Il concordato liquidatorio: le novità introdotte dal nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza

18 Marzo 2019

Tramite la Legge delega, il legislatore ha inteso operare una riforma organica della materia dell'insolvenza e delle procedure concorsuali e, in tale ambito, il concordato preventivo viene confermato come lo strumento più funzionale tra quelli concorsuali attualmente vigenti, seppur con alcuni specifici “correttivi”.
I principi generali cui è ispirata Legge Delega n. 155/2017 nella disciplina del concordato liquidatorio

Per necessaria chiarezza espositiva , in primo luogo, si ritiene opportuno illustrare - seppur in estrema sintesi - i principali dettami della Legge delega 19 ottobre 2017, n. 155 (d'ora innanzi semplicemente “Legge Delega”), la cui attuazione - per quanto riguarda il concordato preventivo - ha condotto all'emanazione del nuovo Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza (d'ora innanzi semplicemente “Codice”).

Tramite la Legge Delega, il Legislatore ha inteso operare una riforma organica della materia dell'insolvenza e delle procedure concorsuali e, in tale ambito, il concordato preventivo viene confermato come lo strumento più funzionale tra quelli concorsuali attualmente vigenti, seppur con alcuni specifici “correttivi”.

La Legge Delega - nell'ottica specifica di garantire, ove possibile, la continuità dell'impresa - tende a rafforzare detto istituto, seppur di fatto circoscrivendolo alla sola ipotesi del concordato in continuità (che ricorre ogni qual volta il superamento della crisi si attua mediante la prosecuzione, diretta o indiretta, dell'attività aziendale).

In particolare, la Legge Delega:

  • ha confermato il favor nei confronti dell'istituto del concordato preventivo, ritenuto (a ragione) come quello più efficiente nel contemperamento dei diritti dei creditori con la necessità di preservare l'attività di impresa;
  • ma, al contempo, ha circoscritto tale “preferenza” al concordato preventivo in continuità (sia essa diretta od indiretta), con un correlativo ridimensionamento del concordato preventivo avente finalità prevalentemente liquidatoria.

L'art. 3, comma 3, lettera d, Legge delega si occupa finalmente di istituire una gestione unitaria della procedura per il caso - sempre più frequente - di gruppi di imprese.

Tale disposizione prevede che: “Nell'ipotesi di gestione unitaria della procedura di liquidazione giudiziale di gruppo devono essere previsti:

a) la nomina di un unico giudice delegato e di un unico curatore, ma di distinti comitati dei creditori per ciascuna impresa del gruppo;

b) un criterio di ripartizione proporzionale dei costi della procedura tra le singole imprese del gruppo;

c) l'attribuzione al curatore, anche nei confronti di imprese non insolventi del gruppo, del potere di:

1) azionare rimedi contro operazioni antecedenti l'accertamento dello stato di insolvenza e dirette a spostare risorse a un'altra impresa del gruppo, in danno dei creditori;

2) esercitare le azioni di responsabilità di cui all'articolo 2497 del codice civile;

3) promuovere la denuncia di gravi irregolarità gestionali nei confronti degli organi di amministrazione delle società del gruppo non assoggettate alla procedura di liquidazione giudiziale;

4) nel caso in cui ravvisi l'insolvenza di imprese del gruppo non ancora assoggettate alla procedura di liquidazione giudiziale, segnalare tale circostanza agli organi di amministrazione e di controllo ovvero promuovere direttamente l'accertamento dello stato di insolvenza di dette imprese;

d) la disciplina di eventuali proposte di concordato liquidatorio giudiziale, in conformità alla disposizione dell'articolo 7, comma 10, lettera d)”.

In esecuzione di tale delega, il nuovo Codice (artt. 284 e ss.) contiene quindi l'espresso riconoscimento dell'istituto del gruppo d'imprese quale interlocutore unico nell'ambito della procedura concordataria (ferma restando l'autonomia delle diverse masse attive e passive, sì che il requisito del miglior soddisfacimento dei creditori deve essere verificato avendo riguardo ai creditori di ciascuna singola impresa).

Il gruppo di imprese viene definito - giusta il rinvio agli artt. 2497 e 2545-septies c.c. - come l'insieme delle società, delle imprese o degli enti (diversi dallo Stato) sottoposti a direzione e coordinamento da parte di una società, di un ente o di una persona fisica, sulla base di un vincolo partecipativo o contrattuale.

Per quanto attiene alla relativa disciplina, viene introdotta una procedura unitaria davanti al tribunale dell'impresa e per l'accesso ai diversi strumenti di risoluzione della crisi.

La procedura prevede che, nel caso sia sostenibile la continuità aziendale, si andrà verso il concordato preventivo (con la nomina di un unico Giudice delegato, di un unico Commissario giudiziale e la costituzione di un unico fondo per le spese di giustizia) o verso l'accordo di ristrutturazione dei debiti.

Laddove ciò non fosse possibile, è prevista la liquidazione giudiziale del gruppo (in questo caso l'esigenza di una procedura unitaria è meno sentita di quanto non lo sia per le procedure volte al risanamento delle imprese: ciò non di meno, sussiste comunque la possibilità di una procedura unitaria).

Si deve infine dare conto di quella che è la principale innovazione che riguarda specificamente il concordato liquidatorio, ovverosia la previsione di cui all'art. 6, comma 1, lettera A), dalla Legge delega con il quale sono stati posti al Legislatore Delegato i seguenti criteri: “prevedere l'ammissibilità di proposte che abbiano natura liquidatoria esclusivamente quando è previsto l'apporto di risorse esterne che aumentino in misura apprezzabile la soddisfazione dei creditori; è assicurato, in ogni caso, il pagamento di almeno il 20 per cento dell'ammontare complessivo dei crediti chirografari”.

Si tratta di una previsione per certi versi “rivoluzionaria” che ridefinisce e caratterizza la figura del concordato liquidatorio e che, in quanto tale, merita una trattazione separata.

La principale novità dettata in materia di concordato liquidatorio: l'introduzione dell'obbligo di apporto di risorse esterne

Prima di entrare nel merito di quello che è l'oggetto del presente paragrafo, è bene ricordare qual è il fondamentale criterio distintivo tra concordato preventivo in continuità e concordato preventivo liquidatorio.

Come efficacemente riassunto nel citato Dossier del 26 novembre 2018 edito dal Servizio Studi del Senato della Repubblica, tale criterio è rappresentato dalla provenienza delle risorse utilizzate per il soddisfacimento dei creditori:

  • nel concordato in continuità aziendale (opzione che la nuova disciplina della crisi valorizza maggiormente in quanto finalizzata al recupero della capacità dell'impresa di rientrare nel mercato) tali mezzi derivano in misura rilevante dai proventi della prosecuzione dell'attività imprenditoriale;
  • nel concordato preventivo liquidatorio il soddisfacimento dei creditori si ottiene attraverso il ricavato della liquidazione del patrimonio.

Ciò detto, la surrichiamata previsione della Legge Delega - che si è poi tradotta nell'art. 84, comma 4, del Codice- pone una nuova condizione di ammissibilità per qualunque domanda di concordato che abbia natura e contenuto esclusivamente liquidatorio: nel nuovo Codice, tale istituto risulta ammissibile solamente nel caso in cui ai creditori vengano messe a disposizione risorse ulteriori rispetto a quelle rappresentate dal patrimonio del debitore.

In particolare, tali risorse aggiuntive devono incrementare la misura del soddisfacimento dei creditori di almeno il dieci per cento rispetto all'alternativa della liquidazione giudiziale (cioè l'attuale fallimento).

Nell'originaria previsione della Legge Delega si faceva riferimento ad un aumento “apprezzabile”: nella Relazione Illustrativa al Codice, viene spiegato che - alla fine - si è preferito il ricorso ad un parametro certo ed economicamente misurabile, onde evitare le incertezze interpretative che sarebbero inevitabilmente sorte laddove tale requisito di ammissibilità della proposta di concordato fosse stato rimesso alla discrezionale valutazione del Tribunale.

Rimane inoltre confermata la previsione, introdotta nel 2015 per il solo concordato liquidatorio, del soddisfacimento minimo pari al venti per cento del complessivo debito chirografario (oltre che, ovviamente, alla totalità della prededuzione e del privilegio).

La ragione dell'introduzione nel Codice di tale requisito ulteriore risiede nel rilievo secondo cui, in concreto, un concordato puramente liquidatorio spesso non fornisce alcuna ulteriore utilità ai creditori sociali rispetto al fallimento, soprattutto a causa dell'incidenza delle spese di gestione della procedura concordataria, significativamente superiori a quelle della procedura concorsuale maggiore (si pensi, ad esempio, alle spese per i consulenti legali, per l'advisor finanziario e per l'attestatore, spese totalmente assenti nel fallimento).

Tanto più che le riforme susseguitesi dal 2006 hanno agevolato e reso più efficienti le modalità di liquidazione dell'attivo da parte del Curatore, sì da avere effettivamente ridotto il margine per la convenienza della via concordataria rispetto a quella fallimentare.

La novità prevista dal Codice pone tuttavia non pochi problemi interpretativi.

In primo luogo, va acclarato cosa debba intendersi per apporto di risorse esterne.

In proposito, la Relazione illustrativa del Codice non fornisce risposte univoche, sebbene il riferimento a “risorse ulteriori rispetto a quelle rappresentate dal patrimonio del debitore” (cfr. relazione sub art. 84) sembra voler sottolineare il principio che debba trattarsi necessariamente di apporti distinti ed ulteriori provenienti da terzi (eventualmente anche soci), piuttosto che nuove utilità prodottesi “internamente” all'impresa, ad esempio per effetto della prosecuzione dell'attività (anche se solamente in un'ottica liquidatoria).

Tale conclusione parrebbe confermata dalle prime interpretazioni emerse nell'ambito dei recenti convegni organizzati sull'argomento.

In un contesto del genere, parrebbe quindi doversi escludere a priori l'ammissibilità di una proposta di concordato liquidatorio che, ad esempio tramite l'ottimizzazione delle modalità e delle condizioni di liquidazione dell'attivo, sia in grado di generare un miglior soddisfacimento dei creditori chirografari del 10% o più: tanto, perché il requisito di ammissibilità dovrebbe ritenersi rispettato solamente in presenza di apporto di nuove risorse estranee al patrimonio del debitore.

Per quanto attiene alla quantificazione economica dell'apporto necessario non si vedono particolari problemi in sede di redazione del piano, trattandosi semplicemente di calcolare quanto vale - in termini economici di fabbisogno - ogni punto percentuale di maggior soddisfacimento del ceto chirografario nel suo complesso

Vi è invece un'altra questione che potrebbe porre dubbi in sede di redazione del piano concordatario.

Ci si domanda se, in presenza di più classi di creditori chirografari, il miglioramento debba riguardare tutte le classi e, più in generale, se l'apporto di tale nuova liquidità sia soggetto ai vincoli imposti dalla par condicio creditorum e dal rispetto dell'ordine dei privilegi.

In passato, questo problema si è già posto, in termini simili, allorquando ci si è domandati se e quali vincoli vi fossero per l'utilizzo della c.d. “nuova finanza” messa a disposizione del debitore proponente il concordato nell'ambito delle previsioni di cui agli artt. 182-quater e quinquies l.fall.

In pratica, si tratta di capire se anche le risorse esterne al patrimonio del debitore siano soggette al rispetto delle norme che disciplinano la responsabilità patrimoniale del debitore nonché delle regole dettate in tema di concorso fra i creditori concorrenti.

In primo luogo, va chiarito che - come accennato in precedenza - deve trattarsi di somme esterne, non appartenenti al debitore, rispetto alle quali non opera quindi il principio della responsabilità patrimoniale di cui all'art. 2740 c.c..

Al riguardo, alcuni Autori (D'Attorre, La finanza esterna tra vincoli all'utilizzo e diritto di voto dei creditori, in IlCaso.it, 20 maggio 2014) hanno correttamente individuato che la questione essenziale è quella di capire se, alla luce del principio cardine sancito dall'art. 2741 cod.civ. (a norma del quale tutti i creditori hanno uguale diritto di essere soddisfatti, nel rispetto delle clausole di prelazione), anche l'utilizzo delle nuove risorse esterne al patrimonio del debitore poste alla base della proposta di concordato soggiace alle ordinarie regole del concorso, ovverosia la par condicio creditorum ed il divieto di alterazione dell'ordine delle cause di prelazione.

La parte maggioritaria della dottrina ha dato una risposta negativa.

E' stato infatti rilevato (cfr. G. D'Attorre, op. cit.; e, in senso conforme, Bozza, L'utilizzo della nuova finanza del concordato preventivo, in Il Fallimento, 2019, 1441) che i beni dei terzi non fanno parte della garanzia patrimoniale generale prevista dall'art. 2740 cod.civ., sì che gli stessi sono liberamente disponibili ed il loro apporto è inquadrabile nella figura dell'adempimento del terzo che, secondo gli ordinari principi civilistici, non incontra i limiti fissati per il debitore.

Sicchè, si è concluso che le risorse messe a disposizione da un terzo non sarebbero soggette a vincoli sulla loro destinazione, poiché il criterio della par condicio creditorum e l'ordine delle cause di prelazione riguardano unicamente le risorse che provengono dal patrimonio del debitore concordatario.

Questa conclusione risulta suffragata dalla parte maggioritaria della giurisprudenza di merito e di legittimità: quest'ultima, in particolare, ha confermato per il debitore la libertà di disposizione di tali somme provenienti da terzi - anche in pregiudizio dei creditori privilegiati - alla sola condizione che l'apporto risulti “neutro” per l'impresa, sia perché non comporta un incremento dell'attivo patrimoniale, sia perché non determina un incremento della massa passiva per effetto del riconoscimento di un credito a favore del terzo (Cass., 8 giugno 2012, n. 9373 in Giust. civ. Mass. 2012, 6, 766).

Non mancano tuttavia isolate pronunzie di merito di segno contrario (cfr. Trib. Treviso 11 febbraio 2009 in Fall., 2009, 1439).

Ad avviso di chi scrive, sebbene la ricostruzione dogmatica di coloro che escludono un vincolo di destinazione delle somme in questione appare difficilmente confutabile, ci si domanda se un'interpretazione che concede una totale libertà da parte del debitore nell'allocare la c.d. “finanza esterna” (come se si trattasse davvero di un adempimento del terzo nell'ambito di un normale rapporto obbligatorio di natura privatistica), sia del tutto compatibile con un contesto concordatario.

Tanto, sul presupposto che la vicenda concorsuale che si apre con il concordato non ha natura esclusivamente privatistica, in quanto il concorso impone a tutti i creditori una serie di effetti generali che derogano a norme anche di rango costituzionale (si pensi al blocco delle procedure esecutive individuali sino alla falcidia concordataria, con il conseguente effetto esdebitatorio a vantaggio del proponente il concordato).

Ci si chiede allora se una totale libertà di gestione delle risorse esterne che oggi il Codice impone vengano messe a disposizione dei creditori chirografari, possa avvenire anche in violazione di norme generali come la par condicio fra creditori omogenei od addirittura l'ordine dei privilegi, in un contesto in cui questa “deroga” al sistema si accompagnerebbe comunque a tutti quei benefici di ordine generale che lo strumento concordatario continua ad assicurare al debitore.

La prassi applicativa di questo “nuovo” concordato liquidatorio preventivo fornirà la risposta.

A questo proposito, devono essere fatte alcune considerazioni sulla prevedibile diffusione di questo nuovo strumento.

Vi è stato chi ha pronosticato che l'imposizione dell'apporto di nuove risorse renderà il concordato preventivo liquidatorio sostanzialmente marginale e di scarsa applicazione (M. Arrigo, Il dogma della continuazione aziendale in materia di concordato preventivo: from a law of morality to a law of continuity, in IlCaso.it ): tanto, essenzialmente in ragione del fatto che trattasi di risorse evidentemente difficili da reperire, giacchè - essendo escluso il ricorso al finanziamento da parte dell'impresa - si ricadrà inevitabilmente sull'impiego di risorse personali dell'imprenditore non illimitatamente responsabile o del socio (eventualmente anche reperite presso terzi od istituti di credito).

Ad avviso di chi scrive, si tratta di una conclusione probabilmente fondata, tenuto altresì conto che la novella del 2015 aveva già posto un grosso ostacolo sulla strada del concordato preventivo puramente liquidatorio ponendo l'obbligo - assente invece nel concordato in continuità - di garantire il soddisfacimento perlomeno del venti per cento dei crediti chirografari (cfr. art. 160, comma 4, l.fall.).

Siffatta “rigidità” rispetto allo strumento del concordato liquidatorio (in favore del concordato in continuità ovvero della liquidazione giudiziale) suscita per questo alcune perplessità.

In primo luogo, nella prassi quotidiana non sono rari i casi in cui anche un'azienda sostanzialmente decotta - e, dunque, non verosimilmente risanabile nell'ambito della continuità - possa comunque avere un'obbiettiva convenienza nel fatto di evitare la dichiarazione di fallimento.

Ed infatti, sebbene tale parola sia stata “bandita” nel nuovo Codice, rimane il fatto che - sul mercato - l'assoggettamento alla procedura concorsuale maggiore, sia essa chiamata fallimento o liquidazione giudiziale, spesso provoca conseguenze immediate ed irreversibili sotto il profilo reputazionale ed economico, tali da deprimere l'appetibilità dei beni aziendali, il cui valore risulterebbe viceversa meglio preservato laddove la loro liquidazione avvenisse nell'ambito della procedura concordataria piuttosto che fallimentare (si pensi, ad esempio, al marchio oppure al “portafoglio ordini” di una determinata impresa).

Sussiste poi un ulteriore pericolo, rappresentato da quella che può essere configurata come una sorta di “costrizione al finanziamento” da parte di quelle imprese che, seppur prive di reali prospettive di risanamento, tentino in ogni modo di evitare la liquidazione giudiziale (i.e., il fallimento: si perdoni il perdurante uso di tale termine).

Non di rado potrebbe quindi accadere che, in un contesto normativo in cui l'impresa viene costretta a proseguire l'attività nell'ambito di un concordato in continuità, l'impresa stessa sia spinta a ricorrere a finanziamenti esterni (il più delle volte presso il sistema bancario), ottenendo un duplice - negativo - risultato: da un lato, un inutile incremento del passivo; dall'altro lato, il ritardo nell'apertura della procedura concorsuale maggiore.

Il che costituisce tipicamente il risultato peggiore per i creditori, per il quali la successione concordato-fallimento è generalmente deleteria in termini di tutela dell'attivo (con il conseguente incremento del passivo).

In conclusione, l'intento perseguito dal Legislatore Delegato risulta senz'altro commendevole, ma le modalità con cui si è tentato di raggiungerlo - verosimilmente condizionate da una certa “diffidenza” rispetto al ruolo dei consulenti delle imprese che si affacciano allo strumento del concordato preventivo - potrebbe aver finito con l'agevolare un risultato piuttosto simile a quello che si tentava di evitare.

Da ultimo, sempre in tema di novità introdotte dalla riforma, merita solo un rapito cenno la disciplina descritta dall'art. 114 del Codice in materia di liquidazione dei beni prevista nel piano concordatario.

Tale disciplina reitera di fatto quanto già previsto dall'attuale art. 182 l.fall., per cui sul punto non vi sono da segnalare novità di rilievo.

Al riguardo, ci si limita a segnalare il fatto che il tenore letterale della norma limita l'intervento del Tribunale e l'applicabilità delle regole della liquidazione giudiziale alle vendite effettuate nel solo ambito del concordato preventivo di natura liquidatoria.

Per questo, nella Relazione Illustrativa al Codice si sottolinea il fatto che, laddove nel concordato in continuità sia prevista anche la liquidazione dei beni non funzionali alla prosecuzione dell'attività, tali beni saranno liquidati a cura del debitore, senza l'imposizione di alcuna specifica modalità di alienazione (la principale delle quali è ovviamente costituita dall'obbligo di esperire le procedure competitive di evidenza pubblica): il proponente il concordato in continuità sarà dunque libero di alienare i beni in questione a propria totale discrezione, avendo il solo obbligo di assicurare ai creditori le utilità promesse (sulle quali essi hanno espresso il loro voto favorevole).

Le disposizioni dettate per i contratti con le pubbliche amministrazioni

L'art. 95 del Codice conferma il principio generale secondo cui i contratti in corso di esecuzione, stipulati con pubbliche amministrazioni, non si risolvono per effetto del deposito della domanda di concordato (ferma restando l'inefficacia di eventuali patti contrari).

Il comma 2 della medesima disposizione conferma altresì che il deposito della domanda di concordato preventivo non impedisce la continuazione di contratti con le pubbliche amministrazioni, se il professionista indipendente ne ha attestato la conformità al piano e la ragionevole capacità di adempimento degli stessi. Tale facoltà viene prevista, nel terzo comma della norma in commento, anche nel caso in cui l'impresa abbia semplicemente depositato la domanda per accesso ad una delle procedure di regolazione della crisi o dell'insolvenza di cui all'art. 40 del Codice.

Sin qui, nulla di nuovo (se non il necessario raccordo fra il “vecchio” concordato “in bianco” di cui all'art. 161, comma 6, l.fall. e l'art. 40 del Codice), posto che la norma si pone in una linea di continuità con quanto già oggi previsto nella disciplina del concordato preventivo, al precipuo scopo di favorire la continuità aziendale anche per le imprese che operano nel campo degli appalti pubblici. Al riguardo, degna di nota è tuttavia la previsione contenuta nello stesso art. 95, comma 2, del Codice secondo cui, in presenza dei requisiti di legge, anche la società cessionaria o conferitaria dell'azienda o di rami d'azienda cui i contratti siano trasferiti, beneficia del diritto a proseguire il contratto purché in possesso dei necessari requisiti di legge: come correttamente rilevato da alcuni Autori (cfr. Sanzo e Burroni, Il nuovo Codice della crisi di impresa e dell'insolvenza, Zanichelli Editore s.p.a., 2019, 163) si tratta di una norma di fondamentale importanza, ai fini della ricollocazione sul mercato delle aziende che operano nello specifico settore.

Ciò detto, con specifico riferimento con quello che è l'oggetto del presente contributo, rilevante è il fatto che l'art. 95, comma 2, del Codice aggiunge che “le disposizioni del presente comma si applicano anche nell'ipotesi in cui l'impresa sia stata ammessa al concordato liquidatorio quando il professionista indipendente attesta che la continuazione è necessaria per la migliore liquidazione dell'azienda in esercizio”.

In pratica, stavolta il Legislatore Delegato sembra rispondere all'esigenza menzionata nel precedente paragrafo e, precisamente, a quella di tutelare l'avviamento aziendale anche in quei casi in cui appare opportuno intraprendere una soluzione concordataria di tipo liquidatorio, evitando il fallimento (oggi liquidazione giudiziale).

Ed allora ecco che il Codice fa espressamente salva la perdurante validità di quei contratti in corso di esecuzione che, di fatto, vanno a costituire il “portafoglio delle commesse” dell'impresa (e, su un piano più ampio, il suo avviamento).

L'insieme dei contratti in corso di esecuzione costituisce all'evidenza un asset strategico dell'impresa che si accinge al concordato, anche a quello liquidatorio, ed il suo valore verrebbe inevitabilmente pregiudicato - se non completamente azzerato - laddove il divieto di unilaterale recesso in capo alle Stazioni Appaltanti fosse previsto nel solo concordato in continuità e non anche in caso di assoggettamento dell'appaltatore alla diversa procedura di concordato preventivo di natura liquidatoria.

Il che, peraltro, indirettamente conferma che lo stesso Legislatore Delegato avesse ben presente come lo strumento del concordato preventivo liquidatorio abbia una sua funzione ben specifica (non “assorbibile” dalla liquidazione giudiziale), sì che - come evidenziato nel precedente paragrafo - averne ristretto significativamente i margini di applicazione imponendo l'apporto di nuova finanza potrebbe non rivelarsi, alla prova dei fatti, la soluzione più lungimirante.

La disciplina dei finanziamenti prededucibili autorizzati prima dell'omologazione del concordato preventivo liquidatorio

Su questo aspetto, il Legislatore Delegato non ha inciso in maniera significativa sull'attuale impostazione della materia.

Il Codice, sostanzialmente in continuità con la normativa vigente di cui agli artt. 182-quater e 182-quinquies l.fall., disciplina tre fattispecie che ora vengono però descritte separatamente: artt. 99 (finanziamenti prededucibili autorizzati prima dell'omologazione del concordato preventivo o di accordi di ristrutturazione dei debiti), art. 101 (finanziamenti prededucibili in esecuzione di un concordato preventivo o di accordi di ristrutturazione dei debiti) e art. 102 (finanziamenti prededucibili dei soci).

Ai fini che interessano nell'ambito della presente trattazione, merita di soffermarsi sull'art. 99, comma 1, del Codice.

Tale norma prevede che, nella fase intercorrente fra la domanda di accesso alla procedura di concordato (o degli accordi di ristrutturazione) e l'omologa, il debitore può chiedere di essere autorizzato a contrarre finanziamenti - assistiti dal requisito della prededucibilità - a condizione che siano funzionali all'esercizio dell'attività aziendale sino all'omologa o, comunque, che siano finalizzati alla miglior soddisfazione dei creditori.

Si tratta dunque di uno strumento utilizzabile quando è prevista la continuazione dell'attività aziendale, ma anche - per espressa previsione normativa (art. 99, comma 1, Codice) - se la continuità è unicamente in funzione della liquidazione dei beni aziendali.

Prima ancora di indagare la funzione di tali finanziamenti, è bene chiarire subito che - alla stregua di quanto la dottrina ha già evidenziato nell'esegesi della previgente normativa di cui all'art. 182-quinquies l.fall. - l'uso della parola “finanziamenti” va inteso in senso totalmente atecnico: per questa ragione, dovranno ricomprendersi in via generale tutti i contratti caratterizzati da una causa di credito, indipendentemente dalla qualificazione soggettiva del soggetto finanziatore, posto che legittimati non sono più soltanto gli intermediari bancari o finanziari.

Per questo, alcuni Autori (S. Sanzo, Il finanziamento delle imprese in crisi, in F. Galgano (diretto da), Le operazioni di finanziamento, Bologna, 2016), hanno concluso che possono quindi rientrare nella categoria dei finanziamenti in questione “tutti i rapporti negoziali cui sia sottesa la causa di sovvenzione finanziaria in favore dell'impresa della cui ristrutturazione si tratta”.

Tale conclusione ha ricevuto l'avallo da parte della Suprema Corte, la quale ha chiarito che, nella definizione normativa di “finanziamento in qualsiasi forma” deve ricomprendersi qualsiasi “tipologia di finanziamento adottata, anche diversa dal mutuo (nella specie una fideiussione), stante l'ampiezza della previsione e la sua "ratio" compensativa del rischio del finanziatore realizzata con la prededucibilità del relativo credito” (Cass. 2 febbraio 2018, n. 2627).

Chiarita la natura di tali finanziamenti, richiede solo pochi cenni il procedimento per la loro autorizzazione, rimasto sostanzialmente immutato.

Il debitore, nel ricorso al Tribunale, deve:

  • specificare la destinazione dei finanziamenti;
  • chiarire che egli non è in grado di reperirli altrimenti, giacchè il sistema dell'attuale legge fallimentare (interamente recepito nel Codice) prevede che l'assunzione di nuovi finanziamenti (e, quindi, il conseguente l'incremento del passivo) debba rimanere l'extrema ratio rispetto ad altre forme di finanziamento che possono essere messe a disposizione dall'imprenditore o dai soci;
  • per questa stessa ragione, il ricorrente deve indicare altresì le ragioni per cui l'assenza di tali finanziamenti determinerebbe grave pregiudizio per l'attività aziendale o per il prosieguo della procedura.

Per quanto riguarda l'ipotesi di “insuccesso” del concordato, con la conseguente apertura della procedura di liquidazione giudiziale, l'art. 99, comma 6, conferma la prededucibilità dei finanziamenti erogati, a meno che si verifichino entrambe le seguenti circostanze:

  • il piano di concordato preventivo (o dell'accordo di ristrutturazione dei debiti) risulti, sulla base di una valutazione dal riferirsi al momento del deposito, basato su dati falsi o sull'omissione di informazioni rilevanti o se, comunque, il debitore abbia compiuto atti in frode ai creditori;
  • il curatore dimostra che i soggetti che hanno erogato i finanziamenti, alla data dell'erogazione, conoscevano tali circostanze.

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