Separata valutazione e liquidazione della “sofferenza interiore”: ritorno al passato? E la nomofilachia? Un'utopia necessaria

Paolo Mariotti
Raffaella Caminiti
05 Marzo 2019

Con la locuzione “danno morale” si intendono quei pregiudizi di carattere non patrimoniale, rappresentati dalla sofferenza interiore e consistenti (operando una necessaria sintesi) in turbamento dell'animo. Si tratta di una voce di danno rientrante nella categoria giuridica, unitaria e omnicomprensiva, del danno non patrimoniale, avente – al pari delle altre voci – mera valenza descrittiva. Anche dopo l'intervento delle Sezioni Unite nel 2008 il dibattito sui parametri di valutazione e sui criteri di liquidazione di tale danno, in particolare quando conseguente a fatto illecito lesivo della salute della vittima, è tutt'altro che sopito, come dimostrano alcune recenti pronunce della Sezione terza civile della Cassazione.
I perduranti contrasti su valutazione e liquidazione della “sofferenza interiore”

Secondo principio condiviso da giurisprudenza e dottrina dopo le c.d. “sentenze di San Martino” (Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008 nn. 26972-26973-26974-26975), costituisce duplicazione risarcitoria l'attribuzione congiunta del danno biologico - inteso come danno che esplica incidenza sulla vita quotidiana del soggetto e sulle sue attività dinamico relazionali - e del c.d. “danno esistenziale”.

Con sentenza 17 gennaio 2018, n. 901 la Sezione III civile della Corte di cassazione ha riaffermato che la locuzione “danno esistenziale” va correttamente intesa come “danno dinamico-relazionale”, poiché esso “consiste proprio nel “vulnus” arrecato a tutti gli aspetti dinamico-relazionali della persona conseguenti alla lesione della salute”.

E in effetti, con il “danno dinamico-relazionale” si individuano pregiudizi di cui è già espressione il grado di invalidità permanente risultante dell'applicazione dei barémes medico legali (quali i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali), indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale.

Vi è poi una sofferenza interiore, da non confondere con la sofferenza fisica (anch'essa componente intrinseca del danno biologico e ricompresa nella percentuale di invalidità permanente) che, pur traendo origine dalla lesione, non ha base organica (si parla, in medicina, di dolore non avente base nocicettiva).

È, del resto, evidente che il danno da lesione della salute consiste non solo nella menomazione dell'integrità psico-fisica in sé e per sé considerata: oltre al dolore fisico conseguente ai postumi permanenti e alle cure necessarie, può coesistere una percezione di degrado, vergogna, disagio o soggezione a mostrarsi in pubblico, o ancora di disistima di sé avvertita dal soggetto leso, con cui quest'ultimo è costretto a vivere.

Deve trattarsi, chiaramente, di una sofferenza che non sfocia in una condizione patologica, configurandosi in caso contrario un danno di natura biologica.

La già citata sentenza n. 901/2018 ha affermato che «una differente ed autonoma valutazione deve essere compiuta, …, con riferimento alla sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute (c.d. danno morale), come confermato dalla nuova formulazione dell'art. 138, comma 2, lettera e) del d.lg. n. 209 del 2005 , nel testo modificato dalla l. n. 124 del 2017».

Tale impostazione ermeneutica è stata ribadita con ordinanza n. 27 marzo 2018, n. 7513, ribattezzata il “decalogo” della Cassazione, con cui la Sezione terza civile - dopo aver affermato al punto 8 che non costituisce «duplicazione la congiunta attribuzione del “danno biologico” e di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado di percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell'animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione)» - così conclude al punto 9: «Ove sia correttamente dedotta ed adeguatamente provata l'esistenza d'uno di tali pregiudizi non aventi base medico-legale, essi dovranno formare oggetto di separata valutazione e liquidazione».

Come già affermato nella sentenza n. 901/2018, secondo l'ordinanza ciò troverebbe supporto nel testo novellato degli artt. 138 e 139 cod. ass., «nella parte in cui, sotto l'unitaria definizione di ‘danno non patrimoniale', distinguono il danno dinamico relazionale causato dalle lesioni da quello ‘morale'».

Sempre la Sezione III civile, con successiva sentenza del 20 agosto 2018, n. 20795, ha confermato tale orientamento, ribadendo che, come confermato dal novellato art. 138, comma 2, lettera e) cod. ass., «una differente ed autonoma valutazione deve essere compiuta con riferimento alla sofferenza interiore patita dal soggetto, posto che la fenomenologia del pregiudizio non patrimoniale comprende tanto l'aspetto interiore del danno sofferto (danno morale sub specie di dolore, vergogna, disistima di sé, paura, disperazione), quanto quello dinamico-relazionale, coincidente con la modificazione peggiorativa delle relazioni di vita esterne del soggetto».

La necessità di una valutazione e liquidazione separata troverebbe dunque conferma, implicitamente, in indici normativi, quale il novellato art. 138, comma 2, lettera e) cod. ass. , ove vien fatto espresso riferimento al “danno morale”; da qui la conclusione che, come riconosciuto dal legislatore, nel danno da invalidità permanente non è compresa la “sofferenza interiore”: il pregiudizio “fisico” e quello “morale” non coincidono, pur avendo entrambi natura non patrimoniale.

Tale interpretazione del testo normativo non convince.

Se è pur vero che il legislatore, con il nuovo art. 138 cod. ass., ha espressamente indicato il “danno morale” quale componente dell'omnicomprensivo danno non patrimoniale, unitamente al danno biologico, per elaborare la curva del risarcimento standard, non pare tuttavia che tale richiamo possa, di per sé, suffragare la necessità di una valutazione e liquidazione separata della componente sofferenziale del danno alla salute.

Invero, poiché il “danno morale”, nell'elaboranda tabella unica nazionale, è già ricompreso nel punto-base, esso non è indicato come elemento autonomamente rilevante ai fini della c.d. “personalizzazione” fino al 30%. Per l'aumento personalizzato possono venire in rilievo, invece, “specifici aspetti dinamico-relazionali personali documentati e obiettivamente accertati”.

Detto altrimenti, il punto della tabella unica nazionale include già in sé la componente sofferenziale, residuando uno spazio, ai fini dell'eventuale “personalizzazione”, esclusivamente con riguardo ai richiamati “specifici aspetti dinamico-relazionali”.

Ciò non comporta che la sofferenza “morale” dia luogo ad un elemento separatamente liquidabile.

È lampante il riferimento del legislatore alle tabelle predisposte dall'Osservatorio sulla Giustizia civile di Milano, concepite e strutturate proprio in funzione del nuovo inquadramento concettuale unitario del danno non patrimoniale di cui alle “sentenze di San Martino”, stante la natura composita del danno alla salute, nella cui liquidazione occorre tener conto di tutti i pregiudizi derivanti dalla lesione.

Esse consentono, notoriamente, la liquidazione congiunta del danno non patrimoniale conseguente alla lesione permanente dell'integrità psico-fisica suscettibile di accertamento medico-legale e, al contempo, del danno non patrimoniale conseguente alla medesima lesione in termini di “dolore” o di “sofferenza soggettiva”, in via di presunzione con riferimento a un determinato tipo di lesione biologica, vale a dire la liquidazione congiunta dei pregiudizi in passato risarciti a titolo di “danno biologico standard” e di “danno morale”, oltre alla “personalizzazione” del danno biologico.

Il sistema a punto variabile è stato, dunque, elaborato per risarcire tutto ciò che ordinariamente consegue a una determinata lesione, ivi compresi, tipicamente, il “danno morale” (quindi la componente sofferenziale) e il “danno alla vita di relazione”, da intendersi come la congerie di riflessi negativi che il pregiudizio organico ha sulle attività quotidiane della persona (ludiche, sportive, sociali e così via).

Come più volte chiarito dalla Cassazione, il “danno biologico”, il “danno morale” e il “danno alla vita di relazione” rispondono a prospettive diverse di valutazione del medesimo evento lesivo, in quanto quest'ultimo può causare, nella persona della vittima come in quella dei suoi familiari, un danno alla salute medicalmente accertabile, un dolore interiore e un'alterazione della vita quotidiana, dovendo il giudice tener conto dei diversi aspetti della fattispecie dannosa, evitando duplicazioni risarcitorie, ma anche “vuoti” risarcitori (tra le tante, con sentenza 22 agosto 2013, n. 19402).

Poiché, dunque, la componente sofferenziale (per così dire standard) è già ricompresa nell'importo base delle tabelle milanesi (così come lo sarà nell'emananda tabella normativa di cui all'art. 138 cod. ass.), non pare condivisibile che tale componente, allorché “correttamente dedotta ed adeguatamente provata”, vada valutata e liquidata separatamente.

La Suprema Corte ha riconosciuto dal 2011 (sent. 7 giugno 2011, n. 12408) le tabelle milanesi quale riferimento unico nazionale, le quali sono state elevate a parametro para-normativo, proprio perché recanti i parametri maggiormente idonei a consentire di tradurre il concetto dell'equità valutativa, e ad evitare o, quantomeno, arginare ingiustificate disparità di trattamento.

Pur essendo un sistema convenzionale, il sistema tabellare ha l'indiscutibile pregio di uniformare la liquidazione del danno non patrimoniale, cosicché a pregiudizi di analoga portata corrispondano risarcimenti equivalenti, presupposto indispensabile per il rispetto dei principi di uguaglianza e di prevedibilità delle decisioni.

Certo, la sofferenza interiore costituisce componente del danno non patrimoniale alla salute e influisce, come tale, sull'accertamento e sulla liquidazione di tale danno, anche nell'ottica di un'eventuale “personalizzazione”, laddove di intensità superiore a quella connaturata a menomazione di analoga portata.

Non è sempre detto, infatti, che la sofferenza interiore, nel singolo caso concreto, possa ritenersi già ricompresa nel calcolo tabellare.

Di una sofferenza affatto peculiare e ulteriore, connessa a una determinata lesione biologica, il giudice di merito dovrà, quindi, tenere conto ai fini della liquidazione (congiunta) del danno non patrimoniale.

Vi è, dunque, la possibilità di aumentare quanto liquidabile a titolo di danno non patrimoniale, laddove le conseguenze dannose derivanti dalle lesione biologica, in termini di maggiore sofferenza, siano oggetto di idonea allegazione e di rigorosa prova da parte del richiedente.

Non può, comunque, prescindersi dalla specifica allegazione da parte del soggetto leso e dall'adempimento dell'onus probandi (anche con ricorso alle presunzioni, prove testimoniali, etc.).

Va da sé che per poter adeguatamente valutare e liquidare una sofferenza superiore a quella media (che non si traduca in vera e propria psicopatologia), occorre, anzitutto, accordarsi su cosa debba intendersi per “sofferenza media”.

Con necessaria approssimazione, può definirsi tale quella componente sofferenziale che è comunemente e indefettibilmente patita da qualunque persona con riferimento a un determinato tipo di lesione, atteso che qualsiasi lesione fisica cagiona di per sé dolore e sofferenza, sicché dalla stessa derivano, anche sotto questo specifico profilo, conseguenze che è possibile definire “ordinarie” in rapporto a quel tipo di lesione.

Nomofilachia e precedenti

Nella disamina delle pronunce della Sezione terza civile della Corte di cassazione non si può non considerare l'istituto della nomofilachia, quale strumento essenziale del diritto che consente la calcolabilità delle decisioni giudiziali.

Certo, quando si parla di nomofilachia, non si deve pensare a questo istituto nelle forme quasi “matematiche” delineate dal legislatore del 1941 che, all'art. 65 della legge sull'ordinamento giudiziario (r.d. 30 gennaio 1941 n. 12), aveva affermato che «la Corte di Cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto delle diverse giurisdizioni».

Come ben evidenziato da qualificata dottrina (Canzio), una nomofilachia statica, diretta ad elaborare precedenti fissi e immutabili, trattando il giudice come una sorta di automa, non ha più alcun senso nell'ordinamento attuale caratterizzato da una molteplicità di fonti ma, certamente, è necessaria una nomofilachia dinamica legata, però, a regole che consentano una tendenziale prevedibilità delle sentenze.

Ebbene, queste regole fanno già parte della grammatica del legislatore poiché quest'ultimo, a partire dal 2006, con alcune riforme al codice di procedura civile ha rafforzato l'istituto in questione e la funzione nomofilattica della Corte di cassazione.

Ecco tre esempi:

  • l'art. 348-bis c.p.c. , il quale prevede l'inammissibilità dell'appello quando esso non ha una ragionevole probabilità di essere accolto;
  • l'art. 360-bis c.p.c. , il quale prevede l'inammissibilità del ricorso per cassazione quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l'esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l'orientamento della stessa;
  • l'art. 374, comma 3 c.p.c. , il quale stabilisce che se una Sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso.

Esiste, in buona sostanza, un apparato normativo articolato, avente lo scopo di valorizzare il precedente e la nomofilachia per cercare di assicurare una tendenziale certezza al diritto ed evitare una sua deriva verso l'instabilità e una “Babele interpretativa” (per quanto qui maggiormente interessa, una “Babele risarcitoria”).

Come già rilevato, le Sezioni semplici della Corte di cassazione devono formalizzare il proprio dissenso rispetto ai principi enunciati dalle Sezioni Unite, chiedendo alle stesse di pronunciarsi nuovamente sul tema.

Non vi è solo il già citato art. 374, comma 3 c.p.c. per quanto riguarda la Corte di cassazione, ma vi sono analoghe regole nei rapporti tra la Sezione semplice della Corte dei Conti e le Sezioni Riunite (art. 42, comma 2 l. n. 69/2009 ) nonché nei rapporti tra la Sezione semplice della Corte di cassazione penale e le Sezioni Unite (art. 618 c.p.p. ).

In definitiva, per rafforzare l'istituto della nomofilachia, il precedente autorevole e, conseguentemente, la certezza del diritto, il legislatore ha stabilito dei vincoli per le Sezioni semplici, prevedendo la rimessione della questione alle Sezioni Unite, alla luce dei diversi indirizzi ermeneutici registratisi nella giurisprudenza, così sollecitando una rivisitazione dei principi già espressi.

Se vi sono ragioni migliori per modificare lo statuto del danno non patrimoniale così come elaborato dalle Sezioni Unite nel 2008, dovranno essere sempre queste ultime a deciderlo. Sino ad allora i giudici di merito, nella valutazione e liquidazione del danno non patrimoniale da lesione della salute, dovranno applicare i principi enunciati dalle “sentenze di San Martino”.

Autorevole dottrina ha rilevato che le regole imposte dal legislatore per rafforzare lo strumento della nomofilachia hanno contribuito a introdurre nel nostro ordinamento un modello se pur limitato di “stare decisis”, analogamente a quanto accade nei Paesi di common law (Canzio, Nuzzo).

Lo scopo del legislatore è chiaro: di fronte all'incalcolabilità del diritto, è necessario creare degli strumenti metodologici per renderne l'interpretazione più certa, ricostruendo un minimo di stabilità e uniformità o, per dirla alla Taruffo, parziali “isole di ordine”.

Se non si seguono queste regole metodologiche, il rischio è il caos interpretativo.

Il pericolo più elevato, è stato autorevolmente evidenziato (SPERA, Time out: il "decalogo" della Cassazione sul danno non patrimoniale e i recenti arresti della Medicina legale minano le sentenze di San Martino, in Ridare.it), è quello di duplicare il risarcimento del medesimo pregiudizio, riposizionando di fatto le lancette dell'orologio a dieci anni fa, ante Sezioni Unite di San Martino.

In conclusione

Nella giurisprudenza, di merito e di legittimità, successiva agli arresti delle Sezioni Unite del 2008. sembrano coesistere, di fatto, due anime: l'una che ritiene che la “sofferenza interiore” (o, se si preferisce, il “danno morale” tradizionalmente definito) conseguente a una lesione della salute debba essere valutata e liquidata unitariamente al “danno biologico”, orientamento recepito dalle tabelle del Tribunale di Milano, che non nega, in ogni caso, la risarcibilità anche della sofferenza “soggettiva” causata dalla lesione della salute, già incorporata nel punto tabellare, poiché una certa sofferenza è necessariamente compresa nella percentuale di invalidità permanente espressa dai barémes medico legali.

Altro orientamento, senza dissentire formalmente dal dictum delle Sezioni Unite del 2008 - muovendo dal presupposto che la “sofferenza morale” è una componente del danno non patrimoniale alla persona, autonoma rispetto al danno biologico medico-legalmente obiettivabile - è favorevole a una valutazione e liquidazione separata della “sofferenza interiore”, che va dunque risarcita in aggiunta rispetto al risarcimento della compromessa salute fisica.

Da tale impostazione si giunge, sul piano pratico, alla conclusione, non condivisa, che della sofferenza patita dalla vittima si tenga conto non già ai fini della “personalizzazione” del risarcimento, ma piuttosto mediante una liquidazione (oltre che valutazione) separata.

Orbene, non vi è dubbio che le conseguenze dannose di una lesione della salute, quali rabbia, tristezza paura, vergogna, perdita di autostima, senso di inutilità e così via, rientrano tutte nel danno non patrimoniale.

Il fatto che quest'ultimo debba essere valutato e liquidato in maniera unitaria non significa che gli svariati pregiudizi, di cui esso si compone, non debbano essere presi in considerazione dal giudice. Tutt'altro: la sofferenza causata dalla lesione della salute, che trascende la mera invalidità permanente e, dunque, non sempre e necessariamente coincide con essa, è senz'altro un danno risarcibile.

Nulla quaestio, dunque, che la liquidazione unitaria del danno non patrimoniale debba intendersi nel senso di attribuire al soggetto danneggiato una somma di denaro corrispondente al pregiudizio complessivamente subito tanto sotto l'aspetto della sofferenza interiore, quanto sotto il profilo dell'alterazione o modificazione peggiorativa della vita di relazione, considerata in ogni sua forma e in ogni suo aspetto, senza tuttavia ulteriori frammentazioni nominalistiche (Cass. civ. n. 901/2018, cit.).

Deve trattarsi di conseguenze dannose non patrimoniali che non sono state oggetto di valutazione e quantificazione del medico legale e che, dunque, non sono già ricomprese nel grado di invalidità permanente.

Si pone, allora, la questione se l'accertamento di tale peculiare pregiudizio, così come la sua valutazione, esuli o meno dalle competenze del medico legale, muovendo il “decalogo” della Cassazione dal presupposto che il grado di invalidità permanente espresso dai barémes medico legali non includa la “sofferenza interiore” provocata dalla lesione. Occorre, in altre parole, chiedersi se sia proprio vero che la valutazione medico-legale si limiti al solo dolore fisico, patito dal soggetto leso.

La risposta è negativa, stando alla presa di posizione della Società Italiana di Medicina Legale e delle Assicurazioni (SIMLA), che rivendica la competenza del medico-legale a valutare anche la sofferenza soggettiva connessa a una determinata lesione della salute: escluso che detta sofferenza possa essere misurata con un automatismo matematico legato alla durata dell'inabilità temporanea e alla percentuale di invalidità permanente, il medico legale possiede gli strumenti idonei per fornire al giudice un contributo tecnico motivato all'accertamento e alla valutazione della “sofferenza morale” legata a lesioni/menomazioni psico-fisiche (Accertamento e valutazione medico-legale della sofferenza morale, SIMLA, 2018).

Tirando le fila del discorso sin qui svolto, non può trascurarsi che, dopo le Sezioni Unite del 2008, l'Osservatorio di Milano ha rielaborato le tabelle, inserendo la voce “danno morale”, e quindi la componente “sofferenza”, nel punto-base del “danno biologico standard”, denominato danno non patrimoniale.

Poiché nei valori monetari delle attuali tabelle milanesi è già ricompresa la componente sofferenziale per così dire “media” connessa a una determinata invalidità permanente, se si liquidasse, separatamente, un'ulteriore somma di denaro in considerazione della “sofferenza interiore” causata da quella determinata lesione (non quale fatto “fisico” a base organica, ma quale evento emotivo), si finirebbe con il liquidare due volte il medesimo pregiudizio.

Diversamente, il giudice di merito deve tener conto di una sofferenza affatto peculiare (ovvero una sofferenza che non è conseguenza comune e indefettibile di quel determinato grado di invalidità permanente, ma che contraddistingue il caso concreto) ai fini della “personalizzazione”, come è del resto chiaramente spiegato nei criteri orientativi, ove sono esplicitati la corretta lettura ed i corretti criteri applicativi delle tabelle milanesi.

In altri termini, gli è consentito, senza automatismi e senza rifugiarsi in formule di stile o stereotipate del tipo “tenuto conto della gravità delle lesioni e delle loro conseguenze”, ma con motivazione adeguata e analitica, non già liquidare, separatamente, una posta di danno aggiuntiva a quello biologico, a titolo di “danno morale”, ma incrementare, operando una “personalizzazione”, la somma dovuta a titolo risarcitorio.

In tal modo, la liquidazione unitaria del danno da sofferenza e di quello biologico, anche nei suoi aspetti dinamico relazionali, scolpita dalle “sentenze di San Martino”, si mantiene nel rispetto del principio nomofilattico, oltre che del principio di uguaglianza, affermato e tutelato dalla Carta costituzionale.

Guida all'approfondimento

G. CANNAVÒ, Riflessioni sul danno morale: l'evidence deve essere il vero punto di riferimento del medico legale, in Ridare.it, 30 Novembre 2018;

G. CANZIO, Calcolo giuridico e nomofilachia, in Calcolabilità giuridica, di A. Carlo, 2017;

M. NUZZO, Il problema della prevedibilità delle decisioni: calcolo giuridico secondo i precedenti, in Calcolabilità giuridica cit.;

E. PEDOJA, L'equivoco tra giurista e medico legale in tema di parametrazione del danno biologico, in Ridare.it, 27 Novembre 2018 ;

A. PENTA, Il risarcimento del danno non patrimoniale: alla ricerca di un punto di equilibrio, in Ridare.it, 6 Novembre 2018;

E. RONCHI, Le competenze medico legali ed il rischio di duplicazione risarcitoria nel sistema di “liquidazione congiunta” della c.d. tabella milanese, in Ridare.it, 13 Novembre 2018;

M. ROSSETTI, La Corte di Cassazione e il danno non patrimoniale, in Ridare.it, 9 marzo 2016;

M. ROSSETTI, Dolore, paura, sofferenza: il danno morale, in Il danno alla salute, Milano, 2017, pag. 761 e ss.;

D. SPERA, Risarcimento del danno non patrimoniale, in Ridare.it, 21 febbraio 2017;

D. SPERA, Tabelle milanesi 2018 e danno non patrimoniale, in Officine del Diritto, Giuffrè, 2018;

D. SPERA, Time out: il "decalogo" della Cassazione sul danno non patrimoniale e i recenti arresti della Medicina legale minano le sentenze di San Martino, in Ridare.it, 4 settembre 2018;

L. VISMARA, Il decalogo della Corte di Cassazione in tema di danno non patrimoniale: il punto di vista (ri)assicurativo, in Ridare.it, 4 Dicembre 2018;

P. ZIVIZ, Alla ricerca di uno statuto definitivo per il danno non patrimoniale, in Ridare.it, 30 Ottobre 2018;

D. ZORZIT, Le più recenti pronunce della Cassazione, tra danno biologico e morale: quo vadis?, in Ridare.it, 20 Novembre 2018.

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