È ammissibile la domanda di accertamento della legittimità del licenziamento da parte del datore di lavoro
04 Marzo 2019
Massima
Le controversie introdotte dal datore di lavoro per l'accertamento della legittimità del licenziamento comminato al dipendente ricadono nell'ambito di tutela dell'art. 18, l. n. 300 del 1970, in quanto, essendo tale rito funzionale alla certezza - in tempi ragionevolmente brevi - dei rapporti giuridici di lavoro, va riconosciuta la medesima tutela giurisdizionale ad entrambe le parti del rapporto sostanziale, in base al principio costituzionale di equivalenza nell'attribuzione dei mezzi processuali esperibili.
In relazione al medesimo licenziamento, infatti, non potrebbe essere ammessa la possibilità di due giudizi, l'uno, intrapreso dalla parte datoriale, con rito ordinario di lavoro e l'altro, dal lavoratore, con il rito speciale; tale soluzione contrasterebbe con principi di unitarietà della giurisdizione e di economia delle risorse giudiziarie. Il caso
Attraverso la sentenza in commento, la Suprema Corte si è pronunciata in merito all'ammissibilità dell'azione di accertamento della legittimità del licenziamento proposta dalla parte datoriale ai sensi dell'art. 1, comma 48, l. n. 92 del 2012.
Nel caso in esame, infatti, la società datrice, dopo aver intimato ad un proprio dipendente il licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica, presentava dinnanzi al Tribunale di Brescia un'azione di accertamento delle legittimità del provvedimento espulsivo (nel frattempo impugnato dal lavoratore).
In primo grado sia la fase sommaria sia la fase di opposizione si concludevano con il rigetto della domanda di accertamento della società.
Anche la Corte di appello di Brescia respingeva il reclamo dell'azienda con cui veniva impugnata l'ordinanza, escludendo la “fruibilità” del c.d. Rito Fornero da parte del datore di lavoro.
La Corte territoriale, in primo luogo, fondava la propria decisione sulla base di un argomento di carattere “testuale”, ossia che il comma 47 dell'art. 1, l. n. 92 del 2012, stabilisce che le disposizioni relative al rito (quelle previste dai commi dal 48 al 68) si applicano alle “impugnative di licenziamento nelle ipotesi regolate dall'art. 18, l. n. 300 del 1970”.
Pertanto, secondo tale lettura, non rientrerebbero nell'ambito di applicazione dell'art. 18, st. lav., la domanda di accertamento della legittimità del licenziamento proposta dal datore in quanto la stessa non è finalizzata né ad impugnare il provvedimento né a ottenere la tutela prevista dal predetto articolo.
I giudici dell'appello, inoltre, motivavano la propria decisione anche con ragioni più strettamente “procedurali”. Da un lato, la Corte riteneva che in presenza del nuovo meccanismo di decadenza ed inefficacia (ai sensi dell'art. 32, l. n. 183 del 2010 e successive modifiche) veniva meno l'interesse del datore ad agire in prevenzione. Dall'altro, concludono i giudici di merito, una interpretazione estensiva della norma contrasterebbe con la funzione acceleratoria del Rito Fornero, poiché dovrebbe essere riconosciuta al lavoratore la facoltà di proporre la domanda riconvenzionale.
Avverso la pronuncia della Corte d'Appello di Brescia ricorreva in Cassazione la società datrice. Le questioni
La Società, con un unico motivo, deduceva la violazione o la falsa applicazione dell'art. 1, comma 47, l. n. 92 del 2012, e dell'art. 100, c.p.c., da parte della Corte di merito in quanto aveva escluso la facoltà del datore di fruire del c.d. Rito Fornero, ritenendo non sufficientemente fondanti gli argomenti dedotti dai giudici nelle loro motivazioni, anche in quanto idonei a generare un'inammissibile disparità di trattamento. Le soluzioni giuridiche
La Suprema Corte, attraverso la sentenza in commento, dichiarava fondato il ricorso promosso dalla società datrice, cassando la sentenza della Corte territoriale e rinviando alla stessa in diversa composizione.
Osservano, infatti, i giudici di legittimità che – sulla base del tenore delle disposizioni ivi contenute - il rito introdotto dalla l. n. 92 del 2012, è un rito obbligatorio, sottratto alla disponibilità delle parti in quanto finalizzato alla creazione di un mercato del lavoro inclusivo e dinamico e, pertanto, non meramente funzionale a un vantaggio delle stesse ma orientato all'ottenimento della più celere definizione delle controversie.
Essendo tale la ratio della Riforma Fornero, secondo la Cassazione ne consegue che a entrambe le parti debba essere riconosciuta la medesima tutela giurisdizionale, conformemente a quanto stabilito dall'art. 3, Cost.
In tal senso, la giurisprudenza di legittimità antecedente l'introduzione del nuovo rito ha sempre ribadito la sussistenza di un interesse ad agire anche del datore “ogni qualvolta ricorresse una pregiudizievole situazione di incertezza in relazione al rapporto di lavoro, non eliminabile senza l'intervento del giudice (Cass. n. 5889 del 1993)”.
Con riferimento al caso in esame, la Suprema Corte ha ritenuto che tale orientamento dovesse trovare conferma, rilevando che l'introduzione di termini di decadenza ed efficacia in precedenza non previsti non avessero fatto venir meno interesse del datore ad agire per l'accertamento della legittimità del recesso intimato.
In ragione di quanto sin qui esposto, gli ermellini affermano, quindi, che “corollario della persistenza di un interesse datoriale all'azione di accertamento della legittimità del recesso intimato è l'affermazione per cui tutte le controversie aventi ad oggetto i licenziamenti che ricadono nell'ambito di tutela della l. n. 300 del 1970, art. 18 (anche dunque su impulso di parte datoriale) sono assoggettate alla disciplina della l. n. 92 del 2012, art. 1, commi 48 ss., ratione temporis applicabile”.
Secondo la Suprema Corte, infatti, in caso contrario, lo stesso caso di licenziamento potrebbe generare l'instaurazione di due giudizi, uno intrapreso dal datore di lavoro, con rito ordinario, e l'altro dal lavoratore, secondo il rito di cui alla l. n. 92 del 2012, generando un palese contrasto con i principi di unitarietà della giurisdizione e di economia delle risorse giudiziarie.
Per le stesse ragioni, concludono i giudici di terzo grado, qualora il datore proponga domanda di accertamento della legittimità del recesso, dovrà essere riconosciuta al lavoratore la facoltà di formulare domanda riconvenzionale. Infatti “sebbene la l. n. 92 del 2012, art. 1, preveda espressamente, nella sola fase di opposizione (comma 56), la possibilità di una domanda riconvenzionale se "fondata su fatti costitutivi identici a quelli posti a base della domanda principale", sarebbe del tutto incongruo, da un lato, ammettere che il datore di lavoro possa agire in via di mero accertamento nelle forme del rito della l. n. 92 del 2012, art. 1 e, dall'altro, negare al lavoratore, nella fase sommaria, la facoltà, non solo di paralizzare l'azione datoriale, ma di richiedere, con specifica domanda contenuta nella memoria di costituzione, le tutele derivanti dall'accertamento di illegittimità del licenziamento”. Osservazioni
La Suprema Corte, con la sentenza del 23 novembre 2018, n. 30433, ha stabilito che anche il datore di lavoro può agire in giudizio per far accertare la legittimità del licenziamento intimato al dipendente.
Secondo i giudici di Cassazione, infatti, tutte le controversie aventi ad oggetto i licenziamenti che rientrano nell'ambito di tutela della l. n. 300 del 1970, art. 18, anche proposti dal datore, sono assoggettate alla disciplina della l. n. 92 del 2012, art. 1, commi 48 ss.
Come emerge dalla lettura della sentenza, la ragione fondante della statuizione risiede nella necessità di tutela del principio costituzionale di equivalenza nell'attribuzione dei mezzi processuali esperibili, che deve essere riconosciuta ad entrambe le parti del rapporto sostanziale.
Ed è proprio sul piano più strettamente procedurale che la sentenza confuta l'orientamento condiviso dai giudici di merito nei primi due gradi di giudizio. I giudici di Cassazione, infatti, hanno chiarito che in caso di azione del datore di lavoro di accertamento della legittimità del recesso intimato, il dipendente, nella fase sommaria, potrà proporre – attraverso la memoria di costituzione – la domanda (riconvenzionale) di tutela ai sensi dell'art. 18, l. n. 300 del 1970. |