I rimedi esperibili avverso l'ordinanza pronunciata ai sensi dell'art. 612 c.p.c.

11 Marzo 2019

Costituisce dato pacifico che l'ordinanza determinativa delle modalità esecutive ha natura di provvedimento revocabile o modificabile, ove non abbia avuto ancora esecuzione, dallo stesso giudice che l'ha emessa ai sensi dell'art. 487 c.p.c., nonché impugnabile con l'opposizione agli atti esecutivi. Se quanto affermato può ritenersi un dato fermo e pacifico, assai più controverso è il regime di impugnazione del provvedimento determinativo delle modalità esecutive laddove il giudice dell'esecuzione non si sia limitato ad applicare pedissequamente il comando contenuto nel titolo, ma lo abbia integrato.
Il quadro normativo

Costituisce dato pacifico ed incontrastato che l'ordinanza determinativa delle modalità esecutive ha natura di provvedimento revocabile o modificabile, ove non abbia avuto ancora esecuzione, dallo stesso giudice che l'ha emessa ai sensi dell'art. 487 c.p.c. (Cass. civ., 18 marzo 2003, n. 3992; Cass. civ., 27 agosto 1999, n. 9012), nonché impugnabile con l'opposizione agli atti esecutivi, in virtù dell'art. 617 c.p.c. (Cass. civ., 3 maggio 2011, n. 9676).

Se quanto affermato può ritenersi un dato fermo e pacifico, assai più controverso è il regime di impugnazione del provvedimento determinativo delle modalità esecutive laddove il giudice dell'esecuzione non si sia limitato ad applicare pedissequamente il comando contenuto nel titolo, ma lo abbia integrato.

La questione nasce perché spesso il titolo esecutivo non precisa adeguatamente il contenuto degli obblighi che l'ufficio esecutivo è chiamato a surrogare; ora, premesso che l'ordinanza del giudice dell'esecuzione può «supplire all'eventuale difetto di concretezza nell'accertamento della sanzione contenuto nella condanna» (Mandrioli, 562), deve escludersi qualsivoglia fungibilità tra la sentenza di condanna e l'ordinanza ex art. 612 c.p.c.. Difatti, l'una e l'altra assolvono a due differenti funzioni, consistendo la prima essenzialmente nell'accertamento di una situazione giuridica sostanziale suscettibile di materiale attuazione e l'altra nella fissazione delle modalità di realizzazione effettiva di quella situazione.

Tale distinzione, chiara e netta in astratto, perde i suoi contorni quando nella pratica si deve attuare il comando contenuto nella sentenza di condanna: non sempre infatti il giudice della cognizione riesce ad individuare chiaramente i confini dell'obbligo da eseguire, costringendo il giudice dell'esecuzione a svolgere l'arduo compito di integrare il comando contenuto nel titolo esecutivo.

La giurisprudenza tradizionale

Sia in dottrina che in giurisprudenza si distingue tra il caso in cui la sentenza di condanna determinativa dell'obbligo di fare o di disfare contenga già gli elementi fondamentali delle modalità di esecuzione e l'ipotesi in cui, al contrario, non contenga una sufficiente individuazione di tali modalità: mentre nella prima ipotesi l'intervento del giudice deve limitarsi al mero completamento delle modalità già individuate dalla sentenza di condanna, nel secondo caso, il giudice dell'esecuzione è chiamato a compiere una attività ben più complessa, dovendo procedere all'integrazione del titolo esecutivo secondo sua discrezionalità.

La giurisprudenza tradizionale precisava che qualora l'ufficio esecutivo si fosse limitato a designare gli organi minori della procedura e a determinare le modalità dell'esecuzione del titolo esecutivo, il relativo provvedimento andava adottato con la forma dell'ordinanza, come tale revocabile dallo stesso giudice che lo aveva emesso, ex art. 487 c.p.c., ed impugnabile dagli interessati con il rimedio dell'opposizione agli atti esecutivi (Cass. civ., 6 maggio 2010, n. 10959; Cass. civ., 5 giugno 2007, n. 13071; Cass. civ., 18 marzo 2003, n. 3979; App. Roma, 19 aprile 2006; Cass. civ., 4 gennaio 1977, n. 21, in Foro it., 1977, I, 656; Cass. civ., 15 dicembre 1975, n. 4129, id., Rep. 1975, voce Esecuzione forzata degli obblighi di fare o di non fare, n. 7; Cass. civ., 4 giugno 1974, n. 1627, id., 1975, I, 1197; Cass. civ., 27 agosto 1969, n. 3041, id., 1970, I, 160).

Quando invece con l'ordinanza determinativa, il giudice dell'esecuzione avesse determinato modalità di esecuzione contrastanti con il tenore del titolo o deciso su questioni attinenti alla portata sostanziale dello stesso, il provvedimento perdeva la natura di ordinanza, acquistando il valore di sentenza (Cass. civ., 14 maggio 1991, n. 5370, in Foro it., 1992, I, 1868).

In particolare, detto provvedimento doveva qualificarsi come sentenza appellabile, laddove il giudice dell'esecuzione avesse risolto, in sede di determinazione delle modalità pratiche del fare, l'eventuale controversia che fosse insorta fra le parti circa la conformità o meno al comando contenuto nel titolo esecutivo dell'esecuzione spontanea già attuata dal debitore.

In tale caso, infatti, il provvedimento emanato perdeva la sua natura esecutiva, avendo sostanzialmente deciso su una opposizione all'esecuzione attinente al preteso adempimento dell'obbligo da parte del debitore, sebbene quest'ultima fosse stata iniziata irritualmente, essendo stata introdotta in forma orale in occasione dell'udienza esecutiva. Essendosi in presenza di un vero e proprio giudizio di cognizione, andava allora applicato il principio della prevalenza della sostanza sulla forma, con la conseguenza che l'ordinanza emessa non poteva che essere qualificata sentenza a tutti gli effetti, per cui essa era impugnabile conformemente alla sua natura, convertendosi il vizio formale, consistente nella sua erronea denominazione, in motivo della sua impugnabilità.

Del pari si riteneva appellabile il provvedimento emesso ai sensi dell'art. 612 c.p.c., nell'ipotesi in cui il giudice, nel determinare le modalità dell'esecuzione, avesse determinato modalità contrastanti con il tenore del titolo esecutivo, finendo così per alterare il comando contenuto nella sentenza di condanna. In tale ipotesi, l'ordinanza emanata ex art. 612 c.p.c. non andava qualificata come decisione di un'opposizione non proposta nelle forme di rito, ma come provvedimento capace di invadere abnormemente la sfera del potere cognitivo, contro il quale era esperibile l'appello, nella sua funzione non di generalizzato mezzo di controllo sul contenuto dell'accertamento operato dal giudice nella sede della determinazione delle modalità esecutive, ma di rimedio-limite contro l'evasione del provvedimento dal suo tipo legale.

La dottrina

Secondo parte della dottrina (Bove, § 6), il g.e. resta giudice del fatto, non avendo alcun potere accertativo che in quanto tale spetta solo al giudice della cognizione.

Per permettere la specificazione del contenuto del titolo, è però possibile riconoscere al creditore il potere di specificare nel precetto le modalità esecutive non contemplate nella sentenza di condanna, ma essenziali per la concreta attuazione dell'obbligo di fare. In particolare, il creditore non avrebbe solo il potere, ma anche l'onere di stabilire nel precetto gli elementi determinativi dell'opera non specificati nel titolo esecutivo, in modo da enunciare al debitore, insieme al titolo, la pretesa esecutiva, mentre all'ordinanza ex art. 612 spetterebbe unicamente il compito di attuarla, non essendone consentita al giudice dell'esecuzione alcuna determinazione.

Ne consegue, allora, che il giudice dell'esecuzione non potrà emanare provvedimenti che alterino le modalità dell'esecuzione fissate dal titolo esecutivo e dal precetto, non avendo facoltà ed obblighi diversi da quelli che spettano agli organi di ogni altro processo esecutivo. Ciò, tuttavia, non comporta per il debitore la perdita della possibilità di difendersi, in quanto a quest'ultimo è riconosciuta la facoltà di contestare il contenuto della pretesa esecutiva mediante la proposizione di un'opposizione avverso il precetto notificato dal creditore.

Inoltre, resta la possibilità di opporre ex art. 617 l'ordinanza determinativa delle modalità esecutive laddove siano stati commessi errori da parte del giudice sotto il profilo della pura attuazione del comando contenuto nel titolo e specificato nel precetto.

Altra parte della dottrina (Capponi, 328), partendo dalla premessa che a seguito delle recenti modifiche normative si può riconoscere una tendenza che «muove verso un sistema in cui il g.e. può accertare diritti al fine di attuarli (con effetti interni all'esecuzione, ma nell'immediato satisfattivi)» e dalla considerazione che l'opposizione agli atti esecutivi ha ormai carattere di rimedio di chiusura, utilizzabile per la risoluzione idonea alla cognizione di questioni di merito, giunge alla conclusione di poter «convogliare ogni possibile contestazione dell'ordinanza ex art. 612 c.p.c. verso l'opposizione agli atti».

Detta soluzione presenta un vantaggio pratico di non poco momento, giacché semplifica l'attività dell'operatore, che potrà utilizzare l'opposizione agli atti ogniqualvolta vorrà contestare l'ordinanza, qualunque ne sia il motivo.

Il nuovo trend giurisprudenziale

L'incertezza manifestata sul punto in dottrina, unita ai radicali cambiamenti che hanno interessato il processo esecutivo negli ultimi anni, ha comportato anche un significativo revirement ad opera della giurisprudenza di legittimità, che, investita della questione concernente l'individuazione dei rimedi esperibili avverso l'ordinanza determinativa delle modalità esecutive, ha affermato che l'ordinanza emessa ai sensi dell'art. 612 che abbia illegittimamente risolto una questione in ordine alla portata sostanziale del titolo esecutivo e all'inammissibilità dell'azione esecutiva intrapresa (e dunque abbia esorbitato dalla funzione che la legge le assegna) non è mai considerabile come una sentenza in senso sostanziale decisiva di una opposizione all'esecuzione, ma è qualificabile – e ciò anche qualora in essa si siano liquidate le spese giudiziali – quale provvedimento conclusivo della fase sommaria di una opposizione all'esecuzione, con la conseguenza che la parte interessata potrà tutelarsi introducendo il giudizio di merito ex art. 616 c.p.c. (Cass. civ., 21 luglio 2016, n. 15015).

Secondo il Collegio, poiché a seguito della modifica dell'art. 616 c.p.c., il giudizio di opposizione si articola in una fase necessaria di natura sommaria, non importa con quale formula terminativa si sia avuta, e in una successiva fase (eventuale) a cognizione piena da iniziarsi nel termine concesso dal giudice dopo l'esaurimento della prima, deve escludersi che il provvedimento del giudice dell'esecuzione, qualunque forma abbia rivestito, possa avere carattere decisorio, limitandosi semplicemente a risolvere in via sommaria le eventuali questioni sollevate dalle parti, nonché a rinviare alla fase successiva la definitiva risoluzione delle stesse.

In altre parole, per il Supremo Collegio, la nuova articolazione dei giudizi oppositivi induce a ritenere che qualora il giudice adito ai sensi dell'art. 612, anziché limitarsi a dar luogo alla attuazione del procedimento di esecuzione degli obblighi di fare, decida sulle eventuali contestazioni in quella sede proposte riguardanti l'esistenza o l'ambito del diritto dell'istante di agire in via esecutiva, l'ordinanza da lui emessa non può considerarsi terminativa dell'esecuzione di cui agli artt. 612-614, ma deve qualificarsi quale provvedimento conclusivo della fase sommaria dell'opposizione ex art. 615 relativa alla questione sollevata innanzi a lui.

Al provvedimento del giudice dell'esecuzione, pertanto, in quanto solo formalmente conclusivo del procedimento di esecuzione, va applicato il regime previsto dall'art. 616 c.p.c., con il conseguente onere di correzione dell'ordinanza laddove con la stessa non sia stato fissato il termine per l'introduzione (rectius prosecuzione) del giudizio di merito. Detto principio è stato più volte successivamente ribadito: si pensi a Cass. civ., n. 7402/2017; ancora, secondo Cass. civ., 9 marzo 2018, n. 5642, l'ordinanza resa ai sensi dell'art. 612 che abbia illegittimamente risolto una contesa tra le parti, così esorbitando dal profilo funzionale proprio dell'istituto, non è considerabile mai una sentenza in senso sostanziale, decisiva di una opposizione ex art. 615, ma dà luogo – anche qualora contenga la liquidazione delle spese giudiziali – ad una decisione soltanto sommaria, in quanto da ritenersi conclusiva della fase sommaria di una opposizione all'esecuzione, rispetto alla quale la parte interessata può tutelarsi introducendo un giudizio di merito ex art. 616. Coerentemente è stato poi affermato che l'ordinanza che decide in ordine alla portata sostanziale del titolo non essendo in nessun caso appellabile, è reclamabile ai sensi dell'art. 624, ove tale decisione sia stata presa solo in funzione della mera sospensione della procedura, mentre è opponibile ex art. 617 ove abbia dichiarato la definitiva chiusura del processo esecutivo (Cass. civ., 8 maggio 2018, n. 10946).

Osservazioni critiche

Come è stato notato in dottrina (Caprio, Vecchi e nuovi orientamenti in tema di impugnazione dell'ordinanza ex art. 612 c.p.c. emessa al di fuori dei limiti di legge, in REF, 2018, 825), in favore del nuovo orientamento si può sottolineare che esso appare coerente con lo sviluppo del sistema, che esclude in capo al giudice dell'esecuzione in sede esecutiva qualsiasi potere decisorio e che struttura ogni opposizione in due distinte fasi, di cui la prima necessaria e a cognizione sommaria e la seconda eventuale e a cognizione piena.

Inoltre, questa tesi, rispetto a quella che permette l'esperimento dell'appello avverso l'ordinanza intesa quale provvedimento decisorio idoneo al giudicato, ha il pregio di garantire alle parti una cognizione piena fin dal primo grado.

Tuttavia, neppure il nuovo orientamento appare immune da critiche. Ed invero, la soluzione oggi accolta dalla Suprema Corte è in parte passibile delle medesime obiezioni che venivano rivolte nei confronti del precedente orientamento. Si pensi alle critiche relative all'ammissibilità di un'opposizione all'esecuzione iniziata d'ufficio, senza che sia stata formulata una domanda di parte, ovvero su istanza del creditore.

Più in generale, i motivi che le parti coinvolte nell'esecuzione possono addurre in sede di impugnazione del provvedimento di determinazione delle modalità esecutive possono essere i più vari, potendo accadere che il giudice dell'esecuzione, laddove non decida di negare la tutela esecutiva per eccesso di indeterminatezza del titolo, accerti che l'esecutato si sia spontaneamente adeguato al “comando” del titolo esecutivo oppure adotti modalità di attuazione o contrastanti col contenuto del titolo esecutivo o che lo integrano in modo sostanziale.

Ora, ammettere una soluzione unica, utile per la tutela di tutte queste diverse situazioni, è soluzione semplificante ma insoddisfacente.

Pertanto, la tesi sostenuta dalla Suprema Corte può accogliersi solo immaginando che il debitore all'udienza ex art. 612 c.p.c. abbia dedotto di avere già adempiuto, proponendo così un'irrituale opposizione all'esecuzione, poi rigettata dal giudice dell'esecuzione con l'ordinanza. Il provvedimento emesso dal giudice sarebbe, in tal caso, paragonabile a quella con cui il g.e. in pendenza di un'opposizione all'esecuzione rigetta la richiesta di sospensione, sicché la parte interessata potrebbe procedere ad iscrivere a ruolo la causa.

Di ciò è consapevole lo stesso Supremo Collegio, che infatti precisa che nel caso in cui il g.e. dovesse concordare con la contestazione sollevata dal debitore, l'ordinanza segnerebbe la chiusura del processo esecutivo, alla stregua di un'estinzione cd. atipica e, in quanto tale, sarebbe opponibile ex art. 617 c.p.c..

Guida all'approfondimento
  • Borrè, Esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare, Napoli, 1966;
  • Bove, Sul regime dell'ordinanza pronunciata ai sensi dell'art. 612 c.p.c., in www.cortedicassazione.it.;
  • Capponi, Ordinanze decisorie “abnormi” del g.e. tra impugnazioni ordinarie e opposizioni esecutive, in REF, 2017;
  • Mandrioli, Esecuzione forzata degli obblighi di fare, in Digesto civ., VI, Torino, 1991.

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