La restituzione dei crediti di lavoro e le ritenute fiscali: al netto o al lordo? Brevi note a Corte d'appello di Roma n. 357 del 2019

Francesco Pedroni
18 Marzo 2019

Il diritto alla restituzione delle somme pagate dal datore di lavoro al lavoratore sorge direttamente in conseguenza della riforma della decisione eseguita che, facendo venire meno ex tunc e definitivamente il diritto ai pagamenti in base alla prima decisione, impone di porre la controparte nella medesima situazione in cui si trovava in precedenza. Conseguentemente, se il datore di lavoro è il vincitore finale della lite giudiziaria, rimetterlo nella situazione precedente l'attribuzione patrimoniale, privata ex art. 336, c.p.c., di titolo, significa che il lavoratore dovrà restituire al datore medesimo anche quanto da quest'ultimo pagato al fisco. Sarà poi il lavoratore a poter recuperare dal fisco.
Il caso

Una società propone ricorso in appello contro la decisione del Tribunale di Roma che aveva condannato il lavoratore al pagamento in suo favore di una somma a titolo di restituzione di quanto ottenuto a titolo di differenze retributive in forza di una sentenza del Tribunale di Ancona successivamente riformata dalla Corte d'appello di Ancona.

La società appellante chiede alla Corte d'appello di Roma la condanna del lavoratore alla restituzione della ulteriore somma a suo tempo versata – quale sostituto di imposta – all'Erario in esecuzione della sopra richiamata sentenza del Tribunale di Ancona.

La questione

Si tratta di stabilire se la restituzione dei crediti di lavoro al datore di lavoro che li ha corrisposti in esecuzione di una decisione non definitiva, debba essere effettuata da parte del lavoratore, risultato definitivamente soccombente, al netto o al lordo delle ritenute fiscali corrisposte dal datore di lavoro all'Erario, quale sostituto d'imposta.

La soluzione giuridica

La Corte di appello di Roma identifica innanzitutto quale lucro cessante le somme oggetto di giudizio (differenze retributive) in quanto riconosciute come risarcimento del pregiudizio derivante da mancata percezione di retribuzione. Come tali, dette somme costituiscono reddito soggetto a tassazione a norma dell'art. 6, comma 2, d.P.R. n. 917 del 1986, diversamente da quanto riconosciuto come danno emergente, con conseguente obbligo di versamento della relativa IRPEF da parte del datore di lavoro quale sostituto di imposta.

Quanto alla ripetibilità delle somme in questione al netto o al lordo, la Corte d'appello richiama giurisprudenza di legittimità risalente secondo cui “l'azione di ripetizione di somme pagate in esecuzione della sentenza d'appello successivamente cassata, ovvero della sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva riformata in appello, non si inquadra nell'istituto della conditio indebiti (art. 2033, c.c.) (Cass. n. 14178 del 2009; Cass. n. 21992 del 2007)”, e, conseguentemente, “il diritto alla restituzione sorge direttamente in conseguenza della riforma della sentenza, la quale, facendo venir meno ex tunc e definitivamente il titolo delle attribuzioni in base alla prima sentenza, impone di porre la controparte nella medesima situazione in cui si trovava in precedenza” (Cass. n. 8829 del 2007).

Quindi, conclude il giudice d'appello, in assenza di disposizioni speciali che riguardano la materia lavoristica, la stessa regola andrà applicata al caso di specie e, pertanto, se il datore di lavoro è il vincitore finale della lite giudiziaria, rimetterlo nella situazione precedente il pagamento, significa che il lavoratore dovrà restituire al datore medesimo anche quanto da quest'ultimo pagato al fisco. Sarà poi il lavoratore a poter recuperare dal fisco.

Tale situazione, aggiunge la Corte, si differenzia dall'ipotesi in cui il datore di lavoro corrisponda per suo errore una retribuzione superiore al dovuto effettuando, sulla stessa, le ritenute fiscali di legge. In questa ultima ipotesi, il datore di lavoro, salvi i rapporti col fisco, potrà ripetere l'indebito nei confronti del lavoratore secondo i principi generali dell'art. 2033, c.c., e quindi nei soli limiti di quanto effettivamente percepito da quest'ultimo.

Osservazioni

La pronuncia della Corte d'appello in commento si discosta dall'attuale orientamento pressoché unanime della giurisprudenza di legittimità e di merito che si è pronunciata sulla questione.

La sezione lavoro della Corte di cassazione ha infatti più volte escluso che la restituzione di somme corrisposte al lavoratore in esecuzione di decisioni definitive debba essere da quest'ultimo effettuata al lordo e non invece al netto e nei limiti di quanto percepito. Tale assunto si fonda sui seguenti argomenti ricorrenti nella predetta giurisprudenza.

La fattispecie rientra tra le ipotesi di inesistenza totale o parziale dell'obbligo di versamento (e dunque comunque in una ipotesi di errore) posto che l'obbligo fiscale sorto da una sentenza (immediatamente esecutiva) poi riformata, secondo una fisiologica dinamica processuale, è venuto meno con effetto ex tunc (Cass. n. 6072 del 2012; Cass. n. 8829 del 2007) per effetto della riforma in grado successivo sicché si versa in ipotesi di inesistenza dell'obbligo di versamento o di errore (Cass. n. 31766 del 2018).

L'azione di restituzione e riduzione in pristino, che venga proposta a seguito della riforma cassazione della sentenza contenente il titolo del pagamento, si collega ad una esigenza di restaurazione della situazione patrimoniale anteriore a detta sentenza e dunque di prestazioni eseguite ricevute nella comune consapevolezza della rescindibilità del titolo e della provvisorietà dei suoi effetti, cioè giuridicamente di un pagamento non dovuto (Cass. n. 21699 del 2011 richiamata da Cass. n. 31766 del 2018; Cass. n. 440 del 2019).

Ne segue che non vi sono ragioni per modificare il principio, peraltro più aderente alla peculiarità del rapporto di lavoro subordinato, per cui il solvens non può ripetere dall'accipiens, in ogni caso, più di quanto quest'ultimo abbia effettivamente percepito, in considerazione del fatto che nel rapporto di lavoro subordinato il datore di lavoro versa al lavoratore la retribuzione al netto delle ritenute fiscali e, quando corrisponde per errore una retribuzione maggiore del dovuto, opera ritenute fiscali errori per eccesso (Cass. n. 1464 del 2012 e Cass. n. 23093 del 2014 richiamate da Cass. n. 31766 del 2018; Cass. n. 12933 del 2018).

In definitiva il datore di lavoro, salvi i rapporti col fisco, può ripetere l'indebito nei confronti del lavoratore nei limiti di quanto effettivamente percepito da quest'ultimo, restando esclusa la possibilità di chiedere la restituzione di somme al lordo delle ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente (Cass. n. 990 del 2019; Cass. n. 440 del 2019; Cass. n. 31766 del 2018; Cass. n. 31655 del 2018 e n. 31656 del 2018; Cass. n. 19735 del 2018; Cass. n. 12933 del 2018; Cass. n. 2135 del 2018; Cass. n. 23093 del 2014).

Infine, non può trovare applicazione nella fattispecie il principio secondo cui il debitore principale verso il fisco è il percettore del reddito imponibile e non il suo sostituto d'imposta onde sarebbe al medesimo debitore principale che compete il diritto di ripetere quanto eventualmente pagato in eccesso all'Erario (Cass. n. 23886 del 2007), in quanto tale principio riguarda i rapporti tra sostituto d'imposta, sostituito e fisco, ma non afferma che al lavoratore sostituito posso essere richiesto quanto versato dal sostituto ad un terzo (l'amministrazione finanziaria) – Cons. Stato, sez. VI, n. 1164 del 2009.

Del resto, in tema di rimborso delle imposte sui redditi, ai sensi dell'art. 38 deld.P.R. n. 602 del 1973, sono legittimati a richiedere all'Amministrazione finanziaria il rimborso delle somme non dovute e ad impugnare l'eventuale rifiuto dinanzi al giudice tributario sia il soggetto che ha effettuato il versamento (quale sostituto di imposta) sia il percipiente delle somme assoggettate a ritenuta (cd. sostituito) (Cass. 29 luglio 2015 n. 16105 ed i riferimenti giurisprudenziali ivi contenuti citata da Cass. n. 31655 del 2018 e n. 31656 del 2018; Cass. n. 990 del 2019; Cass. n. 2135 del 2018) per cui non vi sono ostacoli alla ripetizione diretta delle ritenute in questione da part del datore di lavoro nei confronti dell'Erario.

Il sopra riassunto orientamento risulta inoltre essere condiviso anche da recenti pronunce di merito (tra cui la stessa Corte d'Appello di Roma sez. lav., 11/01/2019, n. 39 e 2/11/2015, n. 3405; Corte d'appello di Genova, sez. lav., 1 giiugno 2017, n. 276; Tribunale Chieti sez. lav., 19 febbraio 2018, n.68; T.A.R. Milano, (Lombardia) sez. III, 06/11/2017, n.2094; Corte appello L'Aquila sez. lav., 18 febbraio 2016, n.168).

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.