È ammissibile la procedura di liquidazione anche quando il debitore sia privo di beni

Niccolò Nisivoccia
21 Maggio 2019

La procedura di liquidazione del patrimonio prevista dalla legge sul sovraindebitamento è ammissibile anche quando nel patrimonio del debitore non siano presenti beni, mobili o immobili, oppure i beni presenti siano privi di valore economico, e l'attivo sia costituito esclusivamente da crediti futuri.
Massima

La procedura di liquidazione del patrimonio prevista dalla legge sul sovraindebitamento è ammissibile anche quando nel patrimonio del debitore non siano presenti beni, mobili o immobili, oppure i beni presenti siano privi di valore economico, e l'attivo sia costituito esclusivamente da crediti futuri.

Il caso

La fattispecie è molto semplice: Tizio, cittadino comune, è gravemente indebitato e propone ricorso per l'ammissione alla procedura di liquidazione dei beni prevista dalla legge sul sovraindebitamento (n. 3 del 2012), destinata appunto a disciplinare le situazioni di crisi e di insolvenza dei comuni cittadini (così come più in generale di tutti i soggetti non fallibili, e dunque non solo degli imprenditori commerciali che non siano in possesso dei resquisiti dimensionali previsti dall'art. 1 l. fall. per poter fallire, ma anche di tutti coloro che imprenditori commerciali non sono, fra i quali i comuni cittadini). Ma il suo patrimonio è vuoto, cioè privo di beni, mobili o immobili che siano, o comunque di beni ai quali sia attribuibile un valore economico. Tizio può offrire solo crediti futuri, quali sorgeranno dallo svolgimento della sua attività lavorativa. Per l'esattezza, può offrire un quinto del suo stipendio per gli anni a venire. Può la procedura di liquidazione essere aperta ugualmente, a queste condizioni? Oppure la sua ammissibilità presuppone l'esistenza di beni liquidabili?

Il Tribunale di Verona risponde affermativamente al quesito, e duqnue ammette Tizio alla procedura richiesta.

Questioni giuridiche

La questione divide abbastanza equamente la dottrina e la giurisprudenza.

Chi nega l'ammissibilità della procedura di liquidazione in mancanza di beni lo fa principalmente in virtù di due argomenti: perché tale ammissibilità non è prevista dalle norme in modo esplicito (primo argomento); e perché la liquidazione dei beni presupporrebbe per definizione l'esistenza di beni liquidabili (secondo argomento).

Ma anche la tesi contraria ha dalla sua più di un argomento che la giustifica. Per l'esattezza ne ha tre, come spiega molto bene l'ordinanza del Tribunale di Verona.

Il primo argomento è di natura sistematica: se è vero che il fallimento non è precluso dall'assenza di attivo; e se è vero che la legge sul sovraindebitamento costuituisce l'alternativa al fallimento in tutti i casi nei quali semplicemente il debitore non può accedere al fallimento perché privo dei requisiti soggettivi; se tutto questo è vero, osserva il Tribunale, allora sarebbe irragionevole negare al debitore non fallibile di godere, dal punto di vista oggettivo, delle medesime possibilità di cui potrebbe godere se potesse fallire. Diciamo che questo argomento ha natura sistematica perché non deriva dall'interpretazione delle norme sul sovraindebitamento in sé stesse considerate, bensì da un confronto fra le norme sul sovraindebitamento e la legge fallimentare. O meglio ancora da un confronto fra la ragion d'essere delle une rispetto all'altra. Secondo il Tribunale, la ragion d'essere è una sola: concedere al debitore, fallibile o non fallibile, di accedere a procedure collettive di liquidazione.

Il secondo argomento deriva invece dall'interpretazione delle norme sul sovraindebitamento, in sé stesse considerate: se è vero che l'art. 14-ter della legge sul sovraindebitamento esclude espressamente lo stipendio dai beni liquidabili nei soli limiti di quanto occorra al mantenimento della famiglia; se questo è vero, deve valere allora anche il contrario, con la conseguenza che lo stipendio potrà e dovrà essere incluso nella liquidazione al di fuori di quanto occorra al mantenimento della famiglia.

Ma esiste una norma ulteriore, all'interno della legge sul sovraindebitamento, che secondo il Tribunale autorizza la medesima conclusione, ed è l'art. 14-quater, il quale prevede la conversione della procedura di composizione della crisi in procedura di liquidazione, su istanza del debitore o di un creditore: poiché nulla osta all'apertura della procedura di composizione della crisi pur in assenza di beni liquidabili, non avrebbe senso fare di tale assenza un motivo ostativo all'apertura della procedura di liquidazione. Vale a dire: se è possibile accedere alla procedura di liquidazione nonostante l'assenza di beni liquidabili come effetto della conversione della procedura di composizione della crisi, dev'essere possibile accedervi anche direttamente, pena una contraddizione interna della legge. E questo era il terzo argomento, in realtà a metà strada fra una visione sistematica e la visione strettamente interpretativa di una singola norma.

In ogni caso, ciò che conta è che, secondo il Tribunale, ciascuno di questi tre argomenti consentirebbe anche da solo di rispondere affermativamente al quesito sollevato dalla fattispecie. In altre parole: per una via o per l'altra, ciò che conta è che, secondo il Tribunale, non esistono ragioni, né dentro le singole norme né dentro il sistema, per negare al debitore privo di beni che possa invocare la disciplina del sovraindebitamento in virtù delle sue qualità soggettive la possibilità di accedere a tutte le procedure previste da tale disciplina, ivi inclusa la liquidazione. Nonostante, lo si ripete, l'assenza di beni liquidabili.

Osservazioni

L'orientamento espresso dal Tribunale di Verona risulta ora confermato, potremmo dire, dalle norme sul sovraindebitamento contenute nella riforma della legge fallimentare, che sotto questo profilo assumono in un certo senso carattere di interpretazione autentica delle norme contenute nella legge del 2012. Una delle novità introdotte dalla riforma, infatti, riguarda proprio l'esdebitazione senza utilità, che presuppone appunto l'ammissibilità della procedura di liquidazione (dalla quale deriva l'esdebitazione, addirittura di diritto in alcuni casi, e cioè a seguito del provvedimento di chiusura o decorsi tre anni dalla sua apertura) anche quando il debitore “non sia in grado di offrire ai creditori alcuna utilità, diretta o indiretta, nemmeno in prospettiva futura”. Il che è esattamemente quanto affermato nell'ordinanza che qui si commenta.

Potremmo fermarci su questa considerazione, ma la novità introdotta dalla riforma induce a compierne qualcuna in più, anche sull'onda delle suggestioni provenienti da un libro pubblicato di recente, intitolato “Fallimento. Storia di un'idea” e scritto da Fabrizio Di Marzio (Giuffrè).

Ciò che sostiene Di Marzio nel suo libro è che esistono almeno due elementi, derivanti dal retaggio della Storia, comuni a tutte le discipline fallimentari contemporanee, oltre all'indubbia natura meno afflittiva di un tempo dell'istituto (nel senso che nessuno immagina più, oggi, di torturare il fallito o di mandarlo in esilio o anche solo di costringerlo a portare in pubblico un cappello verde, in segno di infamia). Il primo elemento consiste nel fatto che il fallimento non si è mai emancipato davvero, a ben vedere, da un protagonismo dell'imprenditore a discapito dell'impresa, quasi come se il diritto dell'insolvenza riguardasse non tanto la crisi economica di un'impresa ma la crisi personale o addirittura il destino di un individuo. In altri termini: ovunque, nonostante il passare del tempo e la trasformazione del diritto delle imprese, il fallimento è sempre rimasto centrato sull'insolvenza dell'imprenditore, quale misura essenzialmente costruita sul paradigma del debito. Vale a dire: come misura essenzialmente orientata e funzionale a regolare i rapporti di debito e credito fra l'imprenditore e la massa dei suoi creditori. Il secondo elemento, speculare al primo, è rappresentato dal fatto che il diritto fallimentare è sempre rimasto, nella sostanza, un diritto posto a tutela dei creditori, quasi che i creditori fossero gli unici soggetti lesi dalla crisi dell'imprenditore: vuoi nella veste di fornitori in attesa di corrispettivo, vuoi in quella di finanziatori titolari di crediti da restituzione, vuoi in quella di lavoratori rimasti senza retribuzione. Come se, aldilà della veste di volta in volta assunta, solo i creditori fossero titolari, fra gli interessi coinvolti dalla crisi d'impresa, di interessi qualificati; e come se i creditori, infine, esaurissero da soli quella che Di Marzio definisce la “comunità di pericolo” riunita intorno a tale crisi. Ma i due elementi (il paradigma del debito, da un lato, e la tutela dei soli creditori da un altro lato) sono in realtà due facce di una stessa medaglia, per la semplice ragione che a qualunque debito corrisponde sempre un credito. E quindi: se ci si concentra solo sul rapporto obbligatorio, qualunque altro interesse estraneo a quel rapporto non potrà che risultarne sacrificato, proprio perché irrilevante ai fini della sua estinzione.

Tutto ciò, secondo Di Marzio, tradisce quantomeno l'evoluzione storica del diritto delle imprese, maturata accanto a quella del diritto fallimentare. Oggi le imprese non sono più riducibili alla figura del mercante (ammesso che lo siano mai state), come nell'Italia dei Comuni o come nei romanzi di Balzac. Al contrario, oggi le imprese sono diventate e sono sempre di più organizzazioni multiformi e complesse, intorno alle quali gravita per definizione una comunità portatrice di interessi altrettanto complessi e variegati (i lavoratori e i consumatori, su tutti): e trascurare questa complessità equivarrebbe a negare un dato oggettivo, da un punto di vista economico prima ancora che giuridico. Bene: se questo è vero sul piano fisiologico, osserva Di Marzio, non può non esserlo anche nel momento patologico della crisi dell'impresa, che per questo motivo sarebbe dunque perfino anacronistico circoscrivere al solo paradigma dei rapporti obbligatori fra debitore e creditori.

Forse solo l'istituto dell'allerta, aggiunge Di Marzio, potrebbe giungere ora a minare il paradigma. E non a caso le misure d'allerta sono già unanimemente considerate la vera, grande novità della riforma della legge fallimentare appena approvata. Ma potranno bastare le misure d'allerta a qualificare il nuovo diritto della crisi d'impresa italiano come un diritto finalmente emancipato dal protagonismo dell'imprenditore, nella prospettiva offerta da Di Marzio? Come un diritto non più orientato alla sola tutela dei creditori contro la sciagura della crisi del loro debitore? Basteranno le misure d'allerta ad allargare la “comunità di pericolo” oltre il cerchio dei creditori?

La verità è che il nuovo diritto della crisi d'impresa, aldilà di qualunque opinione o giudizio nel merito se ne abbia o se ne voglia dare, non sembra rivoluzionare il vecchio, nei suoi elementi portanti. Certo le misure d'allerta sono una novità importante, come lo sono altre; ma la struttura sembra tutto sommato rimanere invariata, così come sembra rimanere invariato lo spirito. Ed è una pura constatazione. Piuttosto, è proprio nelle nuove norme sull'esdebitazione che la riforma sembra aver osato derogare di più alla tutela dei creditori come principio assoluto, e proprio in riferimento alla novità consistente nella cosiddetta esdebitazione senza utilità.

È vero che si tratta di una deviazione circoscritta e contenuta entro certi limiti, ma quel che è certo è che, seppur entro questi limiti, la tutela dei creditori ne risulta palesemente messa in secondo piano rispetto all'interesse del debitore, e non solo rispetto all'interesse del debitore. La relazione illustrativa lo spiega bene: la ratio della norma risiede sì nella volontà di restituire il debitore alla piena vita, liberandolo dal peso dei debiti, ma anche nella volontà di “reimmettere nel mercato soggetti potenzialmente produttivi”. E se è vero che questa è la ratio dell'esdebitazione in generale, ovunque sia prevista, è vero anche che in relazione all'esdebitazione senza utilità la ratio viene invocata fino a farne derivare conseguenze estreme: fino al punto di consentire la liberazione dai debiti anche in assenza del benché minimo corrispettivo a favore dei creditori.

Ciò significa guardare alla crisi del debitore non solo come alla crisi personale di un soggetto, ma come a qualcosa di molto più grande: come alla crisi di un centro di interessi intorno al quale ruotano molti altri interessi diffusi, diversi da quelli puri e semplici dei creditori, dei soli creditori. E significa dunque assumere, né più né meno, quel medesimo punto di vista che Di Marzio si augura, nel suo libro, che il diritto della crisi di impresa possa assumere. Ecco: nel caso dell'esdebitazione senza utilità la riforma lo ha assunto, questo punto di vista, e paradossalmente proprio in relazione a una disciplina, quella del sovraindebitamento, che dovrebbe costituire la quintessenza del protagonismo del debitore nei rapporti con i suoi creditori, trattandosi di una disciplina applicabile anche ai debitori civili, e cioè anche a debitori privi di impresa.

Guida all'approfondimento

A. Castagnola, L'insolvenza del debitore civile nel sistema della responsabilità patrimoniale, in Analisi Giuridica dell'Economia, n. 2/2004; G. Lo Cascio, Legge fallimentare attuale, legge delega di riforma e decreti attuativi in fieri, in Fallimento, n. 5/2018; Codice commentato del fallimento, diretto da G. Lo Cascio, Milano, 2017.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario