Il danno patrimoniale (e non) per prolungata inattività lavorativa
28 Febbraio 2019
di Martina Tonetti (Fonte: Diritto e Giustizia)
Massima. Il danno da demansionamento e da dequalificazione professionale a causa di prolungata e forzata inattività non è in re ipsa, ma deve essere dimostrato, anche mediante l'allegazione di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, che consentano di valutare la qualità e la quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa dopo la prospettata dequalificazione.
Il caso. Un celebre calciatore di serie A, nonché dirigente, denunciava di avere subito un grave danno alla propria professionalità a causa dell'inattività a cui la sua squadra/datrice di lavoro l'aveva costretto.
Nei giudizi di merito, il calciatore aveva ricostruito la sua carriera, evidenziando di essere stato dapprima calciatore, poi allenatore e, infine, responsabile del settore giovanile di una squadra di serie A, che, ad un certo punto della sua carriera, l'ha esautorato delle sue mansioni e funzioni, impedendogli non solo di progredire ma, più semplicemente, di estrinsecare la sua professionalità.
Detta inattività, forzosa ed evidentemente non condivisa, aveva, secondo il calciatore, causato un danno da demansionamento, di cui chiedeva il risarcimento.
Il caso giunge sino agli ermellini che ragionano sull'inadempimento datoriale e sul danno eventualmente causato e provato, rappresentando un interessante riassunto sul danno alla professionalità sia sotto l'aspetto patrimoniale che non.
L'inattività forzata è sempre e di per sé dannosa? In primo luogo, la Corte di cassazione precisa che dall'inadempimento datoriale non deriva automaticamente l'esistenza del danno: una cosa è la violazione degli obblighi datoriali (artt. 2087 e 2103, c.c.), che costituiscono l'inadempimento (artt. 1218 e 1223, c.c.), un'altra è il pregiudizio da questo provocato.
Tale distinzione è valevole tanto più se si pensa che da un inadempimento datoriale possono derivare diverse conseguenze lesive per il lavoratore, che possono peraltro coesistere: si pensi ad esempio al danno professionale in senso patrimoniale, al danno biologico, al danno d'immagine o alla vita di relaizone, sintetizzati nella locuzione del c.d. danno esistenziale.
La prova di ciascuna di dette conseguenze lesive è a carico di chi assume di essere stato danneggiato. Il danno da demansionamento o da dequalificazione professionale, infatti, in non è mai in re ipsa, ma deve essere dimostrato mediante recise allegazioni o, tutt'al più, attraverso elementi presuntivi gravi precisi e concordanti, ai sensi dell'art. 2729, c.c.
Ad ogni modo, quale che sia l'allegazione probatoria, il giudice deve poter valutare la qualità e la quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa dopo la prospettata dequalificazione.
Il preciso onere della prova. In particolare, con riferimento al danno professionale di natura patrimoniale si è precisato come lo stesso possa consistere sia nell'impoverimento della capacità professionale acquisita con l'esperienza dal lavoratore, sia con la mancata acquisizione di una maggiore capacità, oppure ancora con la perdita di ulteriori possibilità di guadagno, la c.d. perdita di chance.
In tale contesto, quindi, l'onere della prova o comunque di allegazione deve essere specifico, evidenziando, ad esempio, come l'attività esercitata fosse soggetta a continua evoluzione o comunque caratterizzata da vantaggi connessi alla maturata esperienza, oppure ancora come sia possibile perdere dimestichezza a causa della prolungata inattività e quale sia il lasso di tempo che rende apprezzabile lo svantaggio.
Analogamente si può dire della perdita di chance: il lavoratore deve indicare quali aspettative sono state disattese a causa della violazione datoriale, quali ciòe sono le possibilità di guadagno che sono sfumate a causa del demansionamento.
Nel caso di specie le allegazioni in punto di danno / svantaggio sono risultate insufficienti ai fini della prova: il lavoratore infatti si era limitato a dedurre come la prolungata inattività conducesse - inevitabilemente - allo svilimento professionale.
La Corte di cassazione non nega la potenzialità lesiva dell'inattività, ma specifica come questa richieda una precisa allegazione e comunque come questa abbia riflesso sul danno non patrimoniale, trattandosi di una evidente lesione della dignità professionale, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo.
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