente, risulterebbero isolate e pedisseque, in quanto meramente adesive alle relative richieste del curatore di acconsentirvi; ancora, a rendere possibile una ulteriore disamina sulla legittimità e liceità delle operazioni de quibus o – se si vuole – a prevenirne ogni irregolarità in rapporto alla normativa vigente; altresì, a saggiare e “convalidare” la consonanza dell'iniziativa liquidatoria alla disciplina preconfezionata in concreto dal programma di liquidazione, consentendo, in tal modo, al giudice delegato di esprimere un esame sull'attività del curatore dinamico e non circoscritto alla valutazione statica e aprioristicadei contenuti del piano; infine, ad individuare, almeno tendenzialmente, un “solo” provvedimento impugnabile, concentrando su di esso gli eventuali reclami e, in certo senso sterilizzandoli in ragione del sedimentarsi, nei singoli uffici, di ordinanze “tipo”.

Probabilmente la ratio della previsione relativa all'ordinanza risiede, poi, nell'esigenza precipua di rinvigorire le prescrizioni di piano con una sorta di vessillo di certezza o valido “timbro” di legalità. Il grado di attendibilità che la “firma” del giudice delegato riesce ad assicurare, per la sua posizione di terzietà e imparzialità, fa sì che la vendita rassicuri l'utenza che ci si accinge ad intercettare.

Merita dire che il secondo periodo del comma 2 della norma di nuovo conio, si cura di prevedere che per i beni immobili il curatore dovrà porre in essere “almeno tre esperimenti di vendita all'anno”. La norma tiene la corsia di accelerazione disegnata, in tema di programma di liquidazione, dal già esaminato comma 5 dell'art. 213 C.C.I., che esige lo svolgimento del primo tentativo di vendita entro dodici mesi dall'apertura della liquidazione giudiziale, salvo rinvio concesso dal giudice per giustificato motivo.

Lo sbocco favorevole del tentativo di vendita è agevolato dall'opportunità, dopo il terzo esperimento andato deserto, di ribassare il prezzo di vendita “fino al limite della metà rispetto a quello dell'ultimo esperimento”.

Mira a facilitare la vendita dell'immobile, la disposizione del comma 2 dell'art. 216 in forza della quale il giudice delegato ordina la liberazione dei beni immobili occupati dal debitore o da terzi muniti di titolo non opponibile al curatore. Se per un verso, la disposizione in parola è fortificata dalla espressa applicazione dell'art. 560, commi terzo e quarto, c.p.c. in tema di ordine di liberazione nell'esecuzione forzata immobiliare, nondimeno essa va letta in correlazione con la previsione, esplicitamente fatta salva, di cui all'art. 147, comma 2, C.C.I., in ragione del quale “la casa della quale il debitore è proprietario o può godere in quanto titolare di altro diritto reale, nei limiti in cui è necessaria all'abitarione di lui e della famiglia, non può essere distratta da tale uso fino alla sua liquidazione”.

Il comma 2, dell'art. 216 C.C.I. descrive, infine, l'onere, in capo al debitore, di dare notizia, mediante notificazione, del compimento delle operazioni di vendita, ai creditori ipotecari e a quelli muniti di privilegio. Ciò parrebbe spiegarsi, non solo in virtù dell'opportunità di coinvolgere i prelatizi in una procedura della quale hanno già avuto nozione al pari degli altri, ma in ragione della loro possibilità – che proprio la norma in questione sembrerebbe, in qualche modo, perorare – di chiedere l'assegnazione del bene.

Anche nella cornice del C.C.I., il paradigma operativo dell'espropriazione forzata individuale rimane adoperabile, qualora il giudice ne disponga l'impiego, nei limiti della “compatibilità”. Il comma 3 dell'art. 216 C.C.I. doppia in tal senso l'attuale comma 2 dell'art. 147 l.fall., che rende spendibili nel contesto concorsuale le norme del codice di rito civile solo “in quanto compatibili”. Le disposizioni codicistiche continueranno, in linea di massima, a comporre un'opzione del curatore, non un passaggio obbligato. Tuttavia, la confluenza delle alienazioni forzate concorsuali e di quelle individuali nel meccanismo del portale vendite pubbliche costituisce una scelta politica di fondo, destinata tracciare una linea di indirizzo: è da attendersi, pertanto, salvo intoppi, un progressivo livellamento del mercato delle vendite pubbliche e del suo funzionamento.

Il comma 4 dell'art. 216 C.C.I. riversa, nell'ambito della liquidazione, il ricorso alle modalità telematiche tramite il portale delle vendite pubbliche, modalità disapplicabilinel solo caso in cui siano “pregiudizievoli per gli interessi dei creditori o per il sollecito svolgimento della procedura”.

Il portale assume centrale importanza nel sistema delle vendite endoconcorsuali, sol che si consideri che il giudice disporrà, ai sensi del comma 5 dell'art. 216, l'effettuazione in esso della pubblicità, non solo dell'ordinanza di vendita, ma anche “di ogni altro atto o documento ritenuto utile”. È dichiarata la possibilità di utilizzare, in aggiunta, complementari forme di pubblicità, in quanto “idonee ad assicurare la massima informazione e partecipazione degli interessati”. Ai fini dell'efficacia di dette forme ulteriori è previsto che esse debbano “effettuarsi almeno trenta giorni prima della vendita”, con possibilità di riduzione del termine “esclusivamente nei casi di assoluta urgenza”.

Attraverso il portale delle vendite saranno gestite, sia le “visite” dei beni, essendo gli interessati tenuti a formulare suo tramite la richiesta di esaminarli (comma 6, art. 216), sia la presentazione delle offerte (comma 7, art. 216). Queste ultime, a pena di inefficacia, dovranno pervenire entro il termine stabilito nell'ordinanza di vendita ed essere accompagnate da cauzione nella misura ivi indicata; potranno, peraltro, anche essere inferiori di non oltre un quarto al prezzo stabilito nell'ordinanza di vendita.

La previsione di cui al secondo periodo del primo comma dell'art. 107 l.fall. sulla disposizione sulla rateizzabilità del prezzo di vendita è trapiantata nel comma 8 dell'art. 215, che fa salve “in quanto compatibili”, le disposizioni di cui agli articoli 569, terzo comma, terzo periodo, 574, primo comma, secondo periodo, 585 e 587, primo comma, secondo periodo, c.p.c.

Di tenore analogo all'attuale comma 5 dell'art. 107 l.fall., è l'adempimento informativo sugli esiti della vendita cui il curatore è tenuto nei confronti degli altri organi concorsuali. Detta incombenza dovrà avvenire nel termine – prima imprecisato, ora scandito – di cinque giorni dal trasferimento di ciascun bene ed essere eseguita “mediante deposito nel fascicolo informatico”.

Se la direttrice di riforma del biennio 2005-2006 combaciava con una marcata "privatizzazione" delle forme della liquidazione – non più predefinite dalla legge per moduli standardizzati, ma rimesse all'elaborazione del curatore, secondo le peculiarità del caso concreto – il C.C.I. sceglie di irregimentare di più l'organo propulsivo della liquidazione, vincolandolo a muoversi entro taluni schemi: non basteranno più la competitività della procedura di selezione dell'acquirente, né la congruità purchessia dei valori di stima del bene liquidabile, né il ricorso a modelli operativi scarni, semplificati e non necessariamente telematici. Piuttosto, serviranno stime adeguate al “format” della perizia dell'esecuzione forzata individuale; bisognerà adoperare il portale delle vendite pubbliche per la gestione delle visite e, soprattutto, delle offerte; sarà indispensabile pubblicare gli avvisi delle vendite sul portale e sui siti di pubblicità integrativa per almeno trenta giorni, salvo, per circoscrivere il termine, ricordarsi di motivare l'“assoluta urgenza”; sarà imprescindibile eseguire le vendite con l'ausilio di modalità telematiche, ancora una volta tramite il portale.

La percezione è che l'omogenizzazione tendenzialmente voluta dal Riformatore fra vendite endoconcorsuali e vendite forzate individuali faccia premio sulla necessaria libertà del curatore di strutturare le forme di alienazione, secondo la bussola dei principi di competitività e trasparenza e le connotazioni e i bisogni del caso di specie. Al contesto complesso e problematico della liquidazione in sede concorsuale è in realtà consustanziale una dose ampia di discrezionalità in capo al curatore, perché tale contesto finisce per attagliarsi meno bene che nell'espropriazione singolare a congegni, se non ingessati, perlomeno anelastici. Eppure, le vendite disciplinate dal C.C.I. saranno chiamate a scontare le criticità del portale e misureranno le sue reali attitudini a rappresentare all'attualità uno strumento davvero idoneo a governare il mercato dei beni delle imprese decotte. In tal senso, se non si trascura nemmeno la difficoltà del portale di gareggiare “a costo zero” con i siti privati – che, diversamente da esso, investono risorse cospicue sulla propria diffusione e sul livello della propria performance – è da prevedere che la clausola di salvezza che esonererà dal rispetto delle modalità telematiche, ogni qualvolta le stesse siano “pregiudizievoli per gli interessi dei creditori o per il sollecito svolgimento della procedura”, finirà per essere ampiamente frequentata, sicchè, nel periodo medio-lungo, molto muterà sulla carta, per rimanere invariato nell'esperienza concreta.

Certamente la vendita a trattativa privata – secondo lo schema in base al quale ad una o più manifestazioni di interesse (sollecitate o meno dalla curatela), faccia da appendice lo svolgimento necessario di una gara – si palesa, pure in astratto, nell'incipiente regime, ancor più recessivo, in quanto difficilmente praticabile in ragione delle incombenze connesse all'uso del portale.

Ciò detto, rimane invariata la dinamica dei rapporti fra procedura di regolazione dell'insolvenza e procedimenti esecutivi individuali. In forza del comma 9 dell'art. 215, qualora alla data di apertura della liquidazione siano pendenti procedure espropriative, il curatore potrà decidere di subentrarvi, con conseguente applicazione delle disposizioni del codice di procedura civile; altrimenti, il curatore potrà formulare istanza di improcedibilità delle stesse, che il giudice dovrà dichiarare. La discrezionalità della scelta del curatore è assoluta, benchè presupponga una valutazione previsionale sull'epilogo dell'esecuzione in itinere. Opportuna giunge, poi, la precisazione della nuova norma, secondo cui l'improcedibilità non determina la caducazione degli effetti sostanziali del pignoramento che vengono fatti espressamente salvi: il pignoramento singolare si salda a quello “globale” correlato alla declaratoria di apertura della procedura concorsuale.

Gli altri poteri del giudice delegato

L'art. 217 C.C.I. contiene previsioni di tenore pressochè identico a quelle dell'art. 108 l.fall..

In tal senso, in forza del comma 1 della norma, il giudice delegato, su istanza del debitore, del comitato dei creditori o di altri interessati, previo parere dello stesso comitato, può sospendere, con decreto motivato, le operazioni di vendita, qualora ricorrano gravi e giustificati motivi ovvero, su istanza presentata dagli stessi soggetti entro dieci giorni dal deposito della documentazione informativa sull'esito della vendita, impedire il perfezionamento di questa quando il prezzo offerto risulti notevolmente inferiore a quello ritenuto congruo.

Nel comma de quo, viene aggiunta la disposizione secondo cui, qualora il prezzo offerto sia inferiore, rispetto a quello indicato nell'ordinanza di vendita, in misura non superiore ad un quarto, il giudice delegato può impedire il perfezionamento della vendita in presenza di concreti elementi idonei a dimostrare che un nuovo esperimento di vendita può consentire, con elevato grado di probabilità, il conseguimento di un prezzo perlomeno pari a quello stabilito. Detta disposizione è collegata a quella, espressa dal comma 7 della norma in commento, che considera efficaci le offerte anche inferiori di non oltre un quarto al prezzo stabilito nell'ordinanza di vendita.

Il comma 2, dispone, invece, che, per i beni immobili e gli altri beni iscritti in pubblici registri, una volta eseguita la vendita e riscosso interamente il prezzo, il giudice delegato ordina, con decreto, la cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione, nonché delle trascrizioni dei pignoramenti e dei sequestri conservativi e di ogni altro vincolo.

Se con riferimento a quest'ultima previsione viene confermato l'effetto “purgativo” della vendita forzata, veicolato da un decreto ad hoc, con riferimento al potere di sospensione, balza agli occhi come, anche nel C.C.I., da un lato, si sia preferito togliere ogni spazio all'esercizio officioso di esso (sicchè il magistrato provvederà solo su istanza dei legittimati); dall'altro lato, si sia stimato utile sottrarre la sospensione alla previa introduzione di un giudizio sulla falsariga segnata dagli artt. 615 o 619 c.p.c., di talchè il giudice delegato provvederà a seguito del deposito dell'istanza, senza ulteriori adempimenti.

L'esercizio dell'impresa del debitore

L'art. 211 C.C.I. si apre con la positivizzazione del principio generale secondo cui “l'apertura della liquidazione giudiziale non determina la cessazione dell'attività di impresa, fermo restando, al fine di tutelare i creditori, che la prosecuzione dell'esercizio dell'attività imprenditoriale da parte del curatore deve essere autorizzata espressamente: dal tribunale, con la sentenza che dichiara aperta la liquidazione giudiziale, quando dall'interruzione può derivare un danno grave o, successivamente, dal giudice delegato, con il parere favorevole del comitato dei creditori, cui è attribuito un ruolo decisivo, essendo tale organo chiamato, con cadenza trimestrale, a pronunciarsi sull'opportunità della prosecuzione” (così la Relazione di accompagnamento dello schema di decreto).

Non è una premessa scontata, ma la sedimentazione di una visuale: la liquidazione è una fase di sfruttamento dell'azienda, il che implica la necessità di evitare cessazioni drastiche e traumatiche dell'attività d'impresa, dando corso, ove possibile, a quell'attività in funzione di un nuovo obiettivo, rappresentato dalla soddisfazione delle pretese dei creditori concorsuali.

Su queste basi, è dato constatare come l'istituto dell'esercizio provvisorio di cui all'art. 104 l.fall venga riversato senza variazioni sostanziali nel nuovo art. 211 C.C.I., a conferma della riconosciuta funzionalità astratta di esso.

L'esercizio dell'impresa risponderà, pure nel rimeditato contesto, ad una funzione di difesa dell'unitarietà dei complessi produttivi, della loro sezione ancora residualmente attiva, dell'avviamento e dei c.d. intangibles, quali attributi non autonomamente commerciabili, eppure cedibili insieme all'azienda, che loro tramite assume un valore esponenzialmente maggiore.

Due rimarranno, a tenore dei commi 2 e 3 dell'art. 211 C.C.I., le ipotesi possibili di gestione provvisoria dell'impresa fallita.

L'anzidetto comma 2 riprende il calco dell'odierno comma 1 dell'art. 104 l. fall., dal che deriverà l'immutata competenza del Tribunale concorsuale ad autorizzare, con la sentenza che aprirà la liquidazione giudiziale, la prosecuzione dell'impresa o di “specifici rami dell'azienda”, qualora dall'interruzione possa derivare “un grave danno”, a condizione che “la prosecuzione non arrechi pregiudizio ai creditori”. Con ogni evidenza, si assiste ad una mera modifica linguistica della norma attualmente vigente, con l'aggiunta nel testo di quella nuova del lemma “prosecuzione”.

Inalterato resta pure l'archetipo dell'esercizio provvisorio disposto, nel corso della liquidazione giudiziale, su impulso del curatore, in quanto l'art. 211, comma 3, dispone che: “Successivamente, su proposta del curatore, il giudice delegato, previo parere favorevole del comitato dei creditori, autorizza, con decreto motivato, l'esercizio dell'impresa, anche limitatamente a specifici rami dell'azienda, fissandone la durata”. In questo caso il riferimento alla “continuazione” proprio dell'art. 104 l.fall. è soppiantato da quello all'“eserciziotout court dell'impresa.

Il rapporto tra salvaguardia di organismi produttivi e tutela dei creditori è risolto anche dal C.C.I. consentendo il ricorso all'esercizio d'impresa solo in funzione di una più proficua e redditizia liquidazione, quindi di una miglior soddisfazione del ceto creditorio.

Occorre, anche nel quadro della nuova norma, l'operatività attuale dell'impresa, che, pertanto, accertata l'insolvenza, si presterà ad essere semplicemente proseguita, non anche ex novo intrapresa.

Nel caso di esercizio disposto in sentenza, il requisito negativo è dato dall'esigenza di evitare il “danno grave” che discenderebbe dall'interruzione drastica dell'attività d'impresa. Il richiamo alla gravità del danno, non ulteriormente caratterizzato (esemplificativamente con l'attributo dell'irreversibilità), suggerisce l'impiego dell'esercizio d'impresa anche a tutela di interessi da quelli dei creditori, per esempio in ragione della particolare importanza sociale del servizio o del prodotto offerto. La menzione testuale appartata del pregiudizio da scongiurare in capo ai creditori – i quali nulla devono soffrire in virtù della “prosecuzione” –, mostra la riferibilità del “danno grave” ad un contesto estraneo al recinto delle loro posizioni, quindi oltre che alle anzidette situazioni soggettive e/o collettive d'impatto sociale, anche all'impresa in re ipsa, minata nella sua esistenza, lesa da una diminuzione di valore, attinta dalla privazione repentina di ambiti di mercato, in ipotesi di improvvisa chiusura.

Anche nel C.C.I., il presupposto negativo dell'assenza d'ogni pregiudizio per i creditori, sembra implicare un riferimento all'intangibilità, non dell'interesse del singolo, ma di quello “di categoria”. In un quadro che vede disarticolarsi in classi plurali ed eterogenee la “comunità delle perdite”, una volta rappresentata dalla massa dei creditori, vi è probabilmente spazio – nel panorama del C.C.I. – pure per una ponderazione del pregiudizio in una prospettiva che ne apprezzi gli eventuali vantaggi compensativi: potrebbero rilevare, cioè, non soltanto i benefici stimati sulla base di una potenziale miglior soddisfazione nominale del credito monetario, ma quelli suscettibili di correlarsi, non tanto alla percentuale numerica del credito, ma alla posizione del suo titolare, nonché della singola sotto categoria nella quale costui si iscrive (esemplificativamente, per i dipendenti dell'impresa può essere di maggior pregio il mantenimento del posto di lavoro in luogo di una percentuale di poco superiore di soddisfazione monetaria della propria ragione).

L'esercizio d'impresa su proposta del curatore, continuerà ad essere disposto con decreto motivato del giudice delegato, su parere obbligatorio e vincolante del comitato dei creditori. Proprio l'attribuzione di un'efficacia vincolante al parere dei titolari delle pretese rende estranea all'utilizzo dell'istituto la valutazione di profili estranei all'interesse creditorio.

Sebbene il C.C.I. lo confini, al pari della l.fall., al rango di parametro implicito, il criterio dell'opportunità-economicità presiederà certamente all'avvio come alla prosecuzione dell'esercizio, risolvendosi in una complessa analisi comparativa costi-benefici: il giudice rimarrà tenuto a pronosticare il ricavo potenziale, ritraibile dalla vendita dell'azienda cui venga associato l'esercizio, al netto delle variazioni finanziarie originate dalla continuazione, nonché a confrontare questo dato all'introito conseguibile, alternativamente, dalla monetizzazione dell'azienda non in esercizio e/o dalla dismissione parcellizzata dei singoli beni che la compongono.

I commi da 4 a 7 dell'art. 211 del C.C.I. riprendono l'architettura dei commi da 3 a 6 dell'art. 104 l.fall. salva qualche rettifica essenzialmente letterale.

Al pari di quanto accade ex art. 104, comma 3, l.fall., il curatore convocherà, perlomeno trimestralmente il comitato dei creditori, al fine di informarlo sull'andamento della gestione e di consentirgli di pronunciarsi sull'opportunità della continuazione ulteriore dell'impresa. Analogamente a quanto avviene, in forza dell'attuale comma 4 della norma di riferimento della l.fall., il comitato dei creditori potrà, ai sensi del comma 5 dell'art. 211 C.C.I., far cessare ad libitum l'esercizio provvisorio, posto che, ogni qualvolta lo riterrà opportuno, il giudice delegato dovrà ordinarne la cessazione.

Sempre in linea con i dettami della l.fall., il comma 6 della norma neonata, prevede che il curatore rendiconti ogni semestre in merito all'attività prestata, comunque informando il giudice delegato e il comitato di tutte le circostanze sopravvenute che possano influire sulla prosecuzione dell'esercizio.

La gestione conservativa del patrimonio produttivo seguita ad incentrarsi – come appare evidente – su di un ruolo proattivo del curatore, chiamato ad assumere sulla procedura il rischio di impresa e a dar corso all'attività economica dell'imprenditore.

Certamente la prospettiva d'esercizio non può volgere alla ristrutturazione dell'impresa, essendo detta categoria ontologicamente scollegata da una procedura mirata a dare assetto all'irrecuperabilità finanziaria in cui si risolve l'insolvenza. Tuttavia, sebbene il silenzio del C.C.I. al riguardo, faccia il paio con la reticenza in proposito della l.fall., nulla esclude che la gestione provvisoria possa contemplare anche un ventaglio, più o meno esteso, di interventi di tipo innovativo, qualora strettamente funzionali a rinvigorire l'impresa, a implementarne la vitalità strutturale, a farle riguadagnare quote, in quel mercato in cui, in ultima analisi, essa ambisce a conseguire una ricollocazione.

Sullo stampo dell'art. 104 l.fall., l'art. 211 C.C.I. ha inteso sorvolare sulle modalità di svolgimento dell'attività d'impresa, ad opera della curatela. Nell'assenza di prescrizioni, sembra plausibile ritenere che l'organo concorsuale non necessiti di autorizzazioni del comitato al fine di compiere gli atti di gestione: non vi è nulla di straordinario nell'esercizio degli atti in cui si compendia la conduzione necessarimente dinamica dell'impresa, sicchè, nel quadro del C.C.I., parrebbero sufficienti a legittimarne il compimento, per un verso l'approvazione che il comitato dovesse accordare al programma di liquidazione che preveda l'impiego dell'istituto (art. 213, comma 7, C.C.I.), per altro e concomitante verso, l'autorizzazione generale e preventiva in cui si risolverà il provvedimento che dispone l'esercizio.

Solo per gli atti che esulino da quanto pianificato e che si connotino, proprio perciò, come straordinari, occorrerà l'autorizzazione di cui all'art. 132 C.C.I. (“Integrazione dei poteri del curatore”); sarà, invece, sempre necessaria l'autorizzazione del giudice delegato per le costituzioni in giudizio ai sensi dell'art. 123, comma 1, lett. f, C.C.I..

Il curatore si occuperà, poi, di selezionare i contratti compiutamente funzionali alla continuità, sospendendo o sciogliendo unilateralmente quelli che tali non siano, a tenore di quanto consentitogli dal comma 8 dell'art. 211 C.C.I..

Detta disposizione andrà, peraltro, raccordata con gli artt. 172 e ss. C.C.I.. Il coordinamento starà, ragionevolmente, in ciò, che le norme generali vedranno riespandere la propria incidenza applicativa una volta concluso l'esercizio della curatela e in relazione ai contratti che, nelle more, non siano stati sciolti. In ogni caso, dovrebbe ritenersi applicabile analogicamente, in costanza di esercizio, la prerogativa di cui al comma 2 dell'art. 172 richiamato, che consente al privato contraente di mettere in mora il curatore, facendogli assegnare dal giudice delegato un termine non superiore a sessanta giorni, decorso il quale, ove l'organo concorsuale non comunichi di voler subentrare nel rapporto negoziale, quest'ultimo si intende risolto.

Il medesimo comma 8 in parola è chiaro nel riconoscere l'inerenza alla massa, quindi la prededucibilità, ai crediti sorti nel corso dell'esercizio dell'impresa.

Quest'ultimo – tanto se disposto coevamente alla sentenza d'apertura della liquidazione, che qualora statuito in costanza di quest'ultima – anche nell'ambito incipiente del C.C.I. pretenderà come sempre persistenti i presupposti che lo hanno giustificato, di talché la convenienza (in negativo, l'assenza di pregiudizio) per i creditori, oggetto di apprezzamento nella fase genetica, è tema di riprova incessante, in una assidua attività di osservazione e verifica.

La chiusura dell'esecizio continuerà a scontare, anche nel C.C.I., le sue tradizionali criticità: l'ancoraggio al criterio dilatato e inespressivo dell'opportunità della chiusura e una evidente asimmetria di governo della fase di epilogo rispetto a quella di avvio.

In effetti, il giudice dovrà disporre la cessazione, con provvedimento reclamabile, sol che il comitato reputi opportuno non proseguire oltre (art. 211, comma 5). Il tribunale, dal canto suo, potrà far cessare motu proprio l'esercizio provvisorio, con provvedimento non assoggettabile ad impugnazione, sentiti curatore e comitato dei creditori (comma 7).

Se ne ricava che il giudice delegato, quand'anche autorizzi l'esercizio, non avrà potere di impedirne la fine; il tribunale, di contro, potrà pronunciare sia l'inizio (con sentenza) che la cessazione dell'esercizio; il comitato disporrà un potere di veto sia sull'avvio (in costanza di liquidazione giudiziale), su impulso del curatore, che sulla prosecuzione dell'esercizio in ogni caso, mentre non potrà, comunque, opporsi alla valutazione autonoma che il tribunale dovesse decidere di compiere, decretando autoritativamente la conclusione della gestione provvisoria.

Su questo quadro così disarticolato farà premio, ancora una volta, l'opportunità di una virtuosa condivisione di scelte strategiche tra gli organi concorsuali coinvolti.

In ogni caso, un problema continuerà ad afferire alla spettanza del potere di disporre l'esercizio d'impresa nel lasso intercorrente tra la sentenza dichiarativa di apertura della liquidazione giudiziale e l'approvazione del programma di liquidazione.

I commi 8 e 10 dell'art. 211 del C.C.I. espongono opportune precisazioni in punto di rapporti fra l'impresa in esercizio e gli enti pubblici appaltanti.

Il comma 8, nel conservare, in linea di continuità con il comma 7 dell'art. 104 l. fall., la prerogativa di sciogliere o sospendere i contratti pendenti in essere e la prededucibilità dei crediti generati in corso di esercizio, soggiunge che “è fatto salvo il disposto dell'articolo 110, comma 3, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50”. Tale ultima norma, acclusa nel c.d. “Contratto degli appalti pubblici”, prevede che il curatore del fallimento in esercizio provvisorio, possa, dietro autorizzazione del giudice delegato “a) partecipare a procedure di affidamento di concessioni e appalti di lavori, forniture e servizi ovvero essere affidatario di subappalto; b) eseguire i contratti già stipulati dall'impresa fallita o ammessa al concordato con continuità aziendale”.

Ove si consideri che, il successivo comma 10 dell'art. 211 C.C.I. dispone che “Il curatore autorizzato all'esercizio dell'impresa non può partecipare a procedure di affidamento di concessioni e appalti di lavori, forniture e servizi ovvero essere affidatario di subappalto”, complessivamente se ne ricava come l'organo concorsuale in menzione necessiti sempre di un titolo autorizzatorio, resogli dal giudice delegato, al fine di instaurare rapporti negoziali con stazioni appaltanti pubbliche, accedendo previamente alle procedure di gara da queste indette.

L'affitto d'azienda

Il contenuto dell'art. 104-bis l.fall. è stato interamente mutuato dall'art. 212 C.C.I..

L'istituto conserverà, pertanto, immutate le sembianze che oggi lo caratterizzano.

Il suo presupposto e limite intrinseco rimarrà quello della rispondenza al fine della più proficua vendita dell'azienda o di parti di essa e non sarà possibile affittare il compendio produttivo ai soli fini dell'incameramento del canone.

La scelta dell'affittuario dovrà avvenire sulla scorta della previa stima del complesso aziendale. Il meccanismo di selezione dovrà, poi, consentire una partecipazione ampia degli interessati, con adeguate forme di pubblicità e con massima informazione e rimarrà, infine, ancorata ai tre filtri rappresentati dalla misura del canone, dalle garanzie offerte dal potenziale contraente, dalla maggior salvaguardia dei livelli occupazionali.

All'affitto continuerà a potersi approdare anche prima dell'approvazione del programma di liquidazione.

Il ruolo di promotore seguiterà ad essere affidato al curatore e l'affitto sarà autorizzato dal giudice delegato, previo parere favorevole e vincolante del comitato dei creditori, "quando appaia utile al fine della più proficua vendita dell'azienda o di parti della stessa" (comma 1, art. 212 C.C.I.).

Varrà l'adattamento in funzione dell'individuazione dell'offerente da prediligere delle modalità delle vendite di cui all'art. 216 C.C.I., appositamente richiamate. Non può escludersi il ricorso alla trattativa privata adeguatamente pubblicizzata, condizionatamente al successivo “passaggio” attraverso il filtro del mercato secondo le modalità di cui alla richiamata norma sulle vendite.

Il contratto di trasferimento dell'azienda stipulato dal curatore sarà soggetto alle forme di cui all'art. 2556 c.c., con un necessario ricorso al magistero notarile: il pubblico ufficiale sarà chiamato a garantire non solo la legalità e l'autenticità del contratto, ma anche l'adempimento di quelle formalità che rendono conoscibile e quindi trasparente il contratto stesso.

Il terzo comma e il quarto comma dell'art. 212 prevedono un contenuto minimo del contratto, esigendo clausole che assicurino ispezioni del curatore; contemplino garanzie reali o personali per canone e obbligazioni ex art. 2562 c.c.; consentano il recesso ad nutum da parte del curatore, che deve potersi “svincolare”, pagando un indennizzo, quando ritiene propizia la vendita; scandiscano una durata compatibile con liquidazione rapida.

Il quinto comma della norma di riferimento permetterà il riconoscimento all'affittuario di una prelazione convenzionale, autorizzata dal giudice delegato, su parere favorevole del comitato dei creditori

Infine, a tenore del settimo comma dell'art. 212, in deroga a quanto previsto dagli artt. 2112 e 2560 c.c. il fallimento non risponderà dei debiti dell'affittuario.

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