Mobbing condominiale e immobiliare

Maurizio Tarantino
21 Marzo 2019

Affinché il mobbing venga riconosciuto, è necessario provare l'esistenza di un disegno persecutorio da parte del datore di lavoro, mettendo in chiara correlazione gli episodi con la volontà di vessare il dipendente. Nel caso del portiere in condominio, però, la condotta vessatoria potrebbe risultare più complessa, per il fatto che, sul posto di lavoro, il custode...
Il quadro normativo

Dal punto di vista giuridico, pur in assenza di una legge specifica sul mobbing, nel nostro ordinamento esistono diverse norme, costituzionali e civilistiche, che permettono di difendersi dai comportamenti persecutori che avvengono in àmbito lavorativo.

In termini civilistici, l'incidenza del mobbing sul contratto di lavoro deriva essenzialmente dalla violazione dell'art. 2087 c.c. combinata con altre norme a seconda della fattispecie (antidiscriminatorie, disposizioni dello Statuto dei Lavoratori e del codice civile che regolamentano il potere disciplinare del datore di lavoro).

L'art. 2087 c.c., da cui discendono una serie di obblighi per il datore di lavoro, così recita: «l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».

Secondo alcuni orientamenti, l'obbligo contemplato dalla norma non è circoscritto al solo rispetto della legislazione tipica della prevenzione, implicando altresì il dovere dell'azienda di astenersi da comportamenti lesivi dell'integrità psico-fisica del lavoratore. La disposizione richiamata, nella interpretazione comunemente accolta, si ispira al principio del diritto alla salute, inteso nel senso più ampio, bene giuridico primario garantito dall'art. 32 Cost. e correlato al principio di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. E da tale disposizione sorge il divieto per il datore di lavoro, non solo di compiere direttamente qualsiasi comportamento lesivo della integrità psico-fisica del prestatore di lavoro, ma anche l'obbligo di prevenire, scoraggiare e neutralizzare qualsiasi comportamento posto in essere dai superiori gerarchici, preposti o di altri dipendenti nell'ambito dello svolgimento dell'attività lavorativa.

Il mobbing nel diritto del lavoro

Il termine mobbing è stato coniato da un etologo austriaco e deriva dal verbo inglese “to mob”, che significa letteralmente “attaccare, assalire, aggredire, accerchiare”.

Inizialmente si utilizzava con riferimento a tutti quegli atteggiamenti animali perpetrati da uno o più membri del branco, nei confronti del c.d. anello debole, al fine di estraniarlo dal resto del branco e allontanarlo.

Oggi, l'accezione del termine si è sviluppata sino ad indicare le persecuzioni psicologiche perpetrate da parte di uno o più individui nei confronti di un altro, con il chiaro intento di danneggiarlo ed emarginarlo.

Il contesto principale in relazione al quale si è iniziato a parlare di mobbing come ad un comportamento illecito, giuridicamente rilevante, è quello lavorativo. In tale contesto il mobbing si estrinseca in tutti quei comportamenti, reiterati nel tempo, che il datore di lavoro o i colleghi pongono in essere, per svariate ragioni, al fine di emarginare e allontanare un determinato lavoratore.

Da tale definizione è possibile far discendere una prima forma di classificazione del mobbing:

a) Verticale, detto anche “bossing”, rappresenta la tipologia più diffusa. Consiste in abusi e vessazioni perpetrati sistematicamente, ai danni di uno o più dipendenti da un loro diretto superiore gerarchico. Questa pratica combina, in maniera premeditata, azioni a scopo intimidatorio con veri e propri atti di violenza psico-fisica e di esclusione dai privilegi aziendali. L'intento è quello di creare nella vittima un senso di emarginazione e di cagionarle frustrazione e ansia crescenti.

b) Orizzontale, consiste nell'insieme di atti persecutori messi in atto da uno o più colleghi nei confronti di un altro, spesso finalizzati a screditare la reputazione di un lavoratore mettendo in crisi la sua posizione lavorativa (esempio, ingiurie, offese, pettegolezzi, critiche).

c) Il low mobbing (inusuale), si estrinseca in plurime azioni che mirano a ledere la reputazione delle figure aziendali di spicco, ad esempio, a seguito di un loro comportamento non ritenuto idoneo dai dipendenti o per motivi futili (esempio, crisi economica aziendale, invidia).

d) Il c.d. straining, si tratta di azioni ostili o discriminatorie sporadiche, prive del requisito della continuità, i cui effetti sono continui nel tempo. Rientrano tra esse: la privazione immotivata degli strumenti di lavoro; l'assegnazione di mansioni incompatibili con la situazione personale del lavoratore; il trasferimento ingiustificato in una sede disagiata; la svalutazione dell'operato del lavoratore.

Sebbene il termine venga utilizzato soprattutto per riferirsi a situazioni nel mondo del lavoro, più in generale, il termine indica i comportamenti violenti che un gruppo (sociale, familiare, animale) rivolge a un suo membro. Ad esempio, nella scuola (viene definito bullismo); all'interno delle forze armate (nonnismo) ma anche in varie tipologie di aggregazione sociale non legate a professioni o ambiti lavorativi, come tra amici, gruppi o bande giovanili, circoli sportivi, associazioni ricreative.

Premesso quanto innanzi esposto, dal punto di vista giuridico si osserva che la Corte di Cassazione ha ormai elaborato da tempo il concetto di mobbing. Secondo un primo orientamento, si può, ad esempio, ricavare una definizione che fa riferimento ad un eterogeneo fenomeno consistente in una serie di atti e comportamenti vessatori protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo (Cass. civ., sez. lav., 25 settembre 2014, n. 20230).

Le caratteristiche del mobbing sono poi state ribadite in altro provvedimento, in base al quale l'onere della prova grava integralmente sul lavoratore che denunci di essere stato vittima di condotte vessatorie da parte del datore di lavoro (Cass. civ., sez. lav., 15 maggio 2015, n. 10037). Si tratta di un duplice onere probatorio in quanto il lavoratore, parte offesa, dovrà dare prova piena: del fatto e dei comportamenti subiti aventi natura illecita. In altra pronuncia, i giudici hanno evidenziato che per poter ricorrere alla tutela giudiziaria, il lavoratore deve dimostrare l'intento persecutorio che non deve assistere le singole condotte poste in essere a suo danno, ma deve ricomprenderle in un unico disegno vessatorio (Cass. civ., sez. lav., 15 febbraio 2016, n. 2920).

Infine, sulla quantificazione del pregiudizio subito a seguito di mobbing, il giudice ha rilevato come il danno morale non scatta in re ipsa come danno evento, ma è comunque un danno-conseguenza che deve essere provato dal richiedente (Trib. Nocera Inferiore 7 maggio 2014).

In conclusione, possiamo definire il mobbing come la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protrattanel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore, che si manifesti incomportamenti ostili, reiterati e sistematici,esorbitanti o incongrui rispetto all'ordinariagestione del rapporto, espressivi di un disegnoin realtà finalizzato alla persecuzione o allavessazione del lavoratore, tale che ne conseguaun effetto lesivo della sua salutepsicofisica(Cons. Stato, sez. VI, 16 aprile 2015, n. 1945).

Aspetti generali dei rapporti di lavoro in condominio

In argomento è importante evidenziare che il d.lgs. n. 81/2008 definisce il “lavoratore” come la persona che svolge un'attività lavorativa nell'ambito dell'organizzazione di un datore di lavoro, e il «datore di lavoro» come il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o comunque il soggetto che ha la responsabilità dell'organizzazione in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa. Sono quindi necessari un rapporto di lavoro, un'organizzazione, poteri decisionali e di spesa; senza dimenticare il principio di effettività richiamato dall'art. 299 dello stesso d.lgs. n. 81/2008 che considera “datore di lavoro” chi esercita di fatto poteri direttivi nei confronti di lavoratori.

a) Il lavoratore condominiale.

Quando un condominio contrattualizza le prestazioni d'opera di un custode, di un portiere, di un addetto alle pulizie, di un giardiniere, di un manutentore, quando applica un contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) diventa datore di lavoro.

b) Il datore di lavoro.

È pacifico che il lavoratore venga assunto e lavori nell'interesse di tutti i condomini, così come è pacifico che chi “esercita i poteri decisionali e di spesa” (frase discriminante per individuare il datore di lavoro ai sensi del d.lgs. n. 81/2008) sia l'assemblea dei condomini. Ma più volte gli Organi di Vigilanza hanno precisato che le responsabilità penali richiedono l'individuazione, quando possibile, di una figura precisa: questa figura nel condominio è incarnata da colui che ha il compito di dare esecuzione alle delibere assembleari, e quindi l'amministratore pro tempore.

c) I compiti dell'amministratore.

Quando il condominio si comporta come un'azienda e ha a proprio carico dei dipendenti (è il caso del portiere, del giardiniere, dell'addetto alle pulizie o del tecnico della manutenzione) è l'amministratore pro tempore ad assumere le vesti di datore di lavoro e, pertanto, spetta a lui verificare il rispetto delle disposizioni in tema di salute e sicurezza previste dal d.lgs. n. 81/2008. Diverso, invece, è il caso in cui il condominio figuri come committente di un appalto: in questo frangente, infatti, l'amministratore può avvalersi di una figura terza e tecnica a cui affidare l'onere dei controlli. Fermo restando, comunque, che resta a suo carico un compito di supervisione e vigilanza.

Premesso ciò, possiamo dire che la materia del condominio-datore di lavoro, oggetto anche di pronunciamenti giuridici, è regolata nel Testo Unico sulla sicurezza (chiarimento del Ministero del Lavoro sull'applicazione della norma). Nello specifico - in vece del condominio datore di lavoro - l'amministratore ha il dovere di tutelare non solo i dipendenti che risultano inquadrati dal Contratto collettivo dei proprietari di fabbricati, ma tutti quei lavoratori subordinati, che all'interno del singolo palazzo o complesso svolgano mansioni affini a quelle indicate nel contratto nazionale.

Il condominio è datore di lavoro quando assume una lavoratrice o un lavoratore con un contratto, un orario, uno stipendio. Ma è anche datore di lavoro “di fatto” quando esercita poteri direttivi verso lavoratori formalmente incaricati con forme di contratto lecite (appalto, contratto d'opera, lavoro occasionale, ecc.) ma utilizzate non correttamente.

Il mobbing in condominio

Il mobbing può verificarsi in tutti gli ambienti di lavoro e, dunque, anche nel condominio, nei confronti del portiere. Affinché il mobbing venga riconosciuto, è necessario provare l'esistenza di un disegno persecutorio da parte del datore di lavoro, mettendo in chiara correlazione gli accadimenti con la volontà di vessare il dipendente. Nel caso del portiere, però, la condotta vessatoria potrebbe risultare più complessa, per il fatto che sul suo posto di lavoro il custode potrebbe subire le angherie oltre che dall'amministratore - in veste di datore di lavoro - anche dei condòmini.

In argomento, con particolare riguardo alle possibili ipotesi di mobbing in condominio e, nella fattispecie concreta, alle condotte vessatorie poste in essere nei confronti del portiere dello stabile condominiale, esistono isolate pronunce che evidenziano le difficoltà e gli aspetti problematici di tale istituto.

Di recente, i giudici di legittimità (Cass. civ., sez. lav., 16 ottobre 2018, n. 25872), sia pure incidentalmente, attesa la declaratoria di inammissibilità del ricorso, hanno trattato un giudizio per il quale i giudici di merito avevano ammesso delle oggettive difficoltà nell'accertamento delle condotte persecutorie allorquando vengano poste in essere dal condominio, in considerazione della «pluralità di datori di lavoro rappresentati dai singoli condòmini». In tal vicenda, Sempronio (ex portiere dello stabile) aveva convenuto in giudizio il Condominio esponendo di aver lavorato come portiere con alloggio con regolare inquadramento. Il ricorrente aveva dedotto di aver subito, nel corso del rapporto, un comportamento persecutorio da parte dell'amministratore e di taluni condomini, di non aver percepito una retribuzione adeguata alle mansioni effettivamente svolte e, infine, di aver subito un licenziamento illegittimo.

Sulla scorta di tali premesse, il ricorrente aveva impugnato l'intimato recesso e aveva chiesto la condanna della parte datoriale al risarcimento del danno biologico, morale e esistenziale.

All'esito dell'istruttoria di causa, il giudice adito accoglieva in parte il ricorso e condannava il condominio al pagamento della somma a titolo di differenze retributive, comprensive di t.f.r.; tuttavia, rigettava le domande volte a conseguire la declaratoria di illegittimità del licenziamento e il risarcimento del danno da mobbing. In secondo grado, la Corte distrettuale confermava la pronuncia del giudice di prima istanza. In pratica, la Corte d'Appello, in estrema sintesi, confermava l'iter argomentativo seguito dal primo giudice in ordine alla insussistenza degli elementi coessenziali alla configurazione di un comportamento vessatorio da parte datoriale. Difatti, secondo i giudici, nella fattispecie in esame, mancavano i requisiti «della intenzionalità della condotta nonché l'elemento delle condotte mobbizzanti, ascrivibili all'animus nocendi».

Nel successivo giudizio di legittimità, la Suprema Corte ha confermato il ragionamento espresso dai giudici di merito. Difatti, sia la deposizione testimoniale che il certificato di servizio dell'amministratore, escludevano la portata decisiva ai fini della soluzione della questione delibata; invero, dall'analisi effettuata sulle denunciate condotte realizzate dai condomini, la cassazione ha confermato che queste non potevano costituire fonte di risarcimento danni da mobbing. Del resto, come già sostenuto dalla Corte territoriale, nella presente vicenda vi era una vera e propria difficoltà di configurare la fattispecie del mobbing a causa della frammentazione del condominio datore di lavoro, in una pluralità di “datori di lavoro impersonati dai singoli condomini”. Per le suesposte ragioni, la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso.

Oltre a tale vicenda, il mobbing in condominio è stato anche affrontato in altra giurisprudenza di merito.

In quest'ultimo caso, il giudice adito ha precisato che la ricorrenza di un'ipotesi di condotta mobbizzante deve essere esclusa qualora la valutazione complessiva dell'insieme di circostanze allegate, pur sé idonea a palesare elementi o episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare il carattere persecutorio e discriminante nei confronti del portiere delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro. Nella fattispecie, le circostanze denunciate, secondo il Tribunale, potevano essere ricondotte a una possibile situazione di conflittualità che normalmente può insorgere fra dipendente e datore di lavoro, senza, tuttavia, costituire atteggiamenti vessatori non sussistendo alcun intento discriminante nei confronti del ricorrente. Difatti, dai documenti allegati in atti era emerso un conflitto tra l'amministratore e il ricorrente (ex portiere); però, anche in questo caso, non è stato possibile configurare una fattispecie di mobbing in quanto non era stata dimostrata una condotta emulativa, pretestuosa, protratta nel tempo, sistematica ed avente vero e proprio carattere e contenuto persecutori, finalizzata alla mortificazione e all'emarginazione del lavoratore (Trib. Catania 15 maggio 2012, n. 2161).

In conclusione, alla luce di tutto quanto innanzi esposto, si evidenzia che la ricorrenza di un'ipotesi di condotta mobbizzante deve essere esclusa qualora i denunciati episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consentono di individuare il carattere persecutorio nei confronti del lavoratore (in questo caso del portiere in condominio).

Nuova tipologia di danno: il mobbing immobiliare

Oltre alla materia lavoristica, il mobbing è stato riconosciuto anche nella materia locatizia.

Nella vicenda sottoposta al vaglio della Suprema Corte, l'ex inquilino sosteneva, tra i vari motivi di ricorso, di aver dovuto sopportare, negli ultimi 15 anni di contratto, una serie di iniziative giudiziarie temerarie nei suoi confronti, tutte risoltesi a suo favore. Nello specifico, come ultimo episodio, il conduttore aveva impugnato la sentenza con cui era stata dichiarata inammissibile l'opposizione tardiva proposta contro l'ordinanza emessa nei suoi confronti di convalida di licenza per finita locazione. Tale vicenda traeva origine da un'azione promossa da locatore a cui il conduttore si era opposto tardivamente, adducendo l'esistenza di motivi di natura ansioso depressivi che non gli avevano consentito di esercitare una tempestiva opposizione.

Con l'occasione, per quanto ci interessa, il conduttore domandava, altresì, il risarcimento del danno per il mobbing immobiliare subito dal locatore nel corso della durata del contratto di locazione. Difatti, l'inquilino aveva denunciato le continue pressioni, anche illegali, cui era stato sottoposto dai proprietari: tutte infondate e temerarie, costituenti indebita e scorretta forma di pressione da cui era derivato un pesante stato di stress.

Sia in primo che in secondo grado, la richiesta risarcitoria veniva rigettata e pertanto il conduttore promuoveva ricorso in Cassazione.

In tale giudizio, secondo gli ermellini, la Corte territoriale non aveva esaminato l'esistenza o meno della sequenza persecutoria denunciata contro il locatore: «come se - non potesse - essere configurabile un illecito composto da una pluralità di condotte poste in essere in un anche ampio lasso temporale».

A detta dei giudici di legittimità, tale assunto non era condivisibile in quanto il fatto che sussista una tutela specifica, per la lite temeraria, non ha alcuna pertinenza con l'ipotesi in cui vi sia una condotta persecutoria, concretizzata proprio nella continuativa pluralità di iniziative giudiziarie tese a molestare l'inquilino.

E ancora, secondo i giudici di Piazza Cavour, la Corte d'Appello, senza prendere minimamente in esame la documentazione acquisita nel corso dell'istruttoria, si era solo limitata a dichiarare inammissibile la domanda risarcitoria per mobbing immobiliare, affermando che il conduttore avrebbe, al più, potuto agire ex art. 96 c.p.c., facendo eventualmente valere la responsabilità della locatrice di volta in volta, in relazione ai singoli procedimenti temerariamente intrapresi.

Ma tale motivazione, per la S.C., era chiaramente eccentrica rispetto all'oggetto in ordine al quale avrebbe dovuto essere fornita: invero, il ricorrente ha prospettato un illecito che si sarebbe realizzato, unitariamente e gradatamente, mediante una sequenza continuativa di pressione giudiziaria.

L'espressione “mobbing”, del resto, si utilizza proprio in riferimento a tale fattispecie ontologicamente “plurima”, ovvero quando, per integrare l'illecito, occorre non un'unica condotta, bensì una pluralità di condotte moleste e/o discriminanti, non considerate singolarmente, bensì nella loro intrinseca connessione.

Il fatto che sussista una tutela specifica, per la lite temeraria, non ha alcuna pertinenza con l'ipotesi in cui vi sia una condotta persecutoria che si sia concretizzata proprio nella continuativa pluralità di iniziative giudiziarie nei confronti del molestato.

Pertanto, alla luce delle considerazioni su esposte, la Suprema Corte ha accolto il motivo di ricorso e ha cassato con rinvio la sentenza con il seguente principio di diritto: «il mobbing immobiliare consiste nelle pressioni, anche illegali, dei proprietari per cacciare gli inquilini allo scopo di sfruttare meglio l'immobile. Sicché ove il proprietario abbia intrapreso una serie di azioni giudiziarie nei confronti del conduttore, tutte infondate e temerarie, ci si trova in una ipotesi di protratta condotta illecita, non ravvisabile tuttavia nell'avvio del singolo procedimento. Ne consegue l'impossibilità di reintegrazione della sfera giuridica lesa in ogni singolo procedimento mediante l'azione accessoria ex art. 96 c.p.c.» (Cass. civ., sez. III, 28 febbraio 2017, n. 5044).

In conclusione

È noto che il condominio viene comunemente ritenuto un ente di gestione che impersona l'interesse comune dei partecipanti, sfornito di autonoma personalità giuridica che rimane, pertanto, in capo ad ogni singolo condomino. In altri termini, il condominio non ha una propria autonoma personalità distinta da quella di coloro che ne fanno parte, ma è rappresentato dall'amministratore che costituisce, appunto, solo l'organo di rappresentanza unitaria del condominio. Pertanto, in tema di rapporti di lavoro, qualora il condominio si atteggi alla stessa stregua di un'azienda, come nel caso abbia alle proprie dipendenze dei dipendenti, è proprio l'amministratore che deve incarnare le vesti del datore di lavoro, tanto è vero che lo stesso, ad esempio, è obbligato al rispetto delle disposizioni in materia di sicurezza sul luogo di lavoro.

L'amministratore assume la posizione di garanzia, propria del datore di lavoro, nel caso in cui proceda direttamente all'organizzazione e direzione di lavori da eseguirsi nell'interesse del condominio stesso ma, in caso di affidamento in appalto di dette opere, tale evenienza non lo esonera completamente da qualsivoglia obbligo, ben potendo egli assumere, in determinate circostanze, la posizione di committente (Cass. pen., sez. III, 15 ottobre 2013, n. 42347). Ciò si evince anche dal disposto dell'art. 1130 c.c. laddove, tra le attribuzioni dell'amministratore viene annoverata anche quella della disciplina dell'uso delle cose comuni e la fruizione dei servizi nell'interesse comune, in modo che ne sia assicurato il miglior godimento a ciascuno dei condòmini. Detto ciò, la questione del mobbing non è di poco conto e, pur nella possibile obiettiva difficoltà di individuare condotte persecutorie in condominio, in considerazione del fatto che le stesse possono essere perpetrate sia dall'amministratore, ma anche dai singoli condòmini, appare indubbio che la stessa debba e possa essere risolta alla luce della normativa di settore e dei principi elaborati dalla giurisprudenza giuslavoristica. Per meglio dire, a prescindere dall'autore materiale della condotta illecita, l'art. 2087 c.c. dispone come l'imprenditore, nello specifico, l'amministratore di condominio, è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa tutte quelle misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori. Pertanto, in assenza di specifiche norme, il dato da cui partire resta la norma di ordine generale di cui all'art. 2087 c.c. che, appunto, costituisce "norma di chiusura" del sistema antinfortunistico estendibile anche a fattispecie non ancora espressamente considerate (Cass. civ., sez. lav., 5 luglio 2018, n. 17668).

In definitiva, in ogni rapporto di lavoro, compreso quello alle dipendenze del condominio, il datore di lavoro ha sempre l'obbligo di adottare tutte le misure che, avuto riguardo alla particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l'integrità psico-fisica del lavoratori. Quindi, a prescindere da chi pone in essere la condotta mobbizzante, nello specifico il condominio e, per esso, il suo amministratore, dovrà in ogni caso evitare qualsiasi pregiudizio al proprio dipendente, quand'anche proveniente da un soggetto terzo.

Guida all'approfondimento

Di Domenico, Al portinaio l'onere di provare il mobbing in condominio, Il Sole 24 Ore - Norme e tributi, 27 novembre 2018, 38;

Frivoli - Tarantino, Immobile ad uso abitativo: locazione e comodato, Bari, 2017, 137;

Moretti, Il condominio come datore di lavoro, in Condominioelocazione.it;

Staiano, Mobbing tra giurisprudenza e collegato lavoro, Rimini, 2012, 36.

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