Il “rigido” sistema delle preclusioni alla luce dei recenti interventi giurisprudenziali

19 Marzo 2019

Con l'entrata in vigore della l. n. 353/1990 il processo civile ordinario si è informato ad un rigido sistema di preclusioni, prima di allora conosciuto solo nel rito lavoro. Da quel momento il processo civile si è connotato per un sempre più stringente sistema di barriere e decadenze, nell'ottica della razionalizzazione, accelerazione e garanzia della “ragionevole durata del processo”. La difficoltà per gli operatori del diritto si radica nel fatto che le preclusioni sono altresì frutto dell'elaborazione giurisprudenziale, che è mutevole nel tempo, con la conseguenza che nuove preclusioni si formano anche in via interpretativa. Il presente contributo si pone l'obiettivo di fotografare lo stato attuale della materia anche alla luce della giurisprudenza formatasi al riguardo.
L'espressione “preclusioni”

L'espressione “preclusione” si deve soprattutto agli studi del Chiovenda che la identificava con la perdita, la consumazione di un diritto o di una facoltà processuale conseguente a tre diversi ordini di cause: (i) mancato esercizio entro un termine perentorio fissato dalla legge; (ii) compimento di attività incompatibile con l'esercizio del diritto o della facoltà che in seguito diviene impossibile, (iii) precedente valido compimento dell'atto. Secondo Taruffo, invece, la preclusione andrebbe intesa soltanto come mancato svolgimento tempestivo di un'attività, in assenza della quale la parte non può conseguire il risultato sperato; in sostanza verrebbe a coincidere con un onere, la cui sanzione è la decadenza. Nel codice di rito l'unico articolo che contiene il sostantivo “preclusione” è il 269 ult. comma, c.p.c.. Si fa poi riferimento ad attività “precluse” nell'art. 294, comma 1, c.p.c., là dove si dice che il contumace che si costituisce in giudizio non può compiere attività che gli sarebbero precluse, salvo il caso in cui dimostri che la nullità della citazione o della sua notificazione gli abbia impedito di avere conoscenza del processo o che la costituzione è stata impedita da causa a lui non imputabile. Altre norme che parlano espressamente di “preclusioni” non ve ne sono. Ad ogni modo quando si parla di preclusioni ci si riferisce alla decadenza delle parti dalla possibilità di compiere un'attività a causa (ii) della tardività dell'iniziativa, (ii) della sua irritualità o (iii) della già avvenuta consumazione del potere. Le preclusioni, intese in senso lato, possono quindi riguardare: le domande (e relativamente a queste, la loro precisazione, modificazione e mutatio); la chiamata in causa e l'intervento di terzi; le eccezioni; le conclusioni (anche relativamente a queste, la loro precisazione, modificazione e mutatio); le allegazioni di fatti (distinguendo tra quelli principali e quelli secondari); le argomentazioni difensive; il deposito di atti e documenti; le richieste istruttorie.

Le preclusioni istruttorie nel processo civile per fasi: thema probandum e thema decidendum

Occorre chiarire che l'istruzione probatoria si colloca subito dopo la fissazione del thema decidendum ovvero la cristallizzazione del complesso dei fatti costitutivi delle domande e delle eccezioni che identificano l'oggetto del giudizio. L'istruzione probatoria presuppone quindi l'esaurimento dell'attività assertiva delle parti, ragion per cui l'attività di deduzione dei mezzi di prova è condizionata dal thema decidendum posto dalle parti.

Il nesso logico e processuale tra attività assertiva, determinazione e cristallizzazione del thema decidendum e, dall'altro lato, attività probatoria delle parti, porta all'affermazione del principio per il quale non è possibile provare fatti che non siano stati ritualmente e tempestivamente allegati dalle parti. L'allegazione tempestiva del fatto determina la rilevanza probatoria del fatto medesimo e dei mezzi istruttori articolati per dimostrarne l'esistenza, in quanto solo il fatto tempestivamente allegato acquista idoneità decisoria ovvero ha attitudine a produrre gli effetti giuridici di cui si chiede l'accertamento in giudizio.

La giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., Sez.Un., 17 giugno 2004, n. 11353) ha evidenziato la predetta “necessaria circolarità” fra gli oneri di allegazione, di contestazione e gli oneri della prova. Allo stesso modo, anche la giurisprudenza di merito ha mostrato di recepire il principio affermando che è inammissibile, pur se formulata prima del decorso del termine di cui all'art. 183, comma 6, n. 2, la richiesta probatoria relativa a circostanze per la prima volta dedotte dopo lo spirare delle preclusioni assertive di cui all'art. 183, comma 6, n. 1 c.p.c. (Trib. Reggio Emilia, 14 giugno 2012; Trib. Piacenza, 30 novembre 2009).

É questa la ragione per la quale, pur avendosi una tempestiva deduzione di prova di un fatto, la stessa risulterà inammissibile nella misura in cui quel fatto non sia stato allegato tempestivamente entro il maturarsi delle preclusioni assertive (Giacomelli).

Ciò detto, occorre precisare la portata di tali affermazioni con riferimento alla distinzione tra fatti principali (per i quali la validità di quanto sopra detto resta confermata) e fatti secondari (per i quali invece quanto sopra detto non è operante).

I fatti principalisono i fatti costitutivi, modificativi, estintivi o impeditivi da cui deriva l'esistenza, la modificazione o la cessazione di una determinata pretesa fatta valere in giudizio, mentre i fatti secondarisono quelli la cui funzione è solamente la prova dell'esistenza di un fatto giuridico.

Ad esempio, fatti secondari sono i fatti dalla cui prova, in via indiziaria, ai sensi dell'art. 2729 c.c., può inferirsi l'esistenza di un fatto principale ignoto, secondo lo schema delle presunzioni semplici (Cass. civ., sez. III, 19 febbraio 2004, n.3321).

Per quel che qui rileva, tuttavia, per i fatti secondari, come anticipato, non opera la regola che vuole la deduzione della prova del fatto subordinata all'allegazione tempestiva dello stesso, in quanto il fatto secondario potrà essere allegato unitamente alla deduzione della prova del medesimo (Comoglio).

Le preclusioni istruttorie nel processo ordinario di cognizione

La disciplina del processo ordinario di cognizione prevede che ciascuna delle parti indichi già negli atti introduttivi (atto di citazione e comparsa di risposta), in modo specifico, i mezzi di prova di cui intende avvalersi e i documenti offerti in comunicazione (artt. 163 e 167 c.p.c.). Con riguardo alla fase introduttiva, tuttavia, non si registra il formarsi di preclusioni in quanto le norme citate non contemplano alcuna sanzione per la mancanza delle indicazioni istruttorie, né in termini di nullità, né in termini di decadenza. Ciò significa che è sempre possibile dedurre nuove prove successivamente, nella fase della trattazione della causa che si impernia sulle attività disciplinate dall'art. 183 c.p.c.e nella quale operano invece precise e puntuali preclusioni istruttorie.

Nello specifico, giova evidenziare che prima della riforma del 90'-95' le parti potevano formulare le richieste istruttorie fino a che la causa non passava alla fase della precisazione delle conclusioni. Con l'entrata in vigore della l. n. 353/1990, invece, il termine ultimo per la proposizione delle richieste istruttorie dirette è stato individuato nella prima memoria ex art. 184 c.p.c. (oggi del “183”), mentre per la prova contraria nella seconda memoria dello stesso articolo. All'indomani della riforma, tuttavia, qualche Giudice di merito, dalla lettura combinata dell'art. 163, comma 3, n. 5 c.p.c. (che prevede l'indicazione specifica nell'atto di citazione dei mezzi di prova dei quali l'attore intende valersi e dei documenti che offre in produzione) e del (vecchio testo) dell'art. 184 c.p.c. (in cui si diceva che su istanza di parte poteva essere assegnato un termine per produrre “nuovi” mezzi di prova), traeva la conclusione che le memorie “del 184” si potessero chiedere solo le prove necessitate dalla successiva dialettica processuale. Tale orientamento è stato smentito dalla giurisprudenza successiva (Cass. civ., sez. III, 25 novembre 2002, n. 16571).

In evidenza

Cass. civ., sez. III, 25 novembre 2002, n. 16571

Nel corso della prima udienza di trattazione le parti hanno facoltà di indicare mezzi di prova del tutto "nuovi" – e ciò avverrà, nel caso in cui provvedano ad ovviare a precedenti omissioni, come è loro consentito, poiché nessuna sanzione è prevista per il caso di mancata formulazione dei mezzi di prova nell'atto di citazione e nella comparsa di risposta – ovvero mezzi di prova "ulteriori e diversi" rispetto a quelli già articolati; mezzi "nuovi" o "ulteriori e diversi" la cui deduzione non è neppure condizionata dall'effettiva emersione di novità nella udienza di trattazione.

Oggi nell'art. 183 c.p.c. è stato eliminato l'aggettivo “nuove”, ragion per cui l'interpretazione data dalla Suprema Corte ne esce rafforzata.

Pertanto attualmente il termine ultimo per articolare i mezzi istruttori e per produrre documentazione a sostegno delle proprie domande ed eccezioni coincide con la seconda memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c., a prescindere che si tratti di prove nuove o che si potessero proporre sin dall'inizio (con la memoria di cui al n. 3 dell'art. 183, comma 6, c.p.c.è possibile unicamente dedurre le prove contrarie, anche documentali). Naturalmente a ciò fa eccezione il giuramento decisorio che ai sensi dell'art. 233 c.p.c. può essere deferito in qualunque stato della causa davanti al giudice istruttore, come pure della querela di falso ex art. 221 c.p.c. e il deposito di documenti che legittimerebbero la revocazione ex art. 395, comma 1, n. 3, c.p.c..

Circa le prove dirette la prevalente giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., sez. I, 19 marzo 2004, n. 5539) ritiene che debbano essere tutte (sia quelle costituite che quelle costituende) articolate e prodotte entro lo stesso termine. Pertanto, l'unica differenza è data dal fatto che mentre la prova costituenda è soggetta ad una preventiva valutazione di ammissibilità, la prova precostituita verrà semplicemente valutata dal giudice al momento della decisione, senza possibilità di espunzione, laddove ritualmente prodotta.

Per ciò che nello specifico concerne la prova testimoniale si rammenta quanto disposto dall'art. 244 c.p.c.. Tale disposizione ha il duplice scopo di: (i) consentire all'avvocato di formulare i capitoli di prova contraria indicando i propri testimoni e (ii) consentire al giudice di valutare se la prova richiesta sia concludente e pertinente. La Suprema Corte (Cass. civ., sez. I, 31.01.2007, n. 2201), con riferimento a tale ultimo scopo, ha chiarito che la norma di cui all'art. 244 c.p.c. deve considerarsi di carattere cogente, sicché la sua inosservanza determina l'inammissibilità del mezzo istruttorio. Inoltre si segnala che l'indicazione del nome dei testimoni deve essere contestuale alla formulazione dei capitoli di prova (Cass. civ., sez. III, 7 dicembre 2005, n.27007).

La prova contraria, come detto, è oggi relegata alla terza memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c.. Per prova contraria deve intendersi sia la prova costituenda, che quella costituita (Cass. civ., n. 2656/2005). Si rammenta che la prova contraria può essere diretta, se ci si limita ad indicare i propri testi sui capitoli avversari, e indiretta, se tende a dimostrare, con capitoli formulati ad hoc, fatti incompatibili con quelli che vuole dimostrare l'altra parte.

Questione assai interessante è quella del momento della formulazione della prova contraria. Secondo un orientamento di merito e di dottrina, se la prova diretta viene formulata in atto di citazione, il termine ultimo per formulare la prova contraria sarebbe dato dalla comparsa di costituzione e risposta. Tale soluzione è stata però sconfessata dalla Suprema Corte (sent. n. 2656/2004).

La rilevabilità d'ufficio delle preclusioni istruttorie

La giurisprudenza di merito, in conformità alla tesi dottrinale maggioritaria, ha sempre ritenuto che le preclusioni istruttorie fossero rilevabili d'ufficio, in ragione sia della natura perentoria del termine per le loro deduzioni, sia della natura pubblicistica dell'interesse tutelato (inter alia cfr. Trib. Roma, 2 febbraio 2005; Trib. Torino, 19 febbraio 2003). La tesi è stata avallata anche dalla Suprema Corte la quale ha affermato che il regime delle preclusioni introdotto nel rito civile ordinario con le riforme del 90'-95' deve ritenersi inteso non solo nell'interesse di parte, ma anche nell'interesse pubblico all'ordinato e celere andamento del processo, con la conseguenza che la tardività delle domande, eccezioni, allegazioni e richieste, deve essere rilevata d'ufficio dal giudice indipendentemente dall'atteggiamento processuale della controparte al riguardo e dall'eventuale accettazione del contraddittorio (Cass. civ.,sez. I, 19 marzo 2004, n. 5539; Cass. civ., sez. III, 15 gennaio 2002, n. 378).

Segue. Le preclusioni istruttorie nel rito sommario di cognizione

Il processo sommario regolato dagli artt. 702-bis e ss. c.p.c. si definisce come un giudizio a trattazione ed istruzione semplificata ma a cognizione piena (Besso) e si caratterizza per l'assenza di una predeterminazione legislativa delle articolazioni delle fasi di trattazione, istruzione e decisione (Giacomelli). Nondimeno, anche nel processo sommario si delinea un sistema di preclusioni assertive e probatorie che trova il suo perno non tanto negli atti introduttivi quanto piuttosto nella prima udienza di trattazione della causa.

Stando alla lettera della legge, uniche decadenze espressamente codificate sono, in effetti, quelle inerenti alle facoltà del convenuto di proporre domande riconvenzionali e di sollevare eccezioni in senso stretto (ovvero non rilevabili d'ufficio). La disciplina del contenuto degli atti introduttivi prevede indubbiamente che in essi avvenga l'allegazione dei fatti posti a fondamento delle rispettive posizioni processuali ma non vi sono specifiche decadenze collegate agli atti introduttivi medesimi e al momento della costituzione in giudizio, se si eccettua, con riguardo al resistente, la decadenza espressa relativa alle domande riconvenzionali e alle eccezioni in senso stretto che devono essere formulate – appunto – nella comparsa di costituzione tempestivamente depositata nel termine previsto dall'art. 702-bis comma 3 c.p.c.. Un primo orientamento dottrinario, pertanto, esclude la configurabilità di decadenze ulteriori valorizzando l'elasticità e la deformalizzazione che caratterizzerebbero il rito sommario di cognizione. Secondo un diverso orientamento, al contrario, all'udienza e non oltre la stessa le parti dovranno fissare in modo definitivo il thema decidendum e il thema probandum.

Tuttavia, secondo Cass. civ., n. 25547/2015 nel rito sommario di cognizione si applicano le stesse preclusioni sulla proposizione di mezzi istruttori del rito ordinario. Ciò in quanto neanche l'art. 702-bisc.p.c. «sancisce infatti alcuna preclusione istruttoria, dovendosi al più argomentare sul piano logico che una compiuta articolazione probatoria, operata già in sede di ricorso e di comparsa di risposta, occorra perché il giudice possa consapevolmente adoperare in udienza l'eventuale potere di conversione di rito e di fissazione dell'udienza ex art. 183 c.p.c.».

In conclusione, la Suprema Corte osserva piuttosto che nel procedimento ex art. 702-bis c.p.c. si deve ritenere che il momento preclusivo per la proposizione dell'attività istruttoria non sia la presentazione degli atti introduttivi ma proprio l'ordinanza con cui il decidente può disporre la conversione del rito e la fissazione di udienza ex art. 183 c.p.c.. Questo per «non accedere alla tesi estrema, secondo cui attore e convenuto sono liberi di svolgere nuove attività, istanza e produzioni per l'intero corso del procedimento e sino a che la causa non passi in decisione». In sostanza, secondo la Cassazione, si deve ritenere come «in particolare i commi 1 e 4 dell'art. 702-bis c.p.c., i quali prescrivono, rispettivamente, che il ricorso e la comparsa di risposta contengano, fra l'altro, l'indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali attore e convenuto intendono avvalersi, come dei documenti offerti in comunicazione, non valgono a segnare alcuna preclusione istruttoria, e quindi non comportano, in caso di omissione, alcuna decadenza».

Segue. Le preclusioni istruttorie nel giudizio davanti al giudice di pace

Nel processo davanti al giudice di pace non vi sono preclusioni legate agli atti introduttivi né termini di costituzione la cui violazione importi, in particolare per il convenuto, decadenze specifiche. Nel procedimento davanti al giudice di pace non è configurabile una distinzione tra udienza di prima comparizione e prima udienza di trattazione, per cui deve ritenersi che le parti all'udienza di cui all'art. 320 c.p.c. possano ancora allegare fatti nuovi e proporre nuove domande od eccezioni, in considerazione del fatto che esse sono ammesse a costituirsi fino a detta udienza. Pertanto, è all'udienza di prima comparizione e trattazione, disciplinata dall'art. 320 c.p.c., che si consumano le preclusioni sia concernenti le attività assertive e la determinazione dell'oggetto del giudizio sia quelle relative all'attività di deduzione e allegazione istruttoria.

Il momento centrale dell'udienza si individua infatti proprio nell'invito del giudice alle parti affinché precisino definitivamente i fatti posti a fondamento della domanda, difese ed eccezioni, producano i documenti e indichino i mezzi di prova da assumere.

Il rito è caratterizzato dal regime di preclusioni che assiste il procedimento dinanzi al tribunale, le cui disposizioni sono applicabili in mancanza di diversa disciplina; ne consegue che, dopo la prima udienza, in cui il giudice invita le parti a "precisare definitivamente i fatti", non è più possibile proporre nuove domande o eccezioni e allegare a fondamento di esse nuovi fatti costitutivi, modificativi, impeditivi o estintivi, né tale preclusione è disponibile dal giudice di pace mediante un rinvio della prima udienza, per consentire tali attività oramai precluse, e parimenti l'omissione da parte del giudice del predetto formale invito non impedisce la verificazione della preclusione (Cass. civ., sez. I, 7 aprile2000, n. 4376).

Se dall'attività svolta dalle parti alla prima udienza si rende necessaria una produzione di nuovi documenti o richieste di nuovi mezzi istruttori, il giudice concede un rinvio ex art. 320, comma 4, c.p.c.. Tale termine è quindi concedibile solo per integrare i mezzi di prova nella misura in cui tale integrazione derivi dalle difese svolte dalla controparte (G.d.P. Reggio Emilia n. 46/2017).

Le preclusioni istruttorie nel rito lavoro: cenni

Nel rito del lavoro si delinea il seguente quadro di preclusioni assertive ed istruttorie:

  • ai sensi dell'art. 414 c.p.c. il ricorrente deve determinare l'oggetto della domanda ed esporre i fatti e gli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda con le relative conclusioni nonché indicare in modo specifico i mezzi di prova di cui intende avvalersi e dei documenti offerti in comunicazione;
  • l'art. 416 c.p.c. prevede che il convenuto debba, nella propria memoria difensiva, prendere posizione in maniera precisa e non generica sui fatti affermati dall'attore a fondamento della domanda, proporre tutte le sue difese in fatto e in diritto ed indicare specificamente, a pena di decadenza, i mezzi di prova dei quali intende avvalersi ed in particolare i documenti che deve contestualmente depositare.

Il codice prevede espressamente la sanzione della decadenza, con riguardo, tra l'altro, alle attività istruttorie, solo nella disciplina dell'atto introduttivo del convenuto. Tuttavia, l'orientamento pacifico della Suprema Corte è fermo nel ritenere che, sia il ricorrente sia il resistente incorrano in decadenza ove non indichino i mezzi di prova negli atti introduttivi, tempestivamente depositati, e non producano i documenti contestualmente al deposito di detti atti. Il fondamento argomentativo per l'affermazione del carattere perentorio dei termini in esame si rinviene nelle disposizioni di cui all'art. 420, commi 1 e 5, c.p.c.: la prima previsione consente alle parti, a condizione che ricorrano gravi motivi, di modificare le domande, eccezioni e conclusioni già formulate, all'udienza di discussione ex art. 420 c.p.c., previa autorizzazione del giudice; la seconda prevede che il giudice, ad esito dell'udienza, ammetta i mezzi di prova già proposti dalle parti e quelli che le parti non abbiano potuto proporre prima. Entrambe le previsioni presuppongono, evidentemente, la formazione anteriore (collegata al deposito degli atti introduttivi) di barriere preclusive sia per le attività assertive sia per le attività istruttorie. Il deposito tardivo, ad esempio, all'udienza di discussione, di documenti, così come l'indicazione tardiva dei mezzi di prova, non sono dunque ammissibili in quanto la violazione delle preclusioni poste implica decadenza dal relativo potere processuale, rilevabile d'ufficio dal giudice e non disponibile dalle parti.

Tuttavia si evidenzia che secondo:

In evidenza

Cass. civ., Sez. Lav., 17 luglio 2015, n. 15043

Nel rito del lavoro il rigoroso sistema delle preclusioni, che regola in egual modo sia l'ammissione delle prove costituite che di quelle costituende, trova un contemperamento – ispirato all'esigenza della ricerca della ‘verità materiale', cui è doverosamente funzionalizzato il rito del lavoro – nei poteri d'ufficio del giudice di ammissione di nuovi mezzi di prova ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa e abbiano ad oggetto fatti ritualmente allegati dalle parti.

In conclusione

Come si è visto (facendo salva la breve e poco significativa vigenza in forma originaria del Codice di rito “1942-1950”) per moltissimo tempo il processo civile ordinario si è caratterizzato per l'assenza di preclusioni. È grazie alla riforma di cui alla l. n. 353/1990 che si è avuta una “sterzata” verso un rigido sistema prima di allora conosciuto solo nel rito lavoro. In effetti sembra che proprio sulla base delle soluzioni inaugurate dalla l. n. 533/1973 per il rito del lavoro (probabilmente grazie all'impatto positivo che tale nuovo rito ebbe) si è andata sempre più diffondendo la convinzione che la realizzazione di un processo rapido ed efficiente passi necessariamente (anche) attraverso la previsione di limiti temporali più o meno rigorosi alle allegazioni e alle richieste istruttorie delle parti. Quanto detto si completa con la riforma dell'art. 111 Cost. ad opera della l.cost. n. 2/1999 che ha imposto alla legge di assicurare la “ragionevole durata del processo”.

Tuttavia, occorre constatare che la sempre crescente necessità di ridurre i tempi della giustizia può condurre a scelte legislative incaute nel ponderare gli effetti positivi che le preclusioni possono conseguire sul piano della durata media dei giudizi, rispetto all'obiettivo della ricerca della verità cui la sentenza aspira. In tale contesto l'elaborazione giurisprudenziale [si rimanda a M. Di Marzio, Prove (nuove) in appello, su www.ilProcessoCivile.it dedicato alle preclusioni nel rito lavoro ovvero ancora al revirement giurisprudenziale relativo all'ammissibilità di nuovi documenti in appello nell'ipotesi in cui tali documenti risultino indispensabili per dissipare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia giudiziale oggetto di gravame (Cass. civ., 9 novembre 2017, n. 26522)] opera come correttivo consentendo un giusto contemperamento, ispirato all'esigenza della ricerca della ‘verità materiale'.

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