Alle Sezioni Unite la questione della durata delle pene accessorie della bancarotta fraudolenta

26 Febbraio 2019

A seguito della sentenza della Corte costituzionale n.222/2018 che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 216, ultimo comma, l. fall., nella parte in cui prevedeva la durata fissa delle pene accessorie nella misura di anni dieci, si è aperto all'interno della Corte di Cassazione un contrasto sulla disciplina da applicare, ossia se fare richiamo alla regola generale prevista dall'art. 37 c.p. oppure se dare seguito alle indicazioni della Consulta che, in motivazione, ha optato per un sistema di sanzioni accessorie con durata variabile a seconda della gravità delle condotte illecite.
Premessa

A seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 222/2018 che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 216, ultimo comma, l.fall., nella parte in cui prevedeva la durata fissa delle pene accessorie nella misura di anni dieci, si è aperto all'interno della Corte di Cassazione un contrasto sulla disciplina da applicare, ossia se fare richiamo alla regola generale prevista dall'art. 37 c.p. oppure se dare seguito alle indicazioni della Consulta che, in motivazione, ha optato per un sistema di sanzioni accessorie con durata variabile a seconda della gravità delle condotte illecite.

(fonte: IlPenalista)

La sentenza della Corte Costituzionale

Prima di dar conto dell'ordinanza di rimessione della questione alle Sezioni Unite appare opportuno ricostruire i vari passaggi che hanno condotto ad investire il massimo Collegio del tema della durata delle pene accessorie previste per la bancarotta fraudolenta.

Come è noto (si veda IlFallimentarista del 30 gennaio 2019) la questione della legittimità costituzionale, in riferimento soprattutto agli artt. 3 e 27 della Costituzione, della durata fissa delle pene accessorie previste dagli artt. 216 e 223 legge fallimentare per i reati di bancarotta fraudolenta, ha trovato per ultimo soluzione con la sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 25 settembre 2018, che, ribaltando la sua precedente decisione di inammissibilità della questione assunta dalla sentenza n. 134 del 2012, ha dichiarato invece, un po' a sorpresa, l'illegittima costituzionale dell' art. 216, ult. comma legge fallimentare (richiamato dall'art. 223, ult. comma, legge fall., per le ipotesi di bancarotta c.d. societaria), nella parte in cui disponeva: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa», anziché: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni».

La Consulta ha motivato tale decisione ricordando che la discrezionalità propria del legislatore nel determinare le sanzioni, sia penali sia amministrative, …..incontra il proprio limite nella manifesta irragionevolezza delle scelte legislative, limite che – in subiecta materia – è superato allorché le pene comminate appaiano manifestamente sproporzionate rispetto alla gravità del fatto previsto quale reato. In tal caso, si profila infatti una violazione congiunta degli artt. 3 e 27 Cost., giacché una pena non proporzionata alla gravità del fatto (e non percepita come tale dal condannato) si risolve in un ostacolo alla sua funzione rieducativa. Fatta questa premessa la Corte costituzionale ha quindi affermato che la durata fissa di dieci anni delle pene accessorie in questione non può ritenersi “ragionevolmente proporzionata rispetto all'intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato”. Sul punto ha osservato che, anzitutto, l'art. 216 della legge fallimentare raggruppa una pluralità di fattispecie che, già a livello astratto, sono connotate da ben diverso disvalore, come dimostrano i relativi quadri sanzionatori previsti dal legislatore: reclusione da tre a dieci anni per i fatti previsti dal primo e secondo comma; reclusione da uno a cinque anni per gli assai meno gravi fatti (quelli di bancarotta cosiddetta preferenziale) previsti dal terzo comma.

È stato altresì osservato che anche all'interno delle singole figure di reato previste in astratto da ciascun comma, nonché di quelle previste dall'art. 223, secondo comma, della legge fallimentare, la gravità dei fatti concreti ad esse riconducibili può essere marcatamente differente, in relazione se non altro alla gravità del pericolo di frustrazione delle ragioni creditorie (in termini sia di probabilità di verificazione del danno, sia di entità del danno medesimo, anche in termini di numero delle persone offese) creato con la condotta costitutiva del reato. La durata delle pene accessorie temporanee comminate dall'art. 216, ultimo comma, legge fall. restava invece indefettibilmente determinata in dieci anni, quale che fosse la qualificazione astratta del reato ascritto all'imputato (ai sensi del primo, del secondo o del terzo comma dello stesso art. 216), e quale che fosse la gravità concreta delle condotte costitutive di tale reato; e restava, altresì, insensibile all'eventuale sussistenza delle circostanze aggravanti o attenuanti previste dall'art. 219 della medesima legge, le quali pure determinano variazioni significative della pena edittale, potendo determinare un abbassamento del minimo sino a due anni (ulteriormente riducibili in caso di scelta di riti alternativi da parte dell'imputato), ovvero un innalzamento del massimo sino a quindici anni di reclusione.

La sentenza ha concluso perciò il suo argomentare affermando : “ Una simile rigidità applicativa non può che generare la possibilità di risposte sanzionatorie manifestamente sproporzionate per eccesso – e dunque in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost. – rispetto ai fatti di bancarotta fraudolenta meno gravi; e appare comunque distonica rispetto al menzionato principio dell'individualizzazione del trattamento sanzionatorio”; in sostanza non ha ritenuto conforme ai principi di individualizzazione del trattamento sanzionatorio sanciti nella Carta costituzionale il rigido automatismo previsto dall'originario ultimo comma dell'art. 216 legge fall..

La Consulta infine, per risolvere il problema dell'eventuale vuoto normativo e spiegare il mutamento di posizione rispetto alla sentenza n.134 del 2012, ha affermato che è “ essenziale, e sufficiente, a consentire il sindacato della Corte costituzionale sulla congruità del trattamento sanzionatorio previsto per una determinata ipotesi di reato è che il sistema nel suo complesso offra alla Corte «precisi punti di riferimento» e soluzioni «già esistenti» (sentenza n. 236 del 2016) – esse stesse immuni da vizi di illegittimità, ancorché non “costituzionalmente obbligate” – che possano sostituirsi alla previsione sanzionatoria dichiarata illegittima”. Nell'ordinamento penale certamente vi sono altre discipline vigenti per la determinazione della durata delle pene accessorie temporanee, tra cui in primo luogo la regola generale dettata dall'art. 37 cod. pen. che distingue a seconda se la durata delle pene accessorie sia espressamente determinata dalla legge, disponendo che in caso negativo essa segua quella della pena principale. Tuttavia quanto all'applicabilità dell'art. 37 cod. pen. alle pene accessorie previste per i reati di cui agli artt. 216 e 223, legge fall., la Consulta ha sostenuto che : “Fermo restando che «la valutazione del modo in cui il sistema normativo reagisce ad una sentenza costituzionale di accoglimento […] spetta al giudice del processo principale, unico competente a definire il giudizio da cui prende le mosse l'incidente di costituzionalità» (sentenza n.28 del 2010), a parere di questa Corte la regola residuale di cui all'art. 37 cod. pen. continuerà dunque a non operare rispetto all'art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare – come risultante dalla presente pronuncia –, dal momento che tale regola ha come suo presupposto operativo che la durata della pena accessoria temporanea non sia espressamente determinata dalla legge. L'esistenza di una lex specialis, in effetti, esclude l'operatività del criterio residuale di cui all'art. 37 cod. pen.”, indicando quindi in motivazione la netta preferenza per un sistema di determinazione delle pene accessorie autonomo rispetto alla pena principale, purché ovviamente entro il limite massimo di dieci anni. Le ragioni poste a base della decisione, sia pur espresse sinteticamente, sono sostanzialmente due : le pene accessorie derivanti dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale sono da considerare come espressamente determinate dalla legge; la disciplina dei reati fallimentari è da ritenere lex specialis, quindi in grado di derogare alla regola generale prevista dall'art. 37 cod. pen..

Il contrasto all'interno della Corte di Cassazione

La Corte Costituzionale ha però (volutamente?) ignorato la giurisprudenza della Corte di Cassazione che in tema di materia di pene accessorie ha da tempo composto il contrasto interpretativo, in particolare con la sentenza Sez. Un., n. 6240/2015 del 27/11/2014 (dep.12/02/2015), imp. B., che ha affermato in massima il seguente principio : “Sono riconducibili al novero delle pene accessorie la cui durata non è espressamente determinata dalla legge penale quelle per le quali sia previsto un minimo e un massimo edittale ovvero uno soltanto dei suddetti limiti, con la conseguenza che la loro durata deve essere dal giudice uniformata, ai sensi dell'art. 37 cod. pen., a quella della pena principale inflitta”. In base a quest'ultimo principio alle pene accessorie dell'art. 216, ult. comma, legge fall., dovrebbe trovare perciò applicazione l'art. 37 cod. pen., poichè le stesse non possono essere ricomprese tra le pene accessorie espressamente determinate dalla legge, essendo fissato solo il limite massimo di dieci anni.

Si è quindi palesato un evidente contrasto tra la sentenza della Corte Costituzionale (rectius la sua motivazione, che non è però vincolante per i giudici) e la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione, antecedente però alla decisione della Consulta : secondo la prima non dovrebbe trovare applicazione la disciplina dell'art.37 cod. pen., mentre per i giudici di legittimità in un caso del genere la norma codicistica troverebbe invece applicazione.

A seguito della sentenza Corte Cost. n. 222/2018 anche all'interno della Cassazione le posizioni si sono però subito differenziate, giacchè non era possibile ignorare l'invito fatto dal giudice delle leggi a non applicare alle pene accessorie della bancarotta fraudolenta alcun automatismo, neppure quello previsto dall'art. 37 cod. pen..

Ed allora un primo orientamento, espresso dalla sentenza Sez. V, n. 1968/2019 del 7/12/2018 (dep.16/01/2019), Montoleone (conf. Sez. 5, n. 1963/2019 del 07/12/2018, Piermartini) ha affermato che : “In tema di bancarotta fraudolenta, le pene accessorie previste dall'art. 216, ult. comm., legge fall., nella formulazione derivata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2018, devono essere commisurate alla durata della pena principale, in quanto, essendo determinate solo nel massimo, sono soggette alla disciplina di cui all'art. 37 cod. pen. (In applicazione del principio la Corte, riconoscendo d'ufficio l'illegalità delle pene accessorie irrogate prima della declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 216, ult. comm., legge fall., ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla durata delle pene accessorie, che è stata quindi rideterminata in quella corrispondente alla pena principale inflitta all'imputato).

La suddetta decisione ha puntualizzato che il punto di vista della Corte costituzionale, pur considerando la massima autorevolezza dell'organo, non è vincolante, e che invece debba rilevarsi come - anche alla luce della citata pronuncia delle Sezioni unite n.6240/2015 e della giurisprudenza di legittimità ad essa successiva - le pene accessorie comminate per i reati fallimentari e determinate solo nel massimo (secondo la formula «fino a ...») sono ricondotte dal diritto vivente alla disciplina prevista dall'art. 37 cod. pen., sicché non è dato rinvenire un riscontro alla considerazione di tali comminatorie edittali in termini di lex specialis rispetto alla disciplina generale. La nuova formulazione dell'ultimo comma dell'art. 216, come derivata dalla parziale declaratoria di illegittimità costituzionale statuita dalla sentenza n. 222 del 2018, è del tutto analoga alla comminatoria della pena accessoria della bancarotta semplice (art. 217, legge fall.) e del ricorso abusivo al credito (art. 218, legge fall.), reati per i quali una consolidata interpretazione della Cassazione ha ritenuto che le pene accessorie devono essere commisurate alla durata della pena principale a norma dell'art. 37 cod.pen..

Un secondo indirizzo rinvenibile nella sentenza Sez. 5, n. 5882 del 29 gennaio 2019 (dep. 06/02/2019), Baù + altro (conf. Sez. 5, n. 6115/2019 del 14/12/2018; Sez.5, n. 4780/2019 del 20/12/2018), ha invece sostenuto, in linea con le argomentazione della Corte costituzionale, che : “ In tema di bancarotta fraudolenta, la durata delle pene accessorie previste dall'art. 216, ult. comma, legge fall., nella formulazione derivata dalla sentenza della Corte costituzionale n.222 del 2018, non necessariamente deve essere parametrata alla stessa durata della pena principale ai sensi dell'art. 37 cod. pen., in quanto i principi di proporzionalità e di individualizzazione del trattamento sanzionatorio, posti alla base della decisione di illegittimità costituzionale, non consentono di applicare alcun tipo di automatismo sanzionatorio. (In applicazione del principio la Corte, riconoscendo d'ufficio l'illegalità delle pene accessorie irrogate prima della declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 216, ult. comma, legge fall., ha annullato con rinvio la sentenza impugnata limitatamente al punto delle pene accessorie, al fine di consentire al giudice di merito di stabile la durata delle stesse, trattandosi di giudizio, che implicando valutazioni discrezionali, è sottratto al giudice di legittimità). E' stato osservato che se gli automatismi contrastano con i principi costituzionali di proporzionalità della pena e di individualizzazione del trattamento sanzionatorio, diventa "sospetta" sotto il profilo della compatibilità con la Costituzione anche la regola dettata dall'art. 37 cod. pen., ove intesa come unica soluzione possibile ; la disciplina prevista dall'art.37 cod. pen. nel caso di pene accessorie non espressamente fissate dalla legge, non lascerebbe infatti al giudice quel margine di discrezionalità ritenuto necessario nella prospettiva di assegnare alle pene accessorie una funzione almeno in parte distinta rispetto a quella delle pene detentive, e marcatamente orientata alla prevenzione speciale per quel tipo di reati, in cui piuttosto che la pena detentiva appare più efficace impedire al reo di continuare a svolgere attività di impresa.

Il dubbio sull'applicabilità o meno dell'automatismo previsto dall'art. 37 cod. pen., ha comportato delle conseguenze anche in sede di legittimità, nel senso che di fronte ad una pena accessoria illegale, perché irrogata ai sensi della originaria formulazione dell'art. 216, ult. comma, legge fall., la Cassazione si è trovata nell'incertezza se annullare con o senza rinvio al giudice di merito le sentenze di condanna portate alla sua cognizione al fine di rideterminare le pene accessorie.

L'ordinanza di rimessione alle Sezioni unite

Di fronte a tutte queste incertezze è apparso subito come fosse inevitabile la rimessione della questione alle Sezioni Unite, considerato anche che il contrasto non aveva una portata limitata alla sola disciplina dell'art. 216, ult. comma, legge fall., ma andava a interessare l'intera tematica della durata delle pene accessorie, già oggetto del precedente intervento del massimo Collegio con la più vote citata sentenza Sez. Un. n. 6240/2015.

Ed infatti con l'ordinanza Sezione V, n. 56458 del 12/12/2018, Suraci e altri, è stata subito rimessa alle Sezioni Unite la questione, con indicazione del seguente quesito : se le pene accessorie previste per il reato di bancarotta fraudolenta a norma dell'art. 216, ult. comma, legge fall., come riformulato ad opera della sentenza n. 222 del 2018 della Corte Cost., con sentenza dichiarativa di illegittimità costituzionale, mediante l'introduzione della previsione della sola durata massima “fino a dieci anni”, debbano considerarsi pene con durata non espressamente “predeterminata” e quindi ricadere nella regola generale di computo di cui all'art. 37 cod. pen. (che prevede la commisurazione della pena accessoria non predeterminata alla pena principale inflitta).

La predetta ordinanza ha quindi evidenziato che la motivazione della sentenza della Corte costituzionale n. 122/2018 conduce certamente a ritenere che l'opzione preferita dalla Consulta è quella che permetta di calibrare autonomamente la pena accessoria, indipendentemente dalla commisurazione della pena principale, pur sempre in applicazione dei criteri orientativi espressi dall'art. 133 cod. pen., con un distinto giudizio collegato al diverso grado di afflittività e alla diversa finalità della sanzione, con la conseguente non applicabilità dell'automatismo contenuto nell'art. 37 cod. pen.. Il Collegio remittente ha mostrato però consapevolezza che tali conclusioni sarebbero potute però conseguire a due diversi percorsi argomentativi : l'uno, basato su di una completa rivisitazione delle interpretazioni ispiratrici della sentenza Sez. Un., n. 6240/2015, l'altro, più selettivamente, rivolto a sottrarre dalla disciplina dell'art.37 cod. pen. solo le specifiche pene accessorie scaturenti dalla formulazione dell'art. 216, ult.comma, legge fall., così come ridisegnato dal Giudice delle leggi.

L'udienza fissata per il prossimo 28 febbraio dovrà quindi affrontare la questione in un'ottica complessiva che tenga conto da un lato delle indicazioni fornite dalla Consulta e dall'altro della precedente decisione, piuttosto recente, delle stesse Sezioni unite.

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