Il condhotel
22 Febbraio 2019
Il quadro normativo
Il termine condhotel è stato utilizzato per la prima volta nell'ambito del d.l. 31 maggio 2014, n. 83, recante «Disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo» (c.d. decreto art bonus). In particolare l'art. 10, rubricato «Disposizioni urgenti per riqualificare e migliorare le strutture ricettive turistico-alberghiere e favorire l'imprenditorialità nel settore turistico», al comma 5, ha disposto che «per promuovere l'adozione e la diffusione della progettazione universale e l'incremento dell'efficienza energetica, il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, con proprio decreto da emanare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, previa intesa in sede di Conferenza unificata, aggiornasse gli standard minimi, uniformi in tutto il territorio nazionale, dei servizi e delle dotazioni per la classificazione delle strutture ricettive e delle imprese turistiche, ivi compresi i condhotel e gli alberghi diffusi, tenendo conto delle specifiche esigenze connesse alle capacità ricettiva e di fruizione dei contesti territoriali e dei sistemi di classificazione alberghiera adottati a livello europeo e internazionale”. Fondamentale è stato, però, il d.l. 12 settembre 2014, n. 133 (convertito nella l. n. 106/2014, c.d. Legge “Sblocca Italia”) che ha affrontato nuovamente l'argomento, descrivendo all'art. 31 i condhotel quali esercizi alberghieri aperti al pubblico, a gestione unitaria, composti da una o più unità immobiliari ubicate nello stesso comune o da parti di esse, che forniscono alloggio, servizi accessori ed eventualmente vitto, in camere destinate alla ricettività e, in forma integrata e complementare, in unità abitative a destinazione residenziale, dotate di servizio autonomo di cucina, la cui superficie non può superare il quaranta per cento della superficie complessiva dei compendi immobiliari interessati. Il comma 2, dello stesso art. 31, ha previsto, inoltre, che con successivo decreto fossero stabiliti i criteri e le modalità per la rimozione del vincolo di destinazione alberghiera in caso di interventi edilizi sugli esercizi alberghieri esistenti e limitatamente alla realizzazione della quota delle unità abitative a destinazione residenziale di cui al medesimo comma. Il decreto “Sblocca Italia” ha delegato ad un successivo decreto anche la determinazione specifica delle condizioni di esercizio, da definirsi su proposta del Ministro per i beni e le attività culturali e del turismo di concerto con il Ministro dello sviluppo economico e previa intesa tra Governo, Regioni e Province autonome in sede di Conferenza Unificata. Di conseguenza è solo con il d.p.c.m. gennaio 2018. n.13, emanato in attuazione dell'art. 31 del decreto “Sblocca Italia”, che troviamo una minima disciplina della figura del condhotel. Tale regolamentazione - che ha l'obiettivo di migliorare e diversificare l'offerta turistica, favorendo al contempo gli investimenti volti alla riqualificazione degli esercizi alberghieri esistenti sul territorio nazionale - è già stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 54 del 6 marzo 2018 ed è in vigore dal 21 marzo 2018. Le Regioni sono chiamate ad adeguare i propri ordinamenti entro un anno dalla pubblicazione del d.p.c.m. sopracitato in Gazzetta Ufficiale, e cioè entro il 6 marzo 2019 (art. 13). L'art. 31, comma 3, del decreto “Sblocca Italia” ha imposto alle Regioni e Province autonome di adeguare i propri ordinamenti ai contenuti del decreto ministeriale che definisce i condhotel, entro un anno dalla pubblicazione del decreto stesso. A seguito dei ricorsi sollevati dalle Province di Trento e Bolzano, la Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale di tale norma che le ricorrenti hanno ritenuto fosse lesiva di svariate attribuzioni, con particolare riferimento alle proprie competenze - concorrenti e residuali - in materia di urbanistica e piani regolatori, turismo e industria alberghiera, commercio, esercizi pubblici. In subordine le ricorrenti in via principale avevano denunciato l'illegittimità dell'impugnato art. 31 per violazione del principio di leale collaborazione, dato che il richiamo all'art. 9 del d.lgs. n. 281/1997 consentirebbe di prescindere dall'intesa nel caso di motivata urgenza, ovvero quando la stessa non sia stata raggiunta. La Corte Costituzionale ha però ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 31, comma 3, notando, in via preliminare, come tale disposizione si riferisca ad una tipologia innovativa di esercizi alberghieri, a gestione unitaria, che forniscono servizi sia nelle tradizionali camere destinate alla ricettività, sia in unità abitative a destinazione residenziale. Alla luce di quanto sopra la Corte evidenzia come indubbiamente la disciplina dei condhotel attenga alla materia del turismo e industria alberghiera, di competenza delle Regioni e delle Province autonome; ciò emerge anche dalla enunciazione delle finalità dell'intervento legislativo in esame, il quale mira a diversificare l'offerta turistica e a «favorire gli investimenti volti alla riqualificazione degli esercizi alberghieri esistenti». Come nota la Corte, però, l'art. 31 del decreto “Sblocca Italia”, qualifica il condhotel come una struttura di ricezione turistica in cui coesistono unità immobiliari con destinazione urbanistica differente, alberghiera e residenziale, stabilendo che tale coesistenza possa realizzarsi anche mediante trasformazione delle strutture ricettive esistenti, previa rimozione, ove occorra, degli eventuali vincoli di destinazione alberghiera. Di conseguenza incidendo sulla destinazione urbanistica degli immobili la disciplina dei condhotel riguarda, quindi, anche la materia dell'urbanistica e del governo del territorio. D'altra parte, si è notato come la disciplina dei condhotel coinvolga anche rapporti di natura privatistica. L'art. 31, comma 1, precisa che le unità abitative a destinazione residenziale possono essere oggetto di diritti, evidentemente anche reali, di soggetti diversi dall'impresa alberghiera; sicché, le condizioni di esercizio, riguardano sia i rapporti con il pubblico dei turisti, sia quelli con i proprietari delle unità residenziali, nelle quali pure l'impresa offre i propri servizi, in forma integrata e complementare a quanto avviene nelle camere tradizionali. Pertanto, nella peculiare disciplina in questione, per come essa è formulata, vengono in rilievo competenze eterogenee, alcune delle quali di stretta spettanza esclusiva statale, altre a vario titolo attribuite alle Regioni e alle Province autonome. Come osservano i giudici costituzionali tali molteplici competenze non si presentano separate nettamente tra di loro e sono, anzi, legate in un inestricabile intreccio, senza che sia possibile identificarne una prevalente sulle altre dal punto di vista qualitativo o quantitativo. Di conseguenza, deve trovare applicazione il principio generale, costantemente ribadito dalla giurisprudenza del giudice delle leggi (da ultimo, sentenza n. 1402015), secondo il quale in ambiti caratterizzati da una pluralità di competenze - come nel caso in esame, in cui le norme impugnate si pongono all'incrocio di varie materie (turismo, urbanistica, ordinamento civile) - e, qualora risulti impossibile comporre il concorso di competenze statali e regionali, tramite un criterio di prevalenza, non è costituzionalmente illegittimo l'intervento del legislatore statale, purché agisca nel rispetto del principio di leale collaborazione che deve in ogni caso permeare di sé i rapporti tra lo Stato e il sistema delle autonomie e che può ritenersi congruamente attuato mediante la previsione dell'intesa. Del resto, l'intesa in sede di Conferenza unificata in diverse decisioni è già stata considerata strumento idoneo a realizzare la leale collaborazione tra lo Stato e le autonomie (v., ex plurimis, sent. n. 88/2014, n. 297/2012 e n. 163/2012), qualora non siano coinvolti interessi esclusivamente e individualmente imputabili al singolo ente autonomo. Tale situazione ricorre certamente nel caso della disciplina dei condhotel, tenuto conto che gli interessi implicati non riguardano una singola Regione o Provincia autonoma, ma tematiche comuni a tutto il sistema delle autonomie, inclusi gli enti locali. Per i giudici costituzionali appare adeguata la scelta legislativa di coinvolgere Regioni, Province autonome ed autonomie locali nel loro insieme, attraverso la Conferenza unificata: istituto, questo, utile non solo alla semplificazione procedimentale, ma anche a facilitare l'integrazione dei diversi punti di vista e delle diverse esigenze degli enti regionali, provinciali e locali coinvolti. In ogni caso, in merito alla possibilità che dall'intesa il Governo possa prescindere, nei casi di mancato accordo entro un determinato periodo di tempo o in caso di urgenza, gli stessi giudici notano che gli strumenti di cooperazione tra diversi enti debbono prevedere meccanismi per il superamento delle divergenze, basati sulla reiterazione delle trattative o su specifici strumenti di mediazione. Le caratteristiche del condhotel
Il d.p.c.m. 22 gennaio 2018 n.13, art 3, comma 1, lettera a) definisce il condhotel un esercizio alberghiero aperto al pubblico, a gestione unitaria, composto da una o più unità immobiliari ubicate nello stesso comune o da parti di esse, che forniscono alloggio, servizi accessori ed eventualmente vitto, in camere destinate alla ricettività e, in forma integrata e complementare, in unità abitative a destinazione residenziale, dotate di servizio autonomo di cucina. Dalla definizione emerge in primo luogo che la gestione della struttura è unitaria nel senso che anche ai titolari delle unità abitative di tipo residenziale sono forniti i servizi alberghieri e aggiuntivi normalmente assicurati dal gestore unico della struttura ricettiva alle camere destinate alla ricettività (art. 3, comma 1, lettera c e d). La definizione rende evidente come la riqualificazione sia necessaria per poter configurare una struttura come condhotel. Del resto una delle finalità dell'introduzione della disciplina dei condhotel nell'ordinamento giuridico nazionale è proprio rappresentato dagli interventi di restauro e di risanamento conservativo, di cui all'art. 3, comma 1, lettera c) del d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380, nonché dagli interventi di ristrutturazione edilizia, di cui all'art. 3, comma 1, lettera d) del d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380, la cui realizzazione comporta per l'esercizio alberghiero l'acquisizione di requisiti per una classificazione superiore a quella precedentemente attribuita di almeno una stella, da cui risulti una classificazione minima di tre stelle all'esito dell'intervento di riqualificazione, ad eccezione degli esercizi contrassegnati da una classificazione di quattro stelle o superiore già prima dell'intervento di cui alla presente lettera, anche nel rispetto delle eventuali prescrizioni disposte da leggi regionali (art 3, comma 1, lett. e, del d.p.c.m. 22 gennaio 2018, n.13). In ogni caso, a seguito della ristrutturazione, nella struttura alberghiera vi dovranno essere unità abitative a destinazione residenziale, cioè locali per le quali sia intervenuto specifico mutamento di destinazione d'uso, dotate di servizio autonomo di cucina, inserite nel contesto del condhotel, destinate alla vendita e la cui superficie complessiva non può superare i limiti di cui all'articolo 4, comma 1, lett. b), cioè il quaranta per cento del totale della superficie netta destinata alle camere (art. 3, comma 1, lett. f). Così, in perfetta coerenza con lo scopo della normativa di rilanciare il settore turistico, si è voluto evitare che gli appartamenti rappresentino una componente della struttura di grande rilievo, stabilendo che la percentuale del 40% debba essere calcolata sul totale della superficie netta destinata alle camere: di conseguenza non è stato confermato quanto stabilito dall'art. 31, comma 1 del decreto “Sblocca Italia” secondo cui la superficie degli appartamenti non avrebbe dovuto superare il 40% del totale della superficie dell'intera struttura ricettiva. Del resto i regolamenti non possono però essere meramente ripetitivi di disposizioni già contenute nelle norme primarie, in quanto tale ripetizione, oltre ad essere superflua, è contraria ai principi in tema di rapporti tra fonte primaria e fonte regolamentare. A conferma di quanto sopra è necessario segnalare un'altra - pur meno evidente - differenza tra le previsioni del decreto-legge n. 133/2014 e le previsioni del decreto attuativo: il primo prevedeva che gli appartamenti destinati ad essere compresi nel condhotel potessero essere ubicati in edifici posti nel medesimo Comune e non indicava alcun requisito di distanza o comunque alcun ulteriore elemento limitativo, mentre il decreto attuativo - come vedremo - aggiunge a questa previsione la regola secondo cui tali edifici devono essere posti a distanza non superiore a duecento metri dal locale di ricevimento degli ospiti. Si tratta di un'ulteriore previsione che a sua volta contribuisce a ridurre la portata in termini concreti della nuova figura. L'art. 2 del d.p.c.m. 22 gennaio 2018, n. 13 precisa le norme del nuovo decreto si applicano agli esercizi alberghieri esistenti che rispettano le condizioni di esercizio richieste dallo stesso decreto. Del resto lo scopo del legislatore è sempre di più quello di diversificare l'offerta turistica, favorendo gli investimenti anche mediante la previsione di nuovi strumenti tecnico giuridici, con l'obiettivo di incentivare il turismo, migliorandone e diversificandone l'offerta, nonché agevolando la partecipazione dei privati alla proprietà delle strutture esistenti. Viene quindi definitivamente confermata la scelta di un'impostazione non ampliativa del regolamento, in linea con il dettato letterale della norma di delega. Tale limitazione agli esercizi “esistenti” sembra invero conforme ad una lettura rigorosamente letterale della portata operativa della norma primaria, anche se è evidentemente finalizzata a favorire investimenti volti alla riqualificazione di esercizi alberghieri esistenti. In altre parole le norme riguardano solo gli alberghi esistenti già autorizzati all'esercizio dell'attività alberghiera: questo vuol dire che la struttura ricettiva non può nascere come condhotel ma l'immobile può diventare condhotel se ha la destinazione alberghiera e rispetta le condizioni di esercizio previste dalla normativa (art 4 d.p.c.m. 22 gennaio 2018 n.13). Secondo una parte della dottrina (M. Corona), il dato primario della legge non appare invero strettamente limitativo; in particolare si nota che al comma 1 dell'art. 31 del d.l. n. 133/2014 si fa riferimento agli «investimenti volti alla riqualificazione degli esercizi alberghieri esistenti» ma, nello stesso comma, si prevede anche la connessa e complementare finalità di «diversificare l'offerta turistica». Di conseguenza, per ragioni di simmetria tecnica ed in assenza di un dato legislativo che la impedisca, non si può escludere che l'edificio possa sorgere dall'origine con le caratteristiche del condhotel. Le condizioni di esercizio
I condhotel possono nascere solo qualora sussistano determinate condizioni che attengono sia ad aspetti tecnici sia funzionali delle strutture ricettive. In primo luogo l'albergo deve essere soggetto ad interventi di riqualificazione, all'esito dei quali possa ottenere i requisiti per una classificazione superiore a quella precedente e comunque non inferiore a tre stelle. Sotto questo profilo, quindi, le società immobiliari possono acquistare e ristrutturare strutture ad oggi inutilizzate (i Comuni infatti non concedono trasformazioni di vecchi alberghi in complessi esclusivamente residenziali), potendo altresì godere di bonus in termini di cubatura. A seguito dei lavori di ripristino, l'edificio deve essere dotato di almeno sette camere al netto delle unità abitative ad uso residenziale (che devono risultare agibili ai sensi dell'art. 24 del d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380), rispettando la percentuale massima del 40% del totale della superficie destinata alle stanze. Come detto infatti lo scopo della normativa è quello di rilanciare il settore turistico e, quindi, la struttura, anche dopo la necessaria ristrutturazione finanziata con le vendite ai privati, deve mantenere la sua originaria vocazione di tipo alberghiero. Si comprende allora perché l'esercizio di un condhotel sia condizionato anche dalla necessaria presenza di una portineria che dovrà essere unica e disponibile tanto per clienti quanto per proprietari. La portineria unica non va però confusa con la portineria eventualmente presente nel condominio in cui è ubicata l'unità abitativa. Quest'ultima svolgerebbe servizio solo per la collettività condominiale con esclusione dei servizi di accoglienza del condhotel. In ogni caso è necessaria una gestione unitaria e integrata dei servizi per una durata specificata a priori nel contratto ma, comunque, non inferiore ai dieci anni dall'avvio dell'attività in questione, fatti salvi i casi di cessazione per cause di forza maggiore indipendenti dalla volontà dell'esercente (art. 5, comma 2). Naturalmente, poi, sempre in coerenza con le finalità perseguite, devono essere rispettate quelle esigenze di sicurezza proprie delle strutture alberghiere, con la conseguenza che anche nei condhotel si rende necessario effettuare verifiche sugli arrivi e le presenze degli ospiti, con esclusioni dei proprietari delle unità private e loro familiari. In particolare il gestore unico del condhotel deve provvedere anche all'identificazione degli ospiti delle unità abitative a destinazione residenziale e a comunicare alla questura competente le generalità delle persone ivi alloggiate, nonché ad adempiere agli obblighi relativi alle comunicazioni a fini statistici delle presenze turistiche. I contratti di trasferimento delle unità abitative ad uso residenziale devono includere una descrizione accurata dei beni, dell'ubicazione e della struttura oggetto di compravendita; le condizioni di godimento e le modalità concernenti l'uso di eventuali strutture comuni; una descrizione accurata e appropriata di tutti i costi connessi alla proprietà dell'unità residenziale, delle modalità attraverso cui tali costi sono ripartiti, con indicazione delle spese obbligatorie, quali quelle relative ad imposte e tasse, spese amministrative e gestionali generali, nonché di quelle relative alla gestione, manutenzione e riparazione delle parti comuni del condhotel. Inoltre non può mancare un'apposita clausola nella quale venga precisato che l'unità abitativa ad uso residenziale, ove non utilizzata dal proprietario, con il suo consenso, possa essere adibita da parte del gestore unico ad impiego alberghiero. Di conseguenza, l'acquisto dell'unità immobiliare si potrà accompagnare, in genere, anche ad un mandato di gestione con cui l'albergatore (sia o meno proprietario della maggior struttura) abbia il diritto di affittare o locare l'unità immobiliare residenziale oggetto della vendita nei periodi di inutilizzo da parte del nuovo proprietario, dividendone con questi i relativi ricavi o pattuendo delle provvigioni (art. 6 d.p.c.m. 22 gennaio 2018, n. 13). Sotto quest'ultimo profilo merita di essere sottolineato che, proprio per assicurare il profondo rispetto del dato normativo, se il proprietario della struttura non coincide con il gestore unico è necessario un intervento nell'atto di compravendita di entrambi o quanto meno si dovrà menzionare nell'atto notarile la preesistenza di un contratto di gestione, munito degli estremi di registrazione e contenente tutte le prescrizioni di cui al decreto n. 13/2018, consegnandone copia, ai sensi dell'art. 1477, comma 2, c.c. alla parte acquirente. La mancanza di tali prescrizioni incide sul diritto di informazione dell'acquirente e, conseguentemente, in assenza di una formale disposizione di legge in tal senso, non sembra comportare la nullità del contratto; tuttavia si può affermare che la difettosa menzione, anche di una sola delle prescrizioni obbligatorie sopra dette può certamente comportare una responsabilità contrattuale. Tale conclusione vale anche se il testo contrattuale non disciplina le modalità di utilizzo delle singole unità abitative, qualora venga meno per qualunque causa l'attività del gestore unico. A tale proposito merita di essere sottolineato che il proprietario della struttura alberghiera si deve impegnare espressamente con la parte acquirente, attraverso apposita e specifica pattuizione contrattuale (che potrà o meno essere assistita da un corredo di diposizioni sanzionatorie), a subentrare negli obblighi posti a carico del gestore. In subordine, nel caso di impossibilità sopravvenuta, anche per il proprietario della struttura alberghiera, dell'adempimento degli obblighi in questione, quest'ultimo deve impegnarsi, in occasione della compravendita, con la medesima parte acquirente ad indennizzarla, definendo modalità, garanzie, sanzioni ed importi. L'acquirente invece dovrà contrattualmente impegnarsi a rispettare le modalità di conduzione del condhotel (ad esempio gli orari previsti dall'albergatore per le diverse attività), nonché a garantire l'omogeneità estetica dell'immobile in caso di interventi edilizi sull'unità acquisita e tutti gli altri impegni previste nelle altre pattuizioni contrattuali. Del resto il gestore unico (che sia anche proprietario della struttura) dovrà impegnarsi a garantire ai proprietari delle unità abitative ad uso residenziale, oltre alla prestazione di tutti i servizi previsti dalla normativa vigente, anche eventuali ulteriori prestazioni espressamente pattuite tra le parti.
La nascita di un condominio
I condhotel configurano una nuova concezione che affianca a un diritto proprietario esclusivo il vantaggio di usufruire dei servizi tipici dei soggiorni alberghieri. Si tratta di uno schema negoziale che si realizza attraverso lo stretto collegamento tra il frazionamento immobiliare e l'attività aziendale unitaria di gestione dei servizi alberghieri offerti obbligatoriamente ai proprietari delle singole unità immobiliari, secondo un modello sostitutivo della tradizionale relazione di accessorietà tipica del condominio. Dunque, la natura ibrida e complessa della nuova figura giuridica - la quale si riflette nella sua stessa denominazione - richiede che siano regolamentati anche importanti aspetti condominiali (totalmente ignorati dal legislatore). Del resto per dimostrare la compatibilità del regime di condominio con la destinazione alberghiera basta considerare che in uno stesso edificio, possono ben esistere più unità immobiliari soggette a proprietà esclusiva e a destinazioni diverse e che in questi casi insorge il regime del condominio (per esempio, i primi piani sono destinati ad albergo, i piani alti destinati ad abitazione. Il condominio infatti si costituisce in seguito alla semplice coesistenza nello stesso edificio di più proprietà solitarie e, ad un tempo, di più cose, servizi ed impianti destinati all'uso comune, essendo a questo fine irrilevante la destinazione d'uso dell'edificio dettata dalle norme urbanistiche (v., in tal senso, Cass. civ., sez. II, 25 gennaio 2007, n. 1625). Quando l'unico proprietario della struttura vende la prima stanza-appartamento e una quota delle parti comuni nasce un condominio - condhotel e dovrà trovare applicazione la relativa disciplina, con la conseguenza che si dovrà convocare un'assemblea, nominare un amministratore (se i condomini sono superiori ad otto), redigere un regolamento e relative tabelle (se i condomini sono superiori a dieci). Mentre l'eventuale fruizione dei servizi alberghieri dovrà essere ricondotta alla stipulazione di forme negoziali specifiche accompagnate dalle tutele previste dal c.d. codice del consumo, il godimento delle parti ed aree comuni (campi da tennis, piscine, palestre, aree verdi, ecc.) sarà soggetta alla disciplina prevista nell'articolo 1102 c.c., applicabile anche agli edifici condominiali. L'individuazione delle parti comuni però non sempre risulterà agevole. In dottrina (Sforza Fogliani - Scalettaris) si è rilevato come, ad esempio, la hall d'ingresso, la cucina, gli uffici, siano certamente parti comuni nell'ottica dell'albergo, mentre è dubbio che possano essere considerati parti comuni nell'ottica del condominio. Tale problema si può risolvere solo inserendo negli atti di acquisto precise indicazioni che consentano senza incertezze di individuare i beni condominiali, distinguendoli dalle strutture funzionali alla conduzione dell'attività alberghiera. La questione è strettamente connessa a quelle delle spese condominiali, aspetto totalmente ignorato dal legislatore che si è limitato a disciplinare solo gli oneri gestionali della struttura alberghiera. I due profili però dovranno essere tenuti ben distinti, considerando che solo per le spese comuni ai partecipanti al condominio potranno operare le disposizioni della disciplina condominiale in tema di contabilità e di rendiconto da parte dell'amministratore del caseggiato.
La nascita del supercondominio
Il condhotel può nascere sia dalla trasformazione in appartamenti di una porzione di un albergo esistente, sia dall'aggregazione ad un hotel di un certo numero di appartamenti ubicati nelle immediate vicinanze, ovvero 200 metri lineari. Quando ricorre quest'ultima ipotesi, cioè quando le unità immobiliari sono collocate in edifici vicini (villette) alla struttura alberghiera, è possibile che si costituisca anche un supercondominio o condominio orizzontale. Il “condominio verticale” rappresenta la forma “classica” di condominio, composto da edifici a sviluppo verticale ad unità sovrapposte. Il condominio orizzontale individua invece più edifici - ad esempio, villette unifamiliari - aventi in comune una serie di opere e/o aree che, pur staccate dalle singole costruzioni, sono destinate al servizio degli stessi. Se la struttura alberghiera e le unità residenziali separate presentano parti comuni (ad esempio, un cortile, un viale, un impianto) nasce indubbiamente un supercondominio. Del resto, secondo un principio giurisprudenziale consolidato, ai fini della costituzione di un supercondominio, non è necessaria né la manifestazione di volontà dell'originario costruttore né quella di tutti i proprietari delle unità immobiliari di ciascun condominio, essendo sufficiente che i singoli edifici, abbiano, materialmente, in comune alcuni impianti o servizi, ricompresi nell'ambito di applicazione dell'art.1117 c.c., (quali, ad esempio, il viale d'ingresso, l'impianto centrale per il riscaldamento, i locali per la portineria, l'alloggio del portiere), in quanto collegati da un vincolo di accessorietà necessaria a ciascuno degli stabili, spettando, di conseguenza, a ciascuno dei condomini dei singoli fabbricati la titolarità pro quota su tali parti comuni e l'obbligo di corrispondere gli oneri condominiali relativi alla loro manutenzione (v., ex multis, Cass. civ., sez. II, 15 novembre 2017, n. 27094; Cass. civ., sez. II, 11 ottobre 2012, n. 19939; Cass. civ., sez. II, 17 agosto 2012, n. 17332; Cass. civ., sez. II, 9 giugno 2010, n. 13883). In altri termini, al pari del condominio negli edifici, regolato dagli artt. 1117 ss. c.c., anche il c.d. supercondominio, viene in essere ipso iure et facto, se il titolo non dispone altrimenti, senza bisogno di apposite manifestazioni di volontà o altre esternazioni e tanto meno di approvazioni assembleari, solo che singoli edifici, costituiti in altrettanti condomini abbiano in comune talune cose, impianti e servizi legati, attraverso la relazione di accessorio e principale, con gli edifici medesimi e per ciò appartenenti, pro quota, ai proprietari delle singole unità immobiliari comprese nei diversi fabbricati. Nell'ambito delle parti comuni sembrano ricomprese anche strutture e cose autonome, quali zone verdi, parchi, impianti sportivi (i campi da tennis, da calcio, pallavolo, da bocce, ecc.); locali adibiti ai servizi vari (i centri commerciali o riunione); attrezzature per le spiagge. Infatti, si tratta di beni che, oltre ad aumentare il valore del complesso immobiliare e, conseguentemente delle unità immobiliari, possono risultare la ragione fondamentale che ha spinto il singolo condomino ad acquistare una proprietà nel supercondominio: si pensi al condomino tennista che acquista una residenza estiva proprio perché in quel complesso è stato realizzato un campo da tennis. In conclusione
Come precisa il d.p.c.m. 22 gennaio 2018, il vincolo di destinazione alberghiera non può essere rimosso oltre il limite della percentuale massima di superficie netta destinabile ad unità abitative (il provvedimento di rimozione del vincolo per la parte eccedente il predetto limite è inefficace). In ogni caso se per la rimozione del vincolo di destinazione alberghiera e la conseguente destinazione di una parte delle camere ad uso residenziale, è necessaria una variante urbanistica, le Regioni possono prevedere, con norme regionali di attuazione, modalità semplificate per l'approvazione di varianti agli strumenti urbanistici da parte dei Comuni. Qualora la variante urbanistica non sia invece necessaria, i Comuni possono concedere lo svincolo parziale degli edifici destinati ad esercizio alberghiero con il cambio di destinazione d'uso a civile abitazione, solo previo pagamento dei relativi oneri di urbanizzazione: in tal caso sarà possibile anche il frazionamento e l'alienazione anche per singola unità abitativa, purché venga mantenuta la gestione unitaria e siano rispettate le zone territoriali e la normativa regionale di settore (e purché siano rispettati gli standard previsti dal decreto ministeriale n. 1444/1968 e dalle leggi regionali in materia con rifermento alla destinazione ricettiva e alla destinazione residenziale).
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