Ritardata diagnosi: risarcibile non solo il minor tempo vissuto ma anche la perdita delle maggiori possibilità di sopravvivenza

03 Aprile 2019

È configurabile il nesso causale tra il comportamento omissivo del medico e il pregiudizio subito dal paziente qualora attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si ritenga che l'opera del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il danno verificatosi, intendendosi per danno non solo l'evento morte ma anche tutte le conseguenze negative scaturite.

IL CASO All'attenzione della Terza Sezione è arrivata la causa iniziata dalla donna cui era stato diagnosticato tardivamente un carcinoma mammario.

In particolare, nel gennaio 2003 aveva ricevuto una diagnosi di natura "benigna" con suggerimento di controllo a distanza di sei mesi, laddove l'ecografia eseguita nel successivo ottobre (in diverso studio diagnostico) aveva segnalato la natura maligna ed aggressiva della patologia cui seguiva una visita presso l'Istituto tumori di Milano con immediato intervento di asportazione radicale della mammella, cui seguivano invasive cure chemioterapiche e due ulteriori interventi di chirurgia plastica.

La donna è deceduta nel corso del giudizio, unitamente al marito, in precedenza peraltro intervenuto volontariamente insieme ai figli minori per chieder il risarcimento del danno patito iure proprio, e dunque questi ultimi hanno poi cumulato le richieste formulate iure proprio e iure ereditatis.

In primo grado il Tribunale, pur riconoscendo la negligenza del medico, aveva respinto la domanda risarcitoria ritenendo che non fossero emerse prove sufficienti a dimostrare il nesso eziologico con la patologia e con il conseguented eccesso, che peraltro si sarebbe in ogni caso verificato.

Nel successivo giudizio d'appello, veniva confermata la sussistenza della colpa medica ma questa volta nei conseguiva la condanna del chirurgo in solido con la ASL al parziale risarcimento dei danni non patrimoniali (sia iure proprio che iure ereditatis) e del danno patrimoniale corrispondente al reddito medio che la defunta avrebbe garantito ai figli per il periodo (pari a due anni) di sopravvivenza di cui la stessa avrebbe potuto godere nel caso di tempestiva diagnosi.

Sia i figli che l'azienda sanitaria hanno proposto svariati motivi di ricorso per cassazione.

RIBADITO IL PRINCIPIO DEL “PIÙ PROBABILE CHE NON” La Terza sezione ha riconosciuto come fondati due dei motivi proposti dai figli della donna: il primo riguarda l'errore in cui è incorso il giudice di secondo grado che aveva valutato l'errore soltanto con riferimento all'evento morte senza considerare le maggiori percentuali di sopravvivenza indicate nell'accertamento del CTU, mentre il secondo riguarda il mancato rispetto del principio "del più probabile che non", dato che dopo aver ritenuto sussistente la colpa del medico la Corte Territoriale aveva omesso di verificare se la morte dovesse essere ascritta alla condotta negligente del medico.

La Cassazione si è posta nel solco di quanto enunciato dalle Sezioni Unite nel 2008 (sentenza n. 576/2008), ovvero che "in tema di responsabilità civile, il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p., Per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano - ad una valutazione "ex ante" - del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell'accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", mentre nel processo penale vige la regola della prova " oltre il ragionevole dubbio".

Inoltre ancora nel 2012 (sentenza n. 20996/2012) era stato statuito, in un caso di responsabilità medica, il principio per cui "anticipare il decesso di una persona già destinata a morire perché afflitta da una patologia, costituisce pur sempre una condotta legata da nesso di causalità rispetto all'evento morte, ed obbliga chi attenuta al risarcimento del danno".

Nel caso di specie è stata ritenuta erronea la decisione della corte d'appello che aveva valutato esclusivamente la sopravvivenza ulteriore della donna, laddove il carcinoma fosse stato tempestivamente diagnosticato, omettendo, invece la valutazione della parte dell'accertamento peritale da cui era desumibile la possibilità di sopravvivenza della donna, ove la diagnosi fosse stata tempestiva, a prescindere dalla durata della vita stessa.

La Suprema Corte ha altresì ricordato come il mancato esame delle complete risultanze della consulenza tecnica d'ufficio integri un vizio della sentenza che ben può essere fatto valere, nel giudizio di cassazione, ai sensi dell'art. 360, comma 1 n. 5, c.p.c., come omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

(Fonte: Dirittoegiustizia)

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