L'illecito disciplinare non è previamente constestato? Il fatto si considera insussistente
18 Febbraio 2019
Massima
Il mancato avvio della procedura disciplinare per difetto della previa contestazione dell'illecito addebitato al lavoratore determina l'annullamento del licenziamento e la condanna della parte datoriale alla reintegrazione nel posto di lavoro, con i connessi obblighi risarcitori e contributivi, in applicazione dell'art. 18, comma 4, st. lav., modif. ex art. 1, comma 42, l. n. 92 del 2012.
La tutela reale è giustificata dall'equiparabilità dell'ipotesi in cui un fatto contestato non sia individuabile e quella dell'accertata insussistenza dello stesso. Il caso
Un lavoratore impugnava il licenziamento disciplinare ex art. 2119, c.c., irrogato con lettera del 29 giugno 2018 affinchè ne venisse dichiarata la nullità per l'assenza della dovuta previa contestazione ex art. 7, st. lav., con conseguente reintegra nel posto di lavoro ai sensi dell'art. 18, comma 4, st. lav., domandando, in subordine, che venisse accertato il difetto della giusta causa del recesso datoriale, garantendosi le tutele di cui al quinto comma del medesimo articolo.
Si costituiva in giudizio la parte datoriale perorando, in fatto ed in diritto, le ragioni giustificanti il licenziamento e chiedendo, quindi, il rigetto della domanda del ricorrente. La questione
Il difetto assoluto di contestazione della condotta disciplinare garantisce al lavoratore licenziato la tutela reale o quella risarcitoria? Soluzioni
Dopo un veloce richiamo all'orientamento giurisprudenziale (ex plurimis:Cass., 24 settembre 1991, n. 9953) secondo il quale, prescindendosi da una eventuale diversa qualificazione, è da ritenersi ontologicamente disciplinare, con il conseguente riconoscimento delle garanzie connesse ex art. 7, st. lav., quel licenziamento la cui giustificazione venga fondata sull'imputazione al lavoratore di un grave inadempimento, inteso come giustificato motivo soggettivo ovvero giusta causa del recesso datoriale, il Tribunale di Bari sposta la propria analisi sulla questione centrale: quale tutela è da garantire al ricorrente nel caso di specie?
Baricentro della decisione è individuabile nel dato letterale della normativa richiamata, ossia l'art. 18, st. lav., così come modificato dall'art. 1, comma 42, l. n. 92 del 2012 (c.d. legge Fornero), applicabile al caso concreto ratione temporis. L'attenzione è puntualizzata sul comma quarto e sesto dell'articolo prefato. Con il primo vengono stabiliti, in modo specifico, i casi nei quali, impugnato il licenziamento disciplinare, il dipendente potrà domandare la reintegrazione nel posto di lavoro, ossia qualora venga accertata la insussistenza del fatto contestato ovvero il fatto rientri tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili. Il giudice di primo grado evidenzia inoltre l'estensione della tutela reale anche alle ipotesi in cui il fatto, sebbene accaduto nella realtà fenomenica, si presenti privo del carattere di illiceità (ex plurimis: Cass., 17 maggio 2018, n. 12102; Cass., 5 dicembre 2017, n. 29062; Cass., 26 maggio 2017, n. 13383; Cass., 25 maggio 2017, n. 13178; Cass., 20 settembre 2016, n. 18418). Il sesto comma, diversamente, sanziona l'inosservanza della procedura di cui all'art. 7, st. lav., con la sola indennità risarcitoria, compresa tra un minimo ed un massimo di mensilità.
Facendo leva sul dato letterale, il giudice esclude che l'assoluta mancanza della previa contestazione dell'illecito disciplinare possa essere qualificata come una mera inosservanza delle garanzie procedimentali, facendo l'art. 18, st. lav., espresso riferimento alla condotta contestata, non semplicemente addebitata. Nel caso concreto, quindi, sarebbe mancato ab initio lo stesso procedimento disciplinare, mai sostanzialmente avviato. Nessun rilievo è stato riconosciuto al telegramma n. XXX del 7 maggio 2013, inviato al lavoratore dalla parte datoriale, non emergendo dallo stesso alcuna contestazione inerente ai fatti e/o comportamenti posti a fondamento del disposto licenziamento.
In assenza della dovuta contestazione scritta, si dovrà sostenere l'insussistenza del fatto con conseguente reintegrazione nel posto di lavoro e connessi obblighi risarcitori e contributivi ex art. 18, comma 4, st. lav., con impossibilità per il giudice di operare una valutazione circa la proporzionalità della sanzione applicata rispetto ad una condotta mai contestata.
Per tali ragioni, annullato il licenziamento, veniva disposta la reintegra del lavoratore. Osservazioni
La decisione del Tribunale di Bari appare condivisibile nel momento in cui ci si sofferma ad esaminare la ratio fondante l'art. 7, st. lav. Il potere disciplinare, in stretta connessione con quello direttivo, è lo strumento grazie al quale il suo titolare, recte il datore di lavoro, ha la possibilità di contestare, ed eventualmente anche sanzionare, condotte del dipentente venuto meno ai doveri legali o contrattuali, nonché comportamenti che, sebbene posti in essere in un contesto extra-lavorativo, ledano il profilo fiduciario del rapporto di lavoro. Nell'ambito del procedimento disciplinare, tuttavia, dal momento che la parte datoriale si presenta al contempo come inquisitore e giudice, si appalesa l'esigenza che suddetto potere non scada in mero arbitrio nonché la necessità di garantire, analogamente a quanto avviene nel settore penale, l'esercizio del diritto di difesa, costituzionalmente tutelato. Per tali ragioni l'art. 7, st. lav., in linea con il principio nullum crimen, nulla poena, sine lege, dispone innanzitutto che il lavoratore sia posto in grado di avere conoscenza delle condotte rilevanti sul piano disciplinare, così da potere prevedere le conseguenze del proprio operato. Il legislatore richiede inoltre che il datore contesti espressamente il fatto ascritto, e ciò in modo specifico, perimetrando il thema decidendum, ma anche tempestivo, così da consentire al lavoratore una ponderata valutazione in merito al percorso difensivo da seguire, ovviando anche il rischio di una debole difesa dovuta alla distanza temporale tra la contestazione e la condotta addebitata, con meno agevole possibilità di replica.
Lapalissiano è l'effetto pregiudizievole per il diritto di difesa di un diffetto di contestazione. Sarebbe opinabile, infatti, ricondurre tale ipotesi ad una mera violazione della procedura disciplinare. In merito è possibile constatare una vis espansiva della tutela reale in seno alla giurisprudenza (Cass., sez. un., 27 dicembre 2017, n. 30985; Cass., 18 maggio 2018, n. 12231): taluni vizi procedimentali, infatti, sono stati equiparati all'insussistenza del fatto.
Ne costitisce esempio la tardività della contestazione qualora il ritardo, notevole e ingiustificato, abbia generato l'affidamento nel lavoratore circa la possibilità di una tolleranza da parte del datore di lavoro o ne abbia comunque pregiudicato il diritto di difesa (Cass., 11 agosto 2015, n. 16683; Cass., 10 settembre 2013, n. 20719).
Ulteriore equiparazione è operata in relazione al caso del mutamento della contestazione, valendo rispetto alla stessa il principio di immutabilità: se il fatto contestato è diverso da quello costituente fondamento del recesso datoriale, dovrebbe essere riconosciuta la più forte tutela reale, non invece quella risarcitoria, vertendosi in una ipotesi di insussistenza del fatto materiale così come descritto nella contestazione (Cass., 16 novembre 2002, n. 16190; Cass., 3 novembre 1997, n. 10761).
Non sono mancate posizioni critiche sul punto. Si è sostenuto infatti che il comma sesto dell'art. 18, st. lav., nel fare un generico riferimento alla “violazione della procedura di cui all'art. 7” non consentirebbe di escludere anche l'ipotesi di una omissione della stessa, da intendersi piuttosto come una delle più rilevanti deviazioni operate dalla parte datoriale, essendo la contestazione dell'addebito un atto essenziale di detta procedura. Secondo tale posizione, non convincente sarebbe anche la tesi, corroborata dal richiamo a Corte cost. n. 427 del 1989 secondo la quale si porrebbe in contrasto con la Costituzione la previsione di sanzioni inferiori per le ipotesi in cui sia mancata la previa contestazione dell'illecito disciplinare rispetto a quelle stabilite per i licenziamenti vietati o ingiustificati (c.d. ingiustificatezza qualificata), e ciò in quanto risponderebbe a principi di “civiltà giuridica” dare al lavoratore la possibilità di difendersi dall'evenutale applicazione di una sanzione disciplinare. Incostituzionale sembrerebbe piuttosto il fare conseguire effetti diversi, e più gravi, dall'inosservanza delle garanzie procedurali piuttosto che da un licenziamento ingiustificato. La modifica intervenuta nel 2012 dell'art. 18, st. lav., avrebbe avuto come scopo proprio quello di sceverare, mediante una graduazione basata sulla diversa gravità dei motivi di illegittimità del licenziamento, le conseguenze sanzionatorie, cosicché la violazione delle disposizioni procedurali in ambito disciplinare avrebbe richiesto l'applicazione di una sanzione mitior rispetto a quella per l'ingiustificatezza. Risulterebbe quindi incostituzionale un'equiparazione tra il divalore del vizio procedimentale e quello per il difetto di concreta giustificazione del recesso datoriale.
Relativamente ai dubbi di incostituzionalità di una compressione del diritto di difesa per l'omissione della previa contestazione, con proposizione di un ricorso “al buio” in rapporto ai motivi fondanti il recesso datoriale, si sono levate voci contrarie, cui perno è individuabile nell'attenzione riposta alla vicenda processuale. Guardando al rito del lavoro disciplinato dalla l. n. 92 del 2012, ancora applicabile entro certi limiti ex art. 11, d.lgs. n. 23 del 2015, si constaterebbe infatti che la fase sommaria, non essendo gravata dalle preclusioni e dalle decadenze dell'ordinario rito del lavoro, consentirebbe al dipendente di avere cognizione, mediante la memoria di costituzione del datore, delle ragioni poste a giustificazione del licenziamento, non motivato né preceduto da una espressa contestazione, e così dedurre, nella prima udienza della suddetta fase, gli elementi fattuali utili a sostenere la propria posizione difensiva e provare la ingiusitificatezza qualificata del recesso datoriale. Non potendosi in ogni caso limitare, alla luce del principio del contradditorio, il potere di replica del lavoratore rispetto a fatti dei quali non aveva potuto avere conoscenza al momento dell'avvio del processo. Nell'evenutale successivo giudizio di opposizione risulterebbe già colmato il gap cognitivo del licenziato.
Tuttavia, sebbene tali posizioni si presentino maggiormente fedeli al testo normativo, non è possibile esimersi dall'evidenziare i rischi che, inevitabilmente, ne derivano. Encomiabile è certamente l'avere evitato che le formalità procedurali costituissero un escamotage per il lavoratore grazie al quale un licenziamento gisutificato da gravi mancanze dello stesso avrebbe potuto essere dichiarato illegittimo per vizi afferenti alla procedura. Ciò nonostante, ad avviso di chi scrive, maggioramente opportuna si sarebbe rivelata una graduazione della reazione sanzionatoria in rapporto alla gravità della violazione dell'art. 7, st. lav., o meglio sul concreto vulnus che la stessa risulta avere arrecato al lavoratore, evitando che il diritto di difesa di quest'ultimo divenga, de facto, disponibile. Punctum dolens del nostro ordinamento, pare che le mancanze del legislatore continuano a dovere essere colmate all'interno di un Tribunale. Per approfondire
A. Patrizi, A. Ebreo (a cura di), Il licenziamento disciplinare, Giuffrè, Milano, 2019; C. Pisani, Le conseguenze del licenziamento disciplinare illegittimo per violazioni procedimentali nel lavoro pubblico e privato, in Mass. giur. lav., 2016, 3, pp. 144 ss.; V. Spaziale, La riforma del licenziamento invididuale tra diritto ed economia, in Riv. it. dir. lav., 2012, I, pp. 521 ss. |