Il miglior soddisfacimento dei creditori: brevi note sui principi generali e sugli interessi tutelati

Danilo Galletti
28 Febbraio 2019

L'Autore, in questa prima parte del suo lavoro, analizza il tema del miglior soddisfacimento dei creditori soffermandosi prevalentemente sui principi generali e sugli interessi tutelati.
Premessa

In un lavoro monografico di qualche anno fa (v. La ripartizione del rischio di insolvenza, Bologna, 2006), mi sforzavo di ricostruire in particolare i profili relativi agli interessi tutelati dal sistema del diritto concorsuale, ed al ruolo assunto dal Giudice con riferimento alla tutela degli stessi.

Mi era sembrato di poter arrivare alla conclusione (d'altro canto conforme all'indirizzo mainstream) per cui l'interesse dei creditori fosse da ritenersi quello principale ad essere tutelato dalla legge, ma non l'unico: vi erano infatti anche altri interessi rilevanti, i quali tuttavia, non essendo rappresentati da soggetti esponenziali specifici (e presentandosi dunque come “acefali”), trovavano tutela nel ruolo imparziale e “terzo” del Giudice.

Molta acqua è passata sotto i ponti, in questi anni, ma non mi pare che sotto quest'aspetto molto sia cambiato, né che molto cambierà.

Gli indirizzi della riforma attuata con il Codice della crisi e dell'insolvenza, anzi, sembrano collocarsi con chiarezza in questo contesto, mettendo bene in evidenza come l'interesse principale tutelato e da tutelare sia ancora quello dei creditori, e come gli altri che prendono normalmente grado, nella regolazione della crisi d'impresa, debbano e possano certo essere parimenti tutelati, ma nella misura in cui tuttavia essi non collidono con quello “primario”.

Tale conclusione non può e non deve del resto sorprendere, atteso che la stessa precisa scelta di campo è fatta dalla Proposta di Direttiva europea dell'autunno 2016, documento importante (ormai in fase di “finalizzazione”), col quale qualsiasi riformatore non può non misurarsi.

Eppure, questi anni ci hanno abituato, nel nostro piccolo mondo italico, a prese di posizione molto differenti, e forse da questo può venire la sorpresa nei confronti dell'approdo di questi ultimi sussulti riformatori: il grande successo registrato dai concordati preventivi, soprattutto nel periodo dal 2005 al 2015, in un decennio di vera e propria “rivoluzione” del diritto concorsuale, aveva infatti concentrato l'attenzione su una serie di profili di sistema con evidenti ricadute operative, il cui inquadramento in una direzione o nell'altra, poteva e può ancora determinare molte conseguenze pratiche, circa la praticabilità o meno di determinate soluzioni concordatarie.

I forti investimenti, anche umani e professionali, effettuati ai fini della riuscita dei concordati, hanno determinato una brusca tendenza a ricostruire il sistema in modo da favorire comunque le probabilità di successo della procedura “minore”.

Quella dei "principi generali" e degli "interessi tutelati" è stata indubbiamente l'area più tormentata di questa progressione.

La “ontologica” debolezza degli studi accademici in questa materia, nonché l'accesso quasi indiscriminato al settore delle pubblicazioni di opinioni in realtà non così disinteressate, favorito anche dalla enorme diffusione dell'editoria on line, hanno spinto in modo sensibile verso un superamento “di slancio” di ogni prospettiva volta a rinvenire dei limiti (rectius degli ostacoli) sistematici alle soluzioni regolatorie extra- fallimentari.

Il tutto sulla base di ricostruzioni spesso di stampo ideologico, fondate su presupposti (rectius su preconcetti) economici tutt'altro che verificati, e comunque non estrapolati da studi statistici ed empirici realmente suscettibili di apprezzamento (dunque, in breve, non “falsificabili” in senso popperiano), al di là delle esperienze pratiche (in effetti, quasi sempre statisticamente irrilevanti) di quello o quello “studioso”, professionista o insolvency practitioner.

È accaduto così che il “principio generale”, basato sulla valutazione del ruolo sistematico delle norme positive (il caso più classico è quello dell'art. 2740 c.c.: v. infra) sia stato avvertito in non rare occasioni come un potenziale ostacolo al conseguimento di quegli obiettivi pratici, e dunque che la precettività dello stesso sia stato negata in radice, talvolta sottoponendo le norme a notevoli e sorprendenti “esercizi” di ingegneria emerneutica, al fine di far corrispondere il loro significato a quella che in realtà era solo la visione ideologica e preconcettuale dell' “interprete”.

In breve, ai principi generali quali quelli che il giurista conosce e riconosce, che orientano l'interprete verso l'esegesi più corretta sulla base della funzione oggettiva delle norme esistenti, si è tentato a più riprese di sostituire un concetto di principio generale differente, generico anziché generale, volto ad orientare l'interprete verso esiti applicativi in realtà conformi solo alla visione economica preconcetta dell'operatore.

Così per l'idea, serpeggiante e per niente occultata, per cui il Legislatore avrebbe espresso un “favor” per il concordato, da cui si dovrebbe ricavare, con operazione ermeneutica in realtà sconosciuta alla teoria generale del diritto, la conseguenza per cui comunque si dovrebbe sempre privilegiare l'interpretazione che consenta l'omologazione della soluzione concordataria, anziché impedirla o ostacolarla.

Con singolare inversione dei principi, ove il concordato, per essere omologabile, non dovrebbe accreditarsi come conforme alla Legge, ma al contrario dovrebbe essere la Legge a consentire il concordato, quando esso è “favorevole” (rectius, assunto come tale) o ai creditori, o peggio alla personale visione economica di chi lo ha proposto.

E con altrettanto sorprendente tendenza a bollare come “conservatrice” ogni tesi che sia avvertita come non “funzionale” a quella tendenza, ed invece come “progressista” qualsiasi aspirazione ermeneutica idonea ad essere armonizzata con quell'obiettivo pratico.

Tutto ciò ovviamente presuppone una eccezionale fiducia del sistema nella capacità degli operatori del diritto di sceverare ciò che è “etico” da ciò che non lo è, delegando la giustizia del caso concreto a questi ultimi; e presuppone anche uno stuolo di norme aperte, indeterminate, il cui contenuto concreto non è individuato dal Legislatore, ma è in sostanza delegato ai pratici.

Ma che tali norme non esistano davvero, è sotto gli occhi di tutti.

È poi accaduto comunque, ed in modo evidente, non tanto che le interpretazioni così “orientate” si siano rivelate alla fine difformi da quello che era il reale volto del sistema, ma soprattutto che quella “fiducia” sia stata manifestamente revocata dal Legislatore: così, già nel 2013, appena un anno dopo l'introduzione del concordato “in bianco”, il Legislatore interveniva apponendo limiti e cautele all'operatività sino ad allora indiscriminata (più di un concordato al giorno iscritto a ruolo presso il Tribunale di Milano, nel corso del 2013 …) di una procedura, che certo è stata salutata come essenziale al fine di concedere “tempo” all'imprenditore, al fine di elaborare la propria soluzione regolatoria della crisi, evitando arresti improvvisi ed ingiustificati dell'attività di impresa, dettati solo dalle iniziative “egoistiche” dei singoli creditori, ma che in concreto ha prodotto enormi perdite al ceto creditorio, disperdendo ricchezza che semplicemente non è stato possibile reinvestire in nulla.

Fino a che, nel 2015, lo stesso Legislatore interveniva ancora, da un lato abolendo l'ipocrisia di un meccanismo di voto, imperniato sul "silenzio- assenso", che nella forma voleva attribuire ai creditori la decisione in ordine alla convenienza della soluzione proposta, ma di fatto “giocava” sulla apatia “razionale” di gran parte degli stessi, favorendo solo la voice di quelli più organizzati; e dall'altro imponendo nuovamente (a soli dieci anni dalla sua rimozione) un limite quantitativo minimo al livello di soddisfacimento dei creditori chirografari. Questo almeno quanto ai concordati “liquidatori”.

Coll'intento, abbastanza evidente, di porre fine ad una lunga consuetudini di abusi, ove di certo non hanno funzionato correttamente i gatekeepers istituzionali (ceto professionale in testa), e col risultato, voluto e perseguito, di selezionare i piani concordatari, in relazione alla loro effettiva capacità di assicurare recovery ratios non “canzonatori”, per di più rilevabili soltanto ex post, in fase di esecuzione del concordato, a causa del bizzarro “imbavagliamento” dei poteri officiosi del Giudice nella fase ante omologa (imbavagliamento peraltro anch'esso destinato ormai ad essere “stranamente” travolto dal percorso riformatore).

Fase di esecuzione concordataria pure caratterizzata da applicazioni al limite del dileggio istituzionale, col Giudice privato di qualsiasi potere effettivo, ridotto (dovremmo forse dire, finalmente …) ad un mero passacarte, e con in più (prima dei recenti sviluppi giurisprudenziali, anche di legittimità) la pretesa di imporre come antecedente necessario ed imprescindibile del fallimento la previa risoluzione del concordato, ben sapendo che in quella fase, ancor più che in quella precedente, la “apatia razionale” del creditore è massima, e tale da rendere assai improbabile che uno di essi, se non per mero piglio, sostenga ancora costi professionali rilevanti al fine di ottenere un risultato (la reviviscenza dell'obbligazione originaria, non più “conformata” dal concordato) che neppure comprende, e che assai poco di utile può ormai attribuirgli.

Che è come a dire: quando sono riuscito ad ottenere l'agognata omologazione, non ho allora maturato un “diritto quesito” a non fallire, e sennò perché mi sarei sottoposto a quel percorso? Ciò fino alla inevitabile reazione della giurisprudenza, che infine approda all'esito interpretativo, che riequilibra solo in parte il sistema, per cui il fallimento è ancora possibile a prescindere da qualsiasi risoluzione (cfr. Cass., 17 luglio 2017, n. 17703; Id. 17 ottobre 2018, n. 26002).

Perché per fortuna i Giudici hanno continuato in questi anni ad esercitare la loro funzione di “tutela” di chi non è in grado di autotutelarsi, pur assoggettandosi a forme anche pronunziate di self restraint (forse anche per timore di essere anche loro bollati come “conservatori”), come è stato per quel “tractatus misteriosoficus” che ha costituito la pronunzia delle Sezioni Unite del 2013, la quale ha resistito pare alla rottura dell'argine nel 2015, ma non potrà resistere all'attuazione della delega legislativa; reprimendo, anche col ricorso all'art. 173 l.fall., i casi di abuso più gravi, ma sempre nel contesto di un diritto che purtroppo consentiva ai furbi troppi spazi di manovra.

Ora tuttavia, all'esito di quel percorso evolutivo, avendo sullo sfondo i progetti riformatori comunitari (la già menzionata Proposta di Direttiva) ed interni (la legge n. 155/2017, e il “Codice della crisi e dell'insolvenza”), non “ignorabili” per il loro ruolo assiologico, è forse giunto il momento di riflettere davvero sulla portata dei “principi”.

Nel contesto di questo scritto cercherò dapprima di mettere a fuoco le problematiche connesse all'apprezzamento del “miglior soddisfacimento dei creditori”, come criterio legale selettivo dei concordati con continuità aziendale ammissibili.

In seguito, esaminerò il ruolo di taluni principi generali tipici del sistema della responsabilità patrimoniale, come quello della soggezione di tutti i beni e diritti del debitore, presenti e futuri, alla realizzazione delle pretese dei creditori, con riferimento altresì alla possibilità che taluni assets siano esclusi da questo fenomeno, in particolare nei concordati con continuità aziendale.

Le due tematiche, come è ben evidente, sono infatti strettamente collegate fra di loro.

La continuità aziendale: fine o strumento?

La rilevanza della continuità aziendale all'interno della fattispecie del concordato preventivo ha costituito un tipico banco di prova dei concetti sin dall'introduzione dell'art. 186-bis l.fall., con una delle tante riforme “estive”, quella del 2012.

Probabilmente molti operatori attendevano con ansia uno strumento regolatorio che rendesse più agevole l'esperimento di un concordato che consentisse la prosecuzione dell'attività di impresa in capo al debitore. Non è che non ci fossero già stati esempi applicativi, ma indubbiamente il sistema non agevolava tali soluzioni, soprattutto perché imponeva di predisporre un piano di risanamento completo prima dell'ingresso in procedura. Nell'intervento del 2012, allora, forse l'agevolazione della continuità era racchiusa più nel concordato “in bianco” che nello stesso art. 186-bis l.fall., ma comunque l'attesa era stata tanta, e la novità fu dunque salutata con grande entusiasmo.

Al contempo tuttavia era ben noto a tutti che la scarsità di applicazioni pratiche sino ad allora era dovuta anche alla “ontologica” difficoltà fattuale di tali soluzioni concordatarie, nonché alla loro pericolosità per l'interesse dei creditori: l'impresa insolvente infatti, nella normalità dei casi, “distrugge ricchezza”, a causa della diseconomicità dei suoi flussi, sicché l'ingresso in procedura, accompagnata dalla prosecuzione dell'attività, può comportare l'aggravio della Massa in relazione alle passività di funzionamento generate durante la pendenza del concordato, che se non estinte regolarmente con i flussi di cassa così generati, si traducono in nuovi debiti, assistiti però dal beneficio della prededuzione.

Certo la dinamica economica dell'impresa in funzionamento durante la procedura concorsuale presenta delle evidenti anomalie rispetto alla fase in bonis, che si risolvono anche in vantaggi operativi: così la non necessità (ed anzi, l'impossibilità tendenziale) di finanziare il pagamento dei debiti pregressi attenua nel breve periodo l'impatto della crisi sul conto economico.

Ma il percorso resta estremamente rischioso, per i creditori, attesi soprattutto gli effetti “qualitativi” dell'insolvenza, che ovviamente possono contribuire a deteriorare il patrimonio, soprattutto immateriale, dell'imprenditore.

Quando tuttavia il Legislatore introdusse nel 2012 l'art. 186-bis l.fall., “curiosamente”, quegli stessi operatori non ebbero molti dubbi nel leggere quell'intervento alla luce della supposta volontà del Legislatore di “favorire” la continuità “oggettiva” dell'impresa, id est la sua prosecuzione in sé, anche in capo ad un differente imprenditore.

Immediatamente si registrò una diatriba, che quasi subito risultò abbastanza noiosa, fra i fautori di un'esegesi dell'art. 186-bis l.fall. estesa anche ai casi di continuità “indiretta”, oppure piuttosto soltanto “diretta” (di recente peraltro espressamente sul tema cfr. Cass., 19 novembre 2018, n. 29742, sulla quale v. infra).

Per la verità la ratio della norma sembrava lasciare poco spazio ai sostenitori della tesi estensiva, nella misura in cui fra l'altro richiedeva la valutazione preventiva della conformità del piano concordatario al “miglior soddisfacimento dei creditori”, nonché l'elaborazione di uno specifico business plan con evidenziazione degli utili e dei flussi di cassa prospettici, che sembrava avere senso soltanto in caso di prosecuzione dell'impresa da parte del debitore insolvente, come strumento cautelare preventivo della situazione “tipica” di pregiudizio per i creditori; il Legislatore inoltre, chissà perché, aveva avvertito anche l'esigenza di dettare una specifica norma (art. 186-bis, ult. cpv.) in tema di revoca del concordato, là dove la prosecuzione dell'attività risultasse “manifestamente” dannosa ancora per i creditori, o comunque essa venisse a cessare.

Ma forse per gli stessi motivi di cui sopra, tale ultima tesi sembrò registrare comunque una certa prevalenza, forse anche nei voti della giurisprudenza di merito.

Costituisce certo una evidente forzatura ritenere che il business plan richiesto dalla norma, nei casi di continuità “indiretta”, sia da riferirsi al soggetto terzo che esercita l'impresa, cessionario, conferitario o affittuario; ed a nulla può valere replicare che l'esame del piano strategico dell'affittuario si giustifichi con l'importanza delle obbligazioni che egli assume, fra cui anche quella di conservare il valore dell'azienda concessa in godimento, poiché in tal modo la norma non può svolgere alcuna funzione utile: non è infatti meno evidente l'esigenza di valutare l'affidabilità patrimoniale di colui che si impegni ad acquistare beni del debitore nel concordato liquidatorio.

E comunque nessuna giustificazione, mi pare, potrebbe spiegare perché pure in tali casi dovrebbe applicarsi anche l'ultimo comma dell'art. 186bis l.f.: se l'affittuario è anche impegnato ad acquistare l'azienda, per un corrispettivo prefissato, perché mai il concordato dovrebbe essere revocato (oppure il debitore dovrebbe modificare radicalmente il piano), là dove l'attività d'impresa cessi? Il piano potrebbe divenire infattibile, in questi casi, in forza dell'eventuale inadempimento del promissario acquirente, non della cessazione dell'impresa.

Ma in tal modo, quasi inconsapevolmente, la continuità, da mero strumento di regolazione della crisi, diventava per i più “obiettivo” o “fine” in sé di quella regolazione; quasi automatica fu la tendenza fra gli interpreti a sollecitare interpretazioni delle norme sul concordato sempre nella direzione di “favorire” la continuità, sul presupposto (in realtà del tutto indimostrato) che questa (quella di “favorire” la continuità) fosse la volontà del Legislatore.

E così una disciplina che era rivolta, per il 90% (se si eccettuano alcune facilitazioni operative), a tutelare l'interesse dei creditori, esposto al rischio di essere compromesso dalla prosecuzione di un'attività quasi sempre diseconomica, diveniva uno strumento di tutela per la continuità aziendale in sé, in senso “oggettivo”.

L'errore (pre)concettuale, comprensibile ma solo per il non giurista, è stato quello di sovrapporre e sostituire la propria visione economica, rectius di politica del diritto, a quella del Legislatore: di ritenere cioè che il sistema dovesse favorire a tutti i costi, al fine di segnalarsi come “socialmente desiderabile”, le soluzioni “oggettivamente” in continuità della crisi, e che quindi l'intervento del 2012 fosse andato in quella direzione. Ignorando peraltro, così com'è tipico delle valutazioni preconcettuali, scevre da analisi empiriche approfondite, decenni di applicazioni e di riflessioni sulla continuità “ad ogni costo”, relative al funzionamento della vecchia amministrazione controllata, nonché della amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi.

La disputa non presentava d'altro canto enormi conseguenze operative, se non per il fatto che, qualora la continuità “indiretta” fosse stata fatta rientrare nello spettro applicativo della norma, il Tribunale avrebbe dovuto farsi carico in fase di ammissione e di omologa di oneri di controllo ulteriori (quelli sopra esposti).

Ma la questione poteva essere invece destinata a divenire “guerra di religione” quando il Legislatore, nel 2015, introdusse il limite minimo del 20% al soddisfacimento dei creditori, esentandone soltanto i concordati con continuità aziendale “di cui all'art. 186bis l.f.”.

Stante l'endemico ritardo nell'accesso alle soluzioni ordinamentali di regolazione della crisi (che proprio la reintroduzione di una soglia minima mirava e mira in effetti a contrastare), infatti, poche erano le imprese il cui attivo fosse ancora in grado di sprigionare tale utilità patrimoniale per i creditori; dunque la continuità diveniva la “ultima spiaggia” per evitare il fallimento.

Inutile dire che la stragrande maggioranza degli interpreti si è schierata (ancora) a favore della tesi estensiva, così assumendo (ancora) una volontà del Legislatore di favorire la continuità “oggettiva” dell'impresa.

In realtà, a me pare che il Legislatore del 2015, a differenza di quello del 2012, abbia davvero voluto “incentivare”, forse per spicce finalità di “legittimazione politica”, l'adozione di (tutti i) concordati con continuità, lasciandoli indenni dall'introduzione della soglia del 20%.

Certo i casi di abuso che hanno fatto da retroterra culturale a quell'interpolazione avevano riguardato anche concordati con continuità; e forse proprio i casi in cui l'uso (massivo) del concordato con continuità aveva prodotto i maggiori guasti all'interesse della massa creditoria avevano riguardato proprio le situazioni in cui l'attività di impresa era proseguita dopo l'ingresso in procedura, frequentemente nella fase “con riserva”.

Ma il Legislatore del 2015, ciononostante, ha voluto introdurre un trattamento differenziato per le due varianti concordatarie, evidentemente credendo fosse utile che la continuità fosse agevolata.

L'art. 186bis l.f. aveva una determinata “funzione”, l'interpolazione del 2015 era invece ispirata da una differente ratio; nulla di sconvolgente; sconvolgente semmai è la pervicace convinzione che vi sia un “principio supremo” del favor circa la continuità “oggettiva”, e leggere alla luce di questo ogni disposizione normativa presenta, passata e futura; operazione che presenta anche un chiaro sapore giusnaturalistico, ma tant'è.

Poiché l'unica possibile ragione politica (condivisibile o meno) che può aver indotto a tale discriminazione normativa è la maggiore difficoltà operativa insita in tali ristrutturazioni, ed i maggiori (ritenuti) benefici per l'interesse generale racchiusi in genere nella prosecuzione in sé dell'attività d'impresa (visione cui non è aliena neanche la Proposta di Direttiva), rispetto alla disgregazione dei fattori produttivi, mi pare (e mi è parso) di dover concludere che tanto i concordati con continuità diretta quanto quelli che prevedessero la ricollocazione del compendio, sempre in regime di continuità, dovessero sfuggire all'applicazione del nuovo limite legale.

Al contempo, tuttavia, deve ritenersi che anche la minor percentuale rispetto al 20% offerta ai creditori dal debitore in tali casi sia non solo impegnativa e vincolante, e dunque astrattamente suscettibile di fondare il successivo giudizio di risoluzione ex art. 186 l.f. in caso di inadempimento, ma altresì che il Tribunale possa sindacare direttamente la conseguibilità di tale obiettivo, tale da sostanziare la “causa concreta” dello specifico piano concordatario, e così anche la “fattibilità giuridica” del medesimo (talora peraltro in dottrina – Bozza, Il ritorno del giudice sulla scena del concordato e il tramonto di una stella polare, in Il caso, 2017 - ed anche in giurisprudenza – v. App. Firenze, 6 dicembre 2016, in Il caso, si è opinato addirittura nel senso per cui la novellazione del 2015 avrebbe oramai rimosso ogni distinzione fra fattibilità giuridica ed economica, restituendo al Giudice ampi poteri anche “nel merito” della soluzione concordataria, in senso armonico peraltro con la scelta operata dalla L. n. 155/2017, e dalla Proposta di Direttiva europea dell'autunno del 2016).

In caso contrario si realizzerebbe una clamorosa distonia sistematica, ove i piani meramente “liquidatori” dovrebbero superare il vaglio del 20% anche con riferimento alla sua concreta fattibilità, i piani in continuità diretta dovrebbero misurarsi pure con l'obbligo di dimostrare la conseguibilità della percentuale promessa (essi infatti sono ritenuti concordati “con garanzia”), laddove soltanto i piani caratterizzati da continuità solo “indiretta” sfuggirebbero ad ogni vaglio giudiziale apprezzabile.

Mi si opporrà (e mi si è opposto) che la norma fa riferimento ai concordati “di cui all'art. 186-bis l.f.”, ma come è noto, e soprattutto in questa materia, la funzione delle norme è molto più importante della lettera delle stesse.

Non si può tuttavia da ciò pretendere di ricavare anche una direttiva sistematica per cui, ogni volta che l'interpretazione di una norma in materia di concordato con continuità, diretta od indiretta, sia dubbia, debba privilegiarsi l'esegesi che renda possibile, o che comunque agevoli, la continuità (questa mi pare invece la chiave ricostruttiva in cui si pone adesso L.G. Rossi, La conservazione del patrimonio aziendale come obbiettivo del Legislatore: oneri e doveri dei soggetti coinvolti nell'impresa, tesi dottorale), posto che nessuna norma autorizza tale conclusione; anzi, ogni volta che l'interpretazione auspicata entri in conflitto con l'interesse della Massa creditoria, o con qualche altra disposizione imperativa, detta soluzione ermeneutica dovrà essere respinta (evidenza come il “miglior soddisfacimento costituisca un parametro, non una fonte di regole”, disconoscendo correttamente al sintagma il valore di “clausola generale”, e ricostruendolo semmai come “funzione” legale della specifica variante concordataria, F. Rolfi, in Rolfi- Ranalli, Il concordato in continuità, Milano, 2015, 18). Perché il Legislatore non aveva e non ha affatto invertito quella gerarchia “primordiale” fra interessi.

Il Legislatore non ha tuttavia coordinato le nuove norme con le vecchie, mancando così di restituire coerenza al sistema: dunque l'art. 186-bis l.fall. resta ancorata alla funzione di assicurare una maggiore tutela al ceto creditorio nei casi in cui l'attività d'impresa prosegua in capo allo stesso debitore.

L'approdo finale giurisprudenziale di tale complesso percorso esegetico tuttavia pare essere indirizzato altrove: secondo Cass., 19 novembre 2018, n. 29742 (che esamina una fattispecie successiva al 2012, ma anteriore al 2015), infatti, l'art. 186-bis l.fall. sarebbe applicabile alle figure di continuità tanto “diretta” quanto “indiretta”, ed addirittura alle fattispecie caratterizzate dalla stipula di un contratto di affitto di azienda, prima dell'ingresso in procedura.

Non mancano certo le forzature, nel tessuto motivazionale (peraltro assai elegante): così l'affittante anche dopo l'affitto rimarrebbe addirittura imprenditore (indiretto?), roba che non si legge certamente nei trattati di diritto commerciale; addirittura impresa vi sarebbe nel caso della liquidazione degli assets: il che ai fini di cui all'art. 2082 c.c. probabilmente è anche vero, ma se ciò dovesse valere anche per il diritto concorsuale allora tutti i concordati sarebbero con continuità aziendale …

Ancora, mi pare che la S.C. non riesca a nascondere un certo imbarazzo là dove elenca le (poche) norme di “favore” per il concordato con continuità, confrontandole con le (molte) speculari e sinallagmatiche “cautele”; oppure allorquando si sforza di armonizzare in qualche modo con la evidente peculiarità della fattispecie norme palesemente ispirate in modo differente, come gli artt. 186-bis, commi 2 e 3, e soprattutto l'art. 182-quinquies, comma 5.

In sostanza poi la ricostruzione operata dai Giudici di Legittimità (forse anche un po' “ipocrita”, consapevolmente, nella misura in cui possa aver in realtà inteso porre una “pietra tombale” sul diverso problema del “20%”), quanto al concordato con continuità imperniato sull'affitto, sembra poter “girare” davvero solo nei casi di affitto “interno”, ove è lo stesso debitore a costituire la newco che diviene affittuaria, in attesa di rinvenire un terzo disponibile a rendere possibile il ricollocamento del compendio sul mercato (su questa figura cfr. ad es. Greggio- Vidal, Il mantenimento della continuità aziendale mediante la costituzione di una special purpose vehicle da parte della società debitrice, in Il caso, 2017).

Ma la barra rimane sempre saldamente nella direzione dell'interesse dei creditori, e non del “risanamento” dell'azienda in sé: quest'ultimo obiettivo, nel caso della continuità “indiretta”, è anzi espressamente assunta come “estranea” al fuoco dell'art. 186-bis l.fall., per quanto l'obiettivo possa rimanere “auspicabile”.

La stessa continuità diretta resta saldamente funzionalizzata all'interesse superiore del ceto creditorio, e si legittima solo ed esclusivamente “se il complessivo valore del patrimonio del loro debitore possa ridursi qualora l'attività di impresa venisse interrotta”; patrimonio che la pronunzia reputa peraltro con chiarezza “virtualmente destinato ai suoi creditori ... già dal momento della sua incapienza”.

Diversamente (da quanto sostenuto in subiecta materia in questo studio in relazione alla continuità “indiretta”) sarà del resto anche per il Codice della crisi e dell'insolvenza, ove la continuità è stata disegnata in termini organici, ricomprendendo espressamente entrambe le varianti, diretta ed indiretta.

Come si diceva, una volta “sminato” il terreno dal problema del limite del 20%, l'interrogativo (186-bis sì o no per le fattispecie di continuità “indiretta”) non appare poi così interessante, e le sue conseguenze applicative si risolvono in massima parte nella estensione a certe figure “ibride” delle “cautele” legislative di cui all'art. 186-bis l.fall. (ed infatti l'esito della già ricordata Cass., n. 29742/2018 è la cassazione di un concordato, non la sua ammissione).

Ma in ogni caso, ed il dato appare assai significativo, non si potrà sostenere, anche nel futuro regime del Codice della crisi e dell'insolvenza , che il Legislatore persegua la continuità in sé, anche a discapito dell'interesse dei creditori, posto che ciò è espressamente in contrasto con la direttiva generale esplicita di privilegiare l'interesse dei creditori, anche rispetto a quello della stessa continuità (conf., condivisibilmente, F. Rolfi, in Rolfi- Ranalli, Il concordato in continuità, loc. cit.).

La continuità è infatti solo uno strumento per la miglior tutela dell'interesse dei creditori, e non già un fine in sé.

La stessa S.C. aveva d'altro canto, sempre di recente, fatto giustizia di certe elucubrazioni dei pratici, pronunziandosi su fattispecie antecedenti la Riforma del 2015 con tre pronunzie successive del 2017, di rara chiarezza concettuale (Cass., 27 febbraio 2017, n. 4915; Id., 7 aprile 2017, n. 9061; Id., 5 luglio 2017, n. 22691; anche la giurisprudenza di merito è solitamente assai rigorosa, in ordine a tali valutazioni: cfr. per tutti Trib. Pavia, 14 ottobre 2016, in Il caso, e Trib. Firenze, 12 febbraio 2018, in Fall., 889. Più di recente, nel solco delle pronunzie del 2017, sia pur in una fattispecie ove veniva scrutinata la responsabilità di un attestatore, cfr. Cass., 4 maggio 2018, n. 10752), dalle quali si ricavano le seguenti regole generali: “ciò significa che la verifica di fattibilità, proprio in quanto correlata al controllo della causa concreta del concordato, comprende necessariamente anche un giudizio di idoneità, che va svolto rispetto all'assetto di interessi ipotizzato dal proponente in rapporto ai fini pratici che il concordato persegue. Difatti non può esser predicato il primo concetto (il "controllo circa l'effettiva realizzabilità della causa concreta") se non attraverso l'estensione al di là del mero riscontro di legalità degli atti in cui la procedura si articola, e al di là di quanto attestato da un generico riferimento all'attuabilità del programma.…Tanto vuol dire non solo che non è vero che il controllo di fattibilità economica, per usare l'espressione fin qui impiegata, sia in sè vietato ... Vuol dire anche che, nella prospettiva funzionale, è sempre sindacabile la proposta concordataria ove totalmente implausibile. E' difatti riservata ai creditori solo la valutazione di convenienza di una proposta plausibile, rispetto all'alternativa fallimentare, oltre che, ovviamente, la specifica realizzabilità della singola percentuale di soddisfazione per ciascuno di essi. I riportati principi tanto più vengono in rilievo quando si discorra di concordato in continuità aziendale supponente, come nella specie, un piano industriale pluriennale inteso a generare specifici flussi di cassa. In tal caso la rigorosa verifica della fattibilità "in concreto" presuppone un'analisi inscindibile dei profili giuridici ed economici, volta che il piano con continuità deve essere idoneo a dimostrare la sostenibilità finanziaria della continuità stessa. Tanto che esso deve contenere l'analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell'attività, delle risorse necessarie e delle relative modalità di copertura (L. Fall., art. 186-bis). E' da puntualizzare che se è vero che il concordato con continuità aziendale non si atteggia, nel sistema, come un istituto diverso e "nuovo", ma come semplice modalità del concordato stesso, è però anche logico che, per le caratteristiche che lo distinguono e per le particolari norme di favore attraverso le quali è agevolata la continuazione dell'impresa in crisi, esso debba esser circondato da una serie di cautele inerenti il piano e l'attestazione, tese a evitare il rischio di un aggravamento del dissesto a danno dei creditori. Invero la prosecuzione dell'attività deve essere comunque "funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori" (ancora art. 186-bis). In definitiva, il piano concordatario che, come atto programmatico, il debitore è libero di formulare, condizionando l'esercizio e la realizzazione dei diritti di terzi, paralizzati dal divieto di azioni esecutive per la durata della procedura (L. Fall., art. 168) ed esposti a una falcidia in certo qual modo aggravata dal concorso di creditori aventi diritto alla prededuzione o al pagamento anticipato (artt. 161 e 182-quinquies), suppone sempre un vaglio rigoroso, da parte del giudice, su tutti i presupposti e gli atti preparatori e strumentali condizionanti. Esplicitamente, d'altronde, l'art. 186-bis, u.c., attribuisce al giudice il compito di verificare, ai sensi della L. Fall., art. 173, che l'esercizio dell'impresa, per come ipotizzato nel piano, non risulti infine manifestamente dannoso per i creditori. Cosicché l'alea che ne circonda l'esecuzione, e che è rimessa all'accettazione dei creditori, non si estende alla valutazione di esistenza effettiva dei presupposti della soluzione concordataria per come indicata nel piano e di inesistenza delle condizioni di manifesta dannosità. …. E a tal proposito va qui rammentato che, giustappunto, il business plan è nel linguaggio commerciale il documento che sintetizza i contenuti e le caratteristiche di un progetto imprenditoriale, in vista della concreta pianificazione e gestione aziendale e della comunicazione esterna verso potenziali finanziatori o investitori. Donde una carenza incidente su di esso … ben può giustificare una valutazione di intrinseca inettitudine, quando non di plateale dannosità per i creditori, della prosecuzione dell'esercizio dell'impresa secondo la prospettiva delineata”.

Ove è evidente che in primo piano deve essere collocata l'esigenza di assecondare la logica “cautelare” con la quale il Legislatore ha circondato l'istituto (l'attenzione non deflette infatti dalla rilevanza “centrale” dell'art. 186-bis, ult. cpv., a differenza che nel più recente arresto del 2018, n. 29742), e cui ha condizionato l'apparato normativo di favore dettato prima nell'interesse dei creditori, e soltanto dopo della continuità “oggettiva”.

Il fulcro di tale sistema è senz'altro la valutazione del “miglior soddisfacimento dei creditori”.

Il miglior soddisfacimento dei creditori: criterio selettivo o “principio generale”?

L'art. 186-bis l.fall., sin dalla sua introduzione, ha condizionato la praticabilità del concordato con continuità alla sua funzionalità al “miglior soddisfacimento dei creditori”.

Ciò implica che il piano concordatario deve concretamente legittimarsi come funzionale alla “migliore” tutela di tale interesse, l'esatto opposto dell'assunzione tacita (e preconcetta) per cui la continuità tutela al meglio quell'interesse.

Il Legislatore ha dunque normato una figura speciale e specifica di concordato (non un tertium genus, però, come ha ricordato di recente Cass., n. 29742/2018), l'ha sicuramente legittimata (non che prima non lo fosse), ha anche erogato alcune provvidenze (moratoria annuale, disposizioni sui contratti pubblici), ma ha condizionato il tutto, non solo le provvidenze, bensì anche la stessa praticabilità del piano, all'accertamento di un requisito, inerente all'interesse dei creditori.

Si tratta dunque di una regolamentazione della fattispecie, non di un processo di incentivazione della stessa: vengono così fissati i requisiti che condizionano la stessa ammissibilità della stessa.

Come da questo si potesse ricavare una voluntas legis nel senso di favorire sempre e comunque la continuità, resta un assoluto mistero.

Non si tratta fra l'altro di una generica verifica di compatibilità della continuità rispetto all'interesse dei creditori: il Legislatore vuole che il piano con continuità sprigioni utilità maggiori per i creditori delle altre soluzioni; la continuità dunque non può essere sub- valente, ma nemmeno a rigore equivalente: essa si legittima solo in quanto prevalente sulle altre possibili soluzioni regolatorie della crisi (vedremo nel prosieguo in concreto quali).

L'accertamento di tale requisito è rimesso apparentemente al giudizio dell'attestatore, ma riesce difficile non vedere come questo modifichi anche i poteri di controllo del Giudice: la verifica del “miglior soddisfacimento” costituisce un ulteriore requisito di ammissibilità del concordato, del quale il Tribunale non può non conoscere.

Persino la fattibilità economica, nell'interpretazione giurisprudenziale, quella che ancora si rifà al Tractatus del 2013, è del resto, come noto, conosciuta dal Giudice direttamente, non già solo indirettamente, attraverso il mero esame formale della relazione di attestazione.

L'accertamento dell'inesistenza dei presupposti di fatto su cui si basa l'attestazione non può che minare il giudizio di ammissibilità; tantopiù nel contesto di un concordato con continuità, ove la S.C. ha già avuto modo di precisare che l'esistenza dei presupposti oggettivi inerenti alla ristrutturazione deve essere “effettiva” (Cass., n. 9061/2017, cit.).

Il fatto che la norma inserisca letteralmente tale elemento nel contenuto della relazione dell'attestatore non sposta i termini della questione.

La Legge precisa anche che è l'attestatore ad “assicurare” che il piano con continuità soddisferà i creditori per un importo almeno pari al 30%, al fine di sbarrare il passo a proposte concorrenti (art. 163, comma 5, l.fall.), ma non può dubitarsi che, specialmente a fronte di una contestazione del terzo, il Tribunale debba conoscere direttamente di tale circostanza. E nel concordato preventivo, ormai lo sappiamo, il controllo del Giudice ha sempre la stessa estensione, a prescindere dal fatto che taluno lo solleciti, oppure che il primo si attivi officiosamente, nell'interesse appunto di coloro, creditori o meno, che non si avvalgono dei poteri di “autotutela”, magari per problemi di asimmetria informativa e/o di “apatia razionale”. Il sistema concorsuale “conosce i suoi polli” …

Si dirà che il “miglior soddisfacimento” corrisponde in realtà alla “convenienza” del concordato, e che ciò è naturalmente estraneo al controllo del Giudice, per essere confinato al solo vaglio dei creditori: ma in realtà in tal modo si perpetua l'errore di credere che il sindacato giudiziale debba restare “religiosamente” estraneo al “merito” (espressione già di per sé terribilmente equivoca) del piano, senza prendere atto di come ad es. il giudizio di cram down abbia proprio tale contenuto; e soprattutto si omette così di rilevare come la Proposta di Direttiva preveda espressamente poteri del Giudice estesi a valutazioni di convenienza, anche in una logica di supplenza rispetto al ruolo, prevedibilmente “apatico” dei creditori.

Fissando tale requisito il Legislatore ha inteso in realtà selezionare i concordati possibili, condizionando la praticabilità di una forma, quella con continuità, caratterizzata da rischi più intensi per la Massa, all'accertamento di un requisito sostanziale.

Tale requisito non può essere rimesso al giudizio esclusivo dei creditori, posto che questi sono comunque chiamati a votare il piano di concordato: si tratta all'evidenza di un limite di sistema, che va valutato sin dall'inizio.

L'esistenza di tale condizione legale, d'altro canto, non è certo casuale, ma si completa con un disegno sistematico coerente: la prosecuzione dell'impresa in crisi costituisce un pericolo “aggravato” per i creditori, al cui interesse, dopo l'insorgere della crisi, intesa come “probabilità di insolvenza” (su ciò v. il Codice della crisi, art. 2, lett. a, e la Proposta di Direttiva, Considerando n. 17 e art. 1), è funzionalizzata la gestione dell'impresa.

Soltanto nel fallimento, grazie al controllo pubblicistico “assoluto” sulla gestione, è possibile la prosecuzione dell'impresa anche in condizioni di mera neutralità per l'interesse dei creditori (art. 104 l.fall.); al di fuori del fallimento, anche nel concordato, ed a maggior ragione nella fase di vita ancora “in bonis”, la prosecuzione è condizionata dalla circostanza per cui, nel trade off fra conservazione dei “valori” dell'azienda, e previsione dei livelli di soddisfacimento dei creditori, questi ultimi risultino prevalenti.

Non si dice di quanto la prospettiva “con continuità” debba risultare prevalente rispetto alla cessazione e liquidazione immediata; ma il gestore dell'impresa ormai “indirizzata” verso l'insolvenza deve comunque formulare tale giudizio prognostico, in termini positivi ed inequivoci, come condizione di legittimità del proprio stesso operato. Perciò, in carenza della formulazione concreta e razionale di tale giudizio, l'attività dei gestori che proseguano l'esercizio dell'impresa, anche soltanto temporaneamente, non può ritenersi “conservativa” prima dell'ingresso in procedura (arg. ex artt. 2486 c.c. - art. 186-sexies l.fall.), e dopo tale momento tale attività dovrà legittimarsi nello stesso modo, ma nelle forme legali e sotto il controllo degli organi della Procedura; ciò anche nella fase concordataria “in bianco”, ove la prosecuzione dell'attività non è comunque possibile, e deve dar luogo alla chiusura della procedura, mediante abbreviazione del termine o quantomeno in applicazione analogica od estensiva dell'ultima comma dell'art. 186bis l.f. e dell'art. 173, ove risulti che nemmeno prospetticamente sia possibile così “il miglior soddisfacimento”. Il contrario non parrebbe si possa evincere dall'art. 182- quinquies, comma 3, l.fall., sui finanziamenti “urgenti”, posto che la mancata menzione, da parte del Legislatore, del requisito del “miglior soddisfacimento”, corrisponde solo all'assenza dell'attestazione speciale come requisito dell'autorizzazione, ma sarebbe concettualmente scorretto, soprattutto dal punto di vista sistematico, ritenere per assurdo che il debitore possa essere autorizzato a contrarre un debito prededucibile strumentale alla continuazione se vi è evidenza della contrarietà di ciò all'interesse dei creditori: il Tribunale in questi casi rifiuterà semplicemente l'autorizzazione, costituendo la conformità all'interesse della Massa un presupposto implicito di esercizio dei suoi poteri (l'argomento fondato sui finanziamenti “urgenti” è enfatizzato, ma con opposte conclusioni, da L.G. Rossi, La conservazione del patrimonio aziendale come obbiettivo del Legislatore: oneri e doveri dei soggetti coinvolti nell'impresa, cit.).

Ma cosa vuol dire “interesse dei creditori”? Sarebbe ingenuo assumere che il Tribunale debba verificare la prevalenza del concordato per ciascun singolo creditore; è evidente che si tratterà primariamente dell'interesse del ceto chirografario, perché i privilegiati debbono essere pagati integralmente comunque (salvo che nei casi di “nuova finanza”: v. infra); ma se il concordato prevede più classi, in ogni caso il Giudice non potrà accertare se il membro di una classe, in una soluzione regolatoria differente, potrebbe essere meglio trattato: il Legislatore ha infatti lasciato all'autonomia negoziale la distribuzione “orizzontale” delle risorse concordatarie fra i creditori condividenti lo stesso “rango”, autorizzando la formazione delle classi, e così derogando implicitamente all'art. 2741 c.c.

Il miglior soddisfacimento andrà invece accertato con riferimento all'attivo complessivamente disponibile per i creditori (conf. sul punto Ant. Rossi, Il migliore soddisfacimento dei creditori (quattro tesi), in Fallimento, 2017, p. 640), arricchito da eventuali apporti “esterni”; detto presupposto legale dunque tutela l'attribuzione delle risorse ai creditori in senso “trasversale”, in breve tutela la responsabilità patrimoniale di cui all'art. 2740 c.c., che si conferma sin da subito non subire in subiecta materia deroga alcuna.

Troppo variegato l'interesse concreto e specifico di ciascun singolo creditore; così come troppo variegato è l'interesse dei singoli soci di una società, tanto da aver indotto anche lì gli interpreti a discutere di “interesse sociale” come interesse alla massimizzazione del valore del patrimonio sociale; il “miglior soddisfacimento dei creditori” mutatis mutandis corrisponde alla massimizzazione dell'attivo concretamente disponibile per il loro trattamento (l'importanza di individuare un interesse “comune” ai creditori è enfatizzata adesso da Cass., Sez. Un., 28 giugno 2018, n. 17186).

Il diritto non può arbitrare nei conflitti fra singoli creditori, se non, indirettamente, con riferimento alla “correttezza” del loro classamento; si tratta in sostanza di una questione rimessa alla loro contrattazione; ed ancora, proprio con l'accertamento che l'attivo messo a disposizione è “il migliore”, si prevengono in realtà fenomeni caratterizzati da conflitto di interessi e da collusioni fra singoli creditori e debitore; così come nel diritto societario l'accertamento che un'operazione non è conforme allo “interesse sociale”, inteso come massimizzazione del valore del patrimonio sociale, è spesso sostitutivo dell'accertamento concreto del conflitto di interessi, quando non dello “abuso” della maggioranza sulla minoranza.

Si tratta in sostanza di una buona proxy, che semplifica un giudizio altrimenti quasi impossibile, a causa della “frantumazione” delle forme di manifestazione dell'interesse individuale.

Che il diritto concorsuale autorizzi negoziazioni fra creditori e debitore “orizzontali”, aventi ad oggetto la distribuzione delle risorse, dopo che la crisi si è manifestata, non implica tuttavia necessariamente che sia possibile anche una negoziazione ex ante, in fase di contrazione dell'obbligazione, ove ad es. il creditore accetti di assoggettarsi prospetticamente ad un concorso “diseguale”: possono infatti enuclearsi in questi casi fenomeni di hold up e di asimmetria informativa, che sconsigliano di considerare “efficiente” una tale contrattazione (il punto tuttavia non può qui essere approfondito).

E quale il tertium comparationis? Immediato è il riferimento alla soluzione fallimentare, che del resto è suggerito anche da esempi comparatistici (il termine di raffronto del best interest od creditors test nel Chapter 11 infatti è solo ed esplicitamente la liquidation di cui al Chapter 7 del Bankrupty Code). Ma subito dopo ci si avvede che il diritto interno presenta una ricchezza di prospettive superiore: il giudizio “cugino” di cram down (diversa soluzione sembra però accolta ora nel Codice della Crisi: v. infra) infatti focalizza esplicitamente non già il solo fallimento, ma tutte le “alternative concretamente praticabili” (art. 180 l.fall.).

Procediamo gradualmente.

Il fallimento è sicuramente l'opzione da privilegiare ai fini della comparazione, anche perché assicura anche agli organi della procedura una migliore capacità prospettiva, grazie alle esperienze empiriche già ampiamente disponibili.

Il giudizio attiene sicuramente non solo all'esito prevedibile di una vendita degli assets del debitore in modo atomistico, previa disgregazione del complesso aziendale, ma anche, e diremmo soprattutto, a tutte le soluzioni liquidative offerte dopo la Riforma del 2005- 2006 dagli artt. 104 ss. l.fall., ove è dettata una esplicita opzione che porta a privilegiare la cessione “aggregata” o “in blocco”, se non vi sono controindicazioni, e questo, guardacaso, giust'appunto nell'ottica della “maggiore soddisfazione dei creditori” (art. 105 l.fall.).

Fra tali soluzioni vi è anche quella dell'esercizio provvisorio (art. 104 l.fall.), che ha uno spettro applicativo più ampio del concordato (è possibile anche a tutela di interessi non creditori, purché ciò non arrechi danno alla Massa, dunque anche in condizioni di “equivalenza” dell'interesse di questa).

Si è detto di recente che la considerazione della “possibilità” insita nell'esercizio provvisorio non potrebbe essere compendiata all'interno del giudizio sul “miglior soddisfacimento” ex art. 186bis l.f. (cfr. invece Ambrosini, Concordato preventivo con continuità aziendale: problemi aperti in tema di perimetro applicativo e di miglior soddisfacimento dei creditori, in Il caso, 25 aprile 2018, p. 12. In senso però conf. a quanto sostenuto nel testo, in subiecta parte, v. Ant. Rossi, op. cit., 644; in giurisprudenza, esplicitamente, Trib. Alessandria, 22 marzo 2016, in Il caso), ma la conclusione non appare fondata sul dato positivo.

Poco rileva al riguardo il fatto che le decisioni riguardo all'esercizio provvisorio siano meramente “eventuali”, e rimesse a valutazioni degli organi di una differente procedura, fra cui il comitato dei creditori: la Legge richiede che si effettui una comparazione fra una prospettiva “concreta”, il piano concordatario con continuità presentato, ed una solo eventuale, per definizione “astratta”.

Non occorrono “facoltà divinatorie” per intercettare in via di ipotesi quello che sarebbe il prodotto di uno scenario fallimentare prevedibile in concreto, e non già solo in astratto; le basi storiche empiriche non mancano di certo, per formulare una previsione razionale, fondata sulla proiezione di uno “scenario” alternativo, conforme a massime di esperienza “razionali”.

Altrimenti, se cioè questo giudizio non fosse ritenuto possibile né “esigibile”, sarebbe come dire che normalmente le decisioni degli organi fallimentari, non solo quelle relative all'esercizio provvisorio, sono formulate “ad capocchiam”, sì da non poter essere razionalmente “prevedibili”.

Non si dispone normalmente un esercizio provvisorio senza che sia disponibile un piano prospettico di cassa, un conto economico previsionale, e perché no a volte persino un piano industriale, da “vendere” ai potenziali interessati insieme con l'azienda in esercizio. E non si vede perché ciò non debba essere possibile anche nella fase di ammissione di un concordato, dopo che si è redatto appunto un documento analogo, evidentemente disponendo di tutti i dati necessari, ai fini della procedura.

E questo anche grazie al possibile apporto valutativo di un organo commissariale che nella maggior parte dei casi avrà monitorato l'azienda per diversi mesi, durante la fase “con riserva”.

E tutta l'elaborazione tecnico- aziendale sulla redazione dei piani strategici insegna come sia possibile proiettare scenari alternativi sì “virtuali”, ma anche “ragionevoli”, fondati sulla ipotesi della verificazione o non verificazione di determinate “assunzioni”, ciò che costituisce non il prodotto di una scienza occulta, ma anzi il modo considerato più razionale di affrontare il rischio della c.d. imprevisione.

D'altro canto, nemmeno basterà ipotizzare circa le possibilità che sia disposto l'esercizio provvisorio: il giudizio circa il “miglior soddisfacimento” dovrà implementare un vero e proprio “scenario di riparto fallimentare”, dal quale nessuno si aspetterà una capacità predittiva assoluta, ma che orienterà comunque la decisione del Tribunale.

Scenario di riparto che dovrà necessariamente implementare anche la previsione circa i risultati di eventuali azioni giudiziali esperibili solo sul piano fallimentare, come revocatorie, azioni di responsabilità, di inopponibilità alla Massa, etc. (in tal senso cfr. per tutti Trib. Alessandria, 25 novembre 2016, Borsalino “1”, in Fallimenti e Società, quanto ai concordati con continuità; e Trib. Milano, 10 novembre 2016, Imm. Redecesio, con riferimento ai concordati liquidatori. Più di recente in senso conf., nella giurisprudenza di legittimità, v. anche Cass., 4 maggio 2018, n. 10752; Id., 26 giugno 2018, n. 16856). Azioni queste i cui presupposti di fatto l'attestatore dovrà scrutinare con lo stesso livello di attenzione con la quale egli deve vagliare la fattibilità e la veridicità dei dati aziendali, nonostante qualsiasi obbligo successivo di controllo da parte del Commissario giudiziale, posto che il Commissario deve redigere anche l'inventario, ma questo non è stato mai assunto come un motivo per esentare l'attestatore od il debitore da una puntuale analisi delle attività e passività aziendali …

Risultati prevedibili di una liquidazione fallimentare che si dovrà dimostrare positivamente essere sub-valente rispetto alla continuità, per legittimare quest'ultima.

Se ancora residuassero dei dubbi in ordine alla “esigibilità” concreta di tali adempimenti, si rifletta solo sul fatto che, chissà come mai, nell'amministrazione straordinaria, in fase di osservazione, al Commissario giudiziale sono dati dall'art. 28 d. lgs. n. 270/1999 solo trenta giorni, trenta, non centoventi prorogabili a centottanta, spesso “arricchiti” anche degli ulteriori trenta di sospensione feriale, al fine di redigere una relazione in ordine alla possibilità concrete per una grande impresa di recuperare l'equilibrio economico.

E si confronti poi tale quadro di adempimenti con quanto la S.C. ritiene doveroso in ordine alla redazione della relazione ex art. 160, comma 2, l.fall., che consente la falcidia dei creditori privilegiati: “il Tribunale ha il dovere di verificare la completezza e l'affidabilità della documentazione depositata a sostegno della domanda allo scopo di assicurare ai creditori la puntuale conoscenza della effettiva consistenza dell'attivo destinato al loro soddisfacimento e, quindi, di consentirgli di esprimere, in modo informato il proprio consenso sulla convenienza economica della proposta medesima … la relazione del professionista era manifestamente inadeguata rispetto alla verifica del requisito di cui alla L. Fall., art. 160, comma 2 … La stessa era priva di ogni valutazione in ordine alla possibilità di esperire eventuali azioni risarcitorie o revocatorie, risultando così totalmente ignorata una parte del possibile attivo ricavabile in sede di liquidazione. Tale motivazione è dunque strettamente inerente non già ad una valutazione di convenienza della proposta di concordato ma alla adeguatezza delle informazioni fornite dai creditori al fine di consentire loro di decidere con cognizione di causa quale posizione assumere nei confronti della proposta. E' dunque evidente che l'indicazione di dati incompleti o parziali, che potrebbero indurre a ritenere l'inesistenza di alternative o di migliori possibilità di realizzo, sono sostanzialmente contrari alla ratio legis e danno luogo pertanto ad una violazione dei presupposti giuridici della procedura e risulta quindi sindacabile dal Giudice” (Cass., 13 marzo 2015, n. 5107).

Eppure, ancora non basta.

Si è detto che un tertium comparationis limitato all'alternativa fallimentare suona asfittico, per motivi tanto letterali quanto sistematici.

Limita in realtà il fuoco del giudizio all'alternativa fallimentare Trib. Alessandria, 22 marzo 2016, in Il caso; sembrerebbe invece non restringere il campo al fallimento, ma coinvolgendo in astratto tutte le soluzioni imperniate sulla continuità “indiretta”, Trib. Napoli, 13 giugno 2018, caso “Bottiglieri”; più di recente, nel senso di formulare una comparazione approfondita con l'alternativa costituita dall'amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi, v. Trib. Roma, 27 luglio 2018, caso “ATAC” (in realtà sembra però difficile che il confronto con tale ultima procedura possa portare alla luce una sua “prevalenza” rispetto a qualsiasi forma concordataria, attesa la scarsa considerazione in generale dell'interesse del ceto creditorio, e la statistica dei pessimi (nulli) recuperi “assicurati” ai creditori concorsuali, ove spesso nella prassi applicativa si giunge a “graduare” le prededuzioni).

Da un lato l'ordinamento, nel caso affine del cram down, estende il campo della valutazione a tutte le alternative “concretamente praticabili”; dall'altro il Legislatore pone con il requisito del “miglior soddisfacimento” un limite normativo all'impiego del concordato con continuità: esso è praticabile soltanto quando la prosecuzione dell'attività corrisponde ad un vantaggio per i creditori; ma perché limitare il campo delle alternative a quella fallimentare?

Vi sono casi in cui il fallimento non può corrispondere al best interest of creditors, ad es. a causa di limiti normativi specifici: ad es. circa il certo (per i bandi pubblicati prima del 2016) o probabile scioglimento dei contratti stipulati con pubbliche amministrazioni (in materia cfr. Trib. Bolzano, 9 gennaio 2018, in Il caso), che deprime in modo determinante il valore degli assets di cui il debitore è titolare.

L'alternativa concordataria da comparare può essere costituita da un concordato liquidatorio, con disgregazione degli assets, ma a prescindere dal fatto che in tali situazioni è molto probabile che anche tale soluzione risulti disfunzionale, in tali casi la “concretezza” dell'ipotesi spesso sfumerebbe, attesa l'impossibilità di assicurare un soddisfacimento pari al minimo legale (20%). Se l'alternativa concordataria non è ammissibile, essa ovviamente non costituisce un idoneo tertium comparationis.

Ma quid iuris rispetto all'alternativa costituita da una vendita in blocco dell'azienda, sempre in regime di concordato, attraverso gli strumenti costituiti dagli artt. 163-bis o 182 l.fall.? Id est, nella prospettiva di un concordato con continuità “indiretta”?

A mio avviso occorrerebbe dimostrare positivamente perché tale confronto non sia doveroso. Ma i tentativi di approdare a tale esito ermeneutico sembrano tutti scontare un irrimediabile apriorismo di fondo.

A nulla vale obiettare, ad es., che ciò non sarebbe consentito, atteso che la scelta concordataria spetterebbe solo al debitore: l'unica esclusiva che riguarda il debitore riguarda proprio la scelta se esperire o meno il concordato, laddove l'art. 186bis l.f. pone appunto e proprio un limite, di rango imperativo, alla libertà di scelta del debitore concordatario, limite in ordine al contenuto del piano concretamente proposto ai creditori (si v. adesso Cass., n. 29742/2018, che sottolinea la portata “imperativa” della norma, privilegiandola rispetto al potere di “scelta” del debitore). Quando dunque il debitore ha adottato quella facoltà, esercitando la propria facoltà di ingresso in procedura, il contenuto concreto delle proprie scelte regolatorie della crisi non può che incontrare i limiti che la Legge stabilisce: se esiste un'alternativa concordataria più favorevole ai creditori, od al limite anche equivalente, il piano con continuità diretta da lui proposto non è ammissibile.

D'altro canto dopo aver esercitato quella scelta il debitore non è certo più arbitro assoluto della situazione: la Legge riconosce a terzi qualificati la facoltà di presentare proposte concorrenti, ciò che dimostra la cessazione del regime di “signoria” del debitore sull'andamento della procedura. Ed anche l'ipotesi per cui il debitore possa continuare a disporre del procedimento, pur dopo la presentazione di una proposta concorrente, rinunziando alla domanda, pare a chi scrive del tutto impraticabile (ma il punto è oggetto di discussioni, e non può qua essere ulteriormente indagato).

L'alternativa della continuità “indiretta” pertanto non sarà mai più “virtuale” dell'ipotesi fallimentare: si tratta comunque di proiettare uno scenario alternativo, da indagare in quanto possa corrispondere ad un maggior soddisfacimento dei creditori; ove ciò avvenisse, si renderebbe inammissibile il piano con continuità diretta: se poi il debitore ritenesse di modificare il piano, adattandolo a tale scenario alternativo, oppure di subire piuttosto la declaratoria di inammissibilità, e se del caso il fallimento, ciò costituirebbe stavolta sì una scelta che rientra nelle sue facoltà, senza che nessuno gli abbia imposto positivamente alcunché.

La Legge non impone insomma che comunque il creditore riceva il trattamento che meglio corrisponde al suo “miglior interesse” (su ciò v. anche infra); tant'è vero che è ammissibile un piano concordatario liquidatorio (o persino con continuità “indiretta”) ove siano pure concretamente prospettabili alternative più vantaggiose, di ordine fallimentare o anche concordatario, purché i creditori siano resi perfettamente edotti di ciò; saranno poi loro a scegliere se dare seguito alla proposta (apertamente subottimale) del debitore, oppure no.

L'ordinamento condiziona solo l'attuazione del piano concordatario con continuità diretta alla dimostrazione della sua prevalenza sulle altre soluzioni possibili.

Tale conclusione esegetica appare imposta anche dalle già cennate linee di tendenza che governano il diritto comunitario, ove la Proposta di Direttiva del 2016 impone appunto di condizionare “la prova dell'interesse superiore dei creditori” all'accertamento che nessun creditore esca svantaggiato dalla ristrutturazione rispetto alla variante “liquidazione”, intesa come “una liquidazione per settori o una vendita dell'impresa in regime di continuità aziendale”, senza operare alcuna distinzione fra procedura liquidatoria o “conservativa”. Non mi sembra pertanto di poter condividere l'opinione (di Panzani, Conservazione dell'impresa, interesse pubblico e tutela dei creditori: considerazioni a margine della proposta di direttiva in tema di armonizzazione delle procedure di ristrutturazione, in Il caso, 2017), per cui la Proposta di Direttiva ometterebbe di prendere in considerazione le ipotesi di vendita dell'azienda in regime di continuità, che costituiscono per noi la maggioranza delle soluzioni concordatarie. Stupisce invece che il Codice della crisi e dell'insolvenza, probabilmente a causa di un difetto di coordinamento, non sembri imporre che la valutazione giudiziale corrispondente nel cram down sia fatta con riferimento anche alla variante con continuità “indiretta”, ma solo a quella fallimentare (rectius della liquidazione giudiziale); peraltro non sembra che tale elemento, che attiene ad un istituto specifico attivabile ex post, possa influire in modo determinante sulla ricostruzione dei presupposti di ammissibilità, da valutarsi ex ante.

In sostanza l'attestatore, in tali concordati, e prima ancora il debitore, dovrà sempre porsi il problema della valutazione dell'azienda ai fini del suo collocamento sul mercato con gli strumenti di cui agli artt. 163-bis- 182 l.fall., comparando sempre i risultati per i creditori dello scenario concordatario adottato con quello “alternativo” (conf. Trib. Firenze, 2 novembre 2016, in Il caso, sia pur nel contesto di un quadro ricostruttivo non sempre condivisibile: v. anche infra).

Se fossero già state ricevute proposte vincolanti di acquisto dell'azienda, tale valutazione sarà più agevole, ma in ogni caso non può dirsi che sia preclusa all'esperto (come al Tribunale) la comparazione con lo scenario alternativo, fondato sui dati disponibili, in primis la valutazione “professionale” del compendio aziendale, che l'attestatore dovrà comunque eseguire, se dispone delle competenze, oppure acquisire.

Il confronto è d'altro canto agevolato dal fatto che, come si è già visto, è l'attivo concretamente e complessivamente disponibile per i creditori a dover essere messo a raffronto con quello della soluzione esplicitamente adottata dal debitore, sicché le molteplici varianti che la proposta potrebbe assumere per i creditori negli scenari alternativi, in forza delle scelte connesse all'eventuale classamento, altamente discrezionali e quindi poco sindacabili, non entrano in gioco in questo momento.

(segue) Il miglior soddisfacimento dei creditori: criterio selettivo o “principio generale”?

La giurisprudenza ha peraltro manifestato, con riferimento al requisito del “miglior soddisfacimento dei creditori”, la tendenza ad enfatizzarne la funzione, elevandolo a criterio generale della legittimità delle azioni che governano il concordato preventivo.

Ciò nell'ambito di una serie di pronunzie che hanno negato la possibilità di revocare l'ammissione del concordato qualora siano stati posti in essere atti non autorizzati con le forme di cui all'art. 167 l.fall., se comunque consti che ciò sia appunto coinciso con il soddisfacimento di tali interessi (Cass., 19 febbraio 2016, n. 3324, e Cass., 11 aprile 2016, n. 7066, di recente riprese da Cass., 16 maggio 2018, n. 11958, dopo che analoghi orientamenti erano stati proposti nell'ambito della giurisprudenza veneziana: in dottrina v. ad es. Patti, Il miglior soddisfacimento dei creditori: una clausola generale per il concordato preventivo?, in Fallimento, 2013, 1099 ss. Giunge adesso a teorizzare la sostituzione del concetto di par condicio creditorum con quello di “miglior soddisfacimento”, ai fini di mettere a fuoco il nocciolo essenziale della “concorsualità”, Cass., 12 aprile 2018, n. 9087)

Non ha importanza qua (e del resto lo si è già fatto in altra sede) evidenziare come la soluzione applicativa comporti un potenziale svuotamento del concetto di “concorso” e del sistema dei controlli, di fatto legittimando ogni violazione di legge, purché non percepibilmente ed attualmente “dannosa” per i creditori.

Importa invece valutare la portata sistematica della riflessione, e la sua indole naturalmente “suggestiva”, che la colloca immediatamente nel contesto delle scelte ermeneutiche che più sopra si sottoponevano a critica.

Peraltro la supposta “generalità” del criterio, se esso sia attinto integralmente dal significato che esso assume nell'art. 186bis l.f., cade senza bisogno di troppi spintoni: come si diceva poc'anzi non è possibile affermare che un concordato liquidatorio, a fronte del quale sia dimostrabile la possibilità concreta di un'alternativa (fallimentare o meno) prevalente per i creditori, sia inammissibile (conf. Ant. Rossi, op. cit., 646): semplicemente la proposta sarà sottoposta al giudizio dei creditori, i quali potranno valutarne la convenienza; qualora poi i legittimati esperiscano il cram down, sarà possibile anche il controllo giudiziario, ma soltanto ex post, e non mai ex ante.

E questo perché la conformità della proposta al miglior interesse dei creditori non è un requisito di ammissibilità generale del concordato, ma solo del concordato con continuità.

E' chiaro che, se stessimo davvero parlando di un principio generale dei concordati, esso dovrebbe ragionevolmente condizionare sempre l'accesso alla procedura, e legittimare il controllo anche officioso da parte del Giudice.

Non è pertanto possibile elevare tale requisito a criterio generale ispiratore della legittimità nei concordati, poiché questo non è vero.

Qualora poi si volesse intendere tale elemento come semplice parametro di giudizio concernente la conformità del concordato all'interesse della Massa, ossia come equivalente del concetto di “interesse superiore dei creditori”, impiegato ad es. dalla Proposta di Direttiva, allora la rilevanza sistematica dello stesso potrebbe anche scemare: non vi è dubbio che le norme possano e debbano essere interpretate nella direzione in cui convergono per tutelare la Massa, ma con questo non si è detto alcunché di veramente utile.

Men che meno il “miglior soddisfacimento” può essere utilizzato come grimaldello interpretativo utile per superare ostacoli costituiti da norme imperative di legge (v. infra): certo il Legislatore è libero di avvalersi di tale strumento per consentire azioni concordatarie che normalmente esporrebbero la Massa a rilevanti pericoli, e che dunque sarebbero altrimenti impedite dall'esistenza di veri e propri poteri di “veto” dei singoli creditori; ciò è accaduto appunto con l'art. 186-bis l.fall. (ed i suoi ammennicoli, come l'art. 182-quinquies l.fall.). E nella stessa logica il Codice della crisi fa impiego di tale elemento normativo per condizionare operazioni funzionali alla ristrutturazione intragruppo, che potrebbero modificare le prospettive di riparto dei creditori delle singole società (artt. 284- 285).

Che poi lo stesso ordinamento possa percepire il raggiungimento di tale stato come “obbiettivo generale delle procedure” dice forse poco dal punto di vista della disciplina, se non esplicitando quella che è la finalità di fondo e tendenziale dell'apparato normativo (e v. in tal senso già Vattermoli, Concordato con continuità aziendale, absolute priority rule e new value exception, in Riv. dir. comm., 2014, 331 ss.); questa è la finalità del Legislatore, ma ciò non implica anche che ogni norma debba essere attributaria di tale specifica funzione, sicché vada interpretata comunque in questa prospettiva, perché la coerenza di fondo del sistema è assicurata prima dal Legislatore che dall'interprete; altrimenti un concordato non conveniente per i creditori non dovrebbe essere ammesso, e il potere di esperire il cram down dovrebbe essere officioso, o comunque non condizionato dal possesso di un'aliquota particolare del passivo chirografario (così come in effetti la Proposta di Direttiva sembrerebbe presupporre).

(continua)

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