Poteri di controllo della minoranza nella s.p.a.

Lorenzo Lentini
08 Aprile 2019

I poteri di controllo della minoranza nella società per azioni rappresentano un tema trasversale, che si inscrive nell'ambito più generale della tutela delle minoranze azionarie. In sintesi, il tema ricomprende gli strumenti che l'ordinamento mette a disposizione di quei soci i quali, pur partecipando al rischio di impresa, non detengono un potere decisionale effettivo all'interno della società.
Inquadramento

I poteri di controllo della minoranza nella società per azioni rappresentano un tema trasversale, che si inscrive nell'ambito più generale della tutela delle minoranze azionarie. In sintesi, il tema ricomprende gli strumenti che l'ordinamento mette a disposizione di quei soci i quali, pur partecipando al rischio di impresa, non detengono un potere decisionale effettivo all'interno della società. Tali strumenti consentono ai soci di conoscere l'andamento dell'attività aziendale, presupposto imprescindibile ai fini di un esercizio consapevole dei propri diritti di azionista.

Definizione e classificazioni

Nel contesto delle società per azioni la dottrina riconduce all'espressione “tutela delle minoranze” il complesso di poteri che l'ordinamento attribuisce ai soci, diversi da quelli muniti di potere decisionale, al fine di contrastare il rischio di comportamenti opportunistici da parte della maggioranza e, per tale via, assicurare la protezione del proprio investimento.

La definizione tradisce implicitamente l'adesione, per finalità di semplificazione teorica, a un assetto di governance, indubbiamente ricorrente nel capitalismo italiano, caratterizzato dalla presenza di un nucleo di controllo, che interviene in modo decisivo nel processo di nomina dell'organo di amministrazione, e di uno o più soci di minoranza, i quali non hanno il potere di incidere, direttamente o indirettamente, sulla gestione, finendo per subire i riflessi di scelte gestionali altrui.

Tuttavia, se le modalità con le quali può esplicarsi il controllo trovano una codificazione, sia pure con riferimento ai rapporti tra società, nell'art. 2359 c.c., lo status di minoranza non presenta un analogo sforzo di categorizzazione, essendo anzi stato osservato che, data l'eterogeneità delle caratteristiche, il differente livello di organizzazione e la pluralità di interessi facenti capo a tali soggetti, l'osservatore chiamato a studiare il fenomeno dovrebbe impiegare, più correttamente, il termine “minoranze”.

Introdotta questa doverosa premessa, la tradizionale classificazione dottrinale degli strumenti di tutela delle minoranze, tuttora assai utile alla luce della natura trasversale dell'argomento, basa la distinzione sulla fonte (convenzionale, giudiziale o amministrativa), sulle tecniche normative (legittimazione individuale o rafforzata) e sulla finalità (partecipativa, economica, compensativa o mista) dello strumento.

Calata detta distinzione nell'ambito più specifico dei poteri di controllo, è possibile suddividere gli strumenti a disposizione delle minoranze tra i controlli ex ante (o diretti), che presentano una finalità tipicamente informativa, volta a consentire all'azionista di partecipare consapevolmente alla vita sociale e di monitorare direttamente l'andamento della gestione, e controlli ex post (o mediati), caratterizzati dall'intervento successivo, su sollecitazione del socio, di un soggetto terzo, investito ex lege o per statuto di poteri, più o meno invasivi, di sindacato sull'operato degli amministratori, sotto il profilo della legalità.

In entrambi i casi il socio che attiva lo strumento di controllo agisce a tutela dell'interesse sociale, non già in nome di un interesse egoistico, posto che il perseguimento dell'interesse sociale costituisce, di regola, il presupposto per una gestione aziendale sana e corretta, idonea a tradursi in un incremento di valore delle partecipazioni di minoranza.

Sulla scorta di detto principio generale ricorre talvolta l'affermazione secondo la quale l'interesse degli azionisti di minoranza rappresenterebbe l'autentico “interesse sociale”, inteso come interesse alla massimizzazione del valore della singola azione.

Se tale sintesi può essere utile alla comprensione delle complesse dinamiche societarie, nondimeno la confusione tra i due ambiti di interessi rischia di dare luogo a una indebita generalizzazione, non potendosi escludere situazioni, invero non infrequenti nella prassi, in cui il socio di minoranza persegue interessi in tutto o in parte egoistici, estranei al bene sociale, come nei casi di condotte ostruzionistiche o di abuso degli strumenti di tutela finalizzati esclusivamente ad acquisire una posizione vantaggiosa, in termini di forza negoziale, nel rapporto con la maggioranza, da sfruttare, a titolo esemplificativo, nell'ambito delle trattative in fase di disinvestimento (c.d. exit). In siffatti casi l'azionista di minoranza, in maniera non dissimile dal socio di controllo, esercita i poteri attribuiti dalla legge in funzione di uno scopo, ossia l'estrazione di benefici privati dalla società, che devia rispetto alle finalità che l'ordinamento intende assicurare attraverso la previsione di quelle forme di tutela.

Al netto di tali situazioni patologiche, i poteri di controllo delle minoranze rispondono all'esigenza di mitigare i potenziali effetti degenerativi del principio di maggioranza, che governa il funzionamento degli organi collegiali attraverso i quali nasce e si manifesta la volontà della società per azioni.

L'esigenza in questione non è caratteristica esclusiva dell'universo societario, ponendosi ogniqualvolta le decisioni che interessano un gruppo siano assunte, con metodo democratico, nell'ambito di organismi collegiali retti dal principio di maggioranza.

Nel solco delle teorie emerse in ordine alla “democrazia azionaria” si è dunque innestato il dibattito sulla necessaria tutela delle minoranze societarie, a volte mutuando espressioni e categorie proprie del diritto pubblico (“assemblea sovrana”, checks and balances, etc.), ma capaci di esprimere efficacemente la portata e la complessità delle forze contrapposte operanti all'interno di una società per azioni.

L'affermazione, poi, della teoria c.d. “contrattualistica”, quale lente con la quale osservare il fenomeno societario, e dei suoi corollari, per esempio in tema di rilevanza del principio di buona fede contrattuale durante tutta la fase esecutiva del rapporto, contribuisce a consolidare il nucleo di diritti individuali degli azionisti (non a caso definiti da autorevole dottrina “cittadini del mercato mobiliare”), che fungono da argine contro il rischio di una eccessiva concentrazione di potere in capo al socio di maggioranza, con modalità che richiamano appunto i delicati equilibri che connotano il rapporto tra minoranze e maggioranza politica all'interno di uno Stato.

Come in ambito costituzionale la ripartizione della funzione di indirizzo politico tra le diverse istituzioni statali delinea la forma di governo, così nel contesto societario sono emerse varie teorie in ordine all'assetto ottimale dei rapporti tra gli organi sociali, in particolare tra assemblea e consiglio di amministrazione, nonché, per quanto rileva maggiormente in questa sede, sui limiti del principio maggioritario e, specularmente, sulle ragioni giustificatrici del sacrificio imponibile al singolo azionista in nome dell'interesse sociale comune.

Inoltre, la valorizzazione del principio di buona fede nell'esecuzione del contratto sociale è stata alla base delle applicazioni giurisprudenziali in tema di “abuso della maggioranza”, istituto riconducibile anch'esso ai mezzi di tutela giudiziale delle minoranze azionarie.

Al riguardo, proprio la consapevolezza che, come osservato da un eminente giurista, "gli abusi del mondo societario sono compiuti attraverso comportamenti formalmente ossequiosi della norma giuridica ma sostanzialmente lesivi degli interessi di coloro che sono fuori dal governo dell'impresa" ha indotto taluni a riflettere sui limiti di un mero controllo di legalità degli atti della maggioranza, senza che la risposta a tale bisogno di tutela possa, tuttavia, giungere dal ricorso generalizzato a un rimedio di ultima istanza quale è quello giudiziario, attesa anche l'impossibilità, salvo casi eccezionali, di richiedere al giudice una valutazione che scenda nel merito della scelta gestionale contestata.

Controlli ex ante (o diretti)

In punto di strumenti di controllo disponibili per la minoranza va in primo luogo precisato che, in senso stretto, la nozione di controllo si riferisce agli strumenti di verifica della conformità tra atto o condotta dell'autore e parametro normativo.

In senso lato il potere di controllo del socio di minoranza trova attuazione a monte, mediante l'esercizio del diritto di voto nelle fasi ordinarie della vita sociale. Nell'accezione anzidetta il controllo si manifesta sotto forma di dialettica tra portatori di interessi divergenti e trova la sua naturale sede di esplicazione nell'assemblea degli azionisti, luogo di convergenza di vari interessi partecipativi.

Avuto riguardo anche alla suddetta teoria sulla democrazia azionaria, l'interesse partecipativo del singolo socio si sostanzia nel diritto a essere parte del processo di formazione delle decisioni collegiali di competenza assembleare.

La dimensione funzionale di tale diritto presuppone:

  • il diritto all'informazione preventiva ovvero a una “partecipazione informata” all'assemblea;
  • la regolarità del procedimento di intervento, voto e proclamazione degli esiti in assemblea.

Alla luce di quanto sopra la procedura di deliberazione, vista nei vari momenti in cui essa si scansiona, finisce dunque per costituire essa stessa strumento di tutela delle minoranze nella fase di formazione della volontà assembleare.

Tale procedura, inoltre, rappresenta la sintesi procedimentale e di contemperamento tra interessi contrapposti: l'interesse del singolo socio all'esercizio delle proprie prerogative individuali, da una parte, e l'interesse della società all'efficiente funzionamento dei propri organi, dall'altra, interesse quest'ultimo che si traduce anche nella ricerca del celere raggiungimento di una decisione.

Sotto il profilo del diritto all'informazione e alla discussione assembleare, rileva in primo luogo l'art. 2367 c.c., nella parte in cui attribuisce alle minoranze, ove rappresentanti almeno un decimo del capitale, il potere di richiedere agli amministratori di convocare senza ritardo l'assemblea al fine di trattare gli argomenti specificamente indicati nella richiesta.

Tale disposizione, benché a livello generale vada inscritta nell'ambito del rapporto dialettico tra soci e organo di amministrazione, può rivelarsi indirettamente uno strumento prezioso nelle mani delle minoranze organizzate, allo scopo di sollecitare il dibattito assembleare su argomenti ritenuti di particolare rilevanza.

Il potere in esame incontra tuttavia dei limiti: in primo luogo, gli argomenti da trattare devono rientrare nelle materie di competenza assembleare (limite implicito); in secondo luogo, tale schema di convocazione non si applica in caso di argomenti sui quali l'assemblea è tenuta a deliberare su proposta degli amministratori ovvero sulla base di un progetto o di una relazione preparati dagli stessi (limite espressamente previsto dall'ultimo comma della disposizione).

A fronte della richiesta ritualmente formulata la convocazione ad opera dell'organo amministrativo è configurabile come atto dovuto: l'eventuale inerzia ingiustificata, ove il collegio sindacale non provveda in via sostitutiva, legittima la convocazione giudiziale, previa audizione di amministratori e sindaci.

Sul punto si è posta la questione se il giudice possa o meno valutare la correttezza dell'iniziativa dei soci, questione che poggia sull'ampiezza della discrezionalità che si riconosce in capo all'organo amministrativo. Un primo orientamento, valorizzando proprio la natura di “atto dovuto” della convocazione, esclude la possibilità, sia per gli organi sociali sia per il giudice in via sostitutiva, di operare valutazioni di opportunità in ordine alla richiesta formulata dal socio. Di conseguenza, il rifiuto sarebbe giustificato solamente in presenza di una richiesta carente dei requisiti formali e sostanziali (quali la legittimazione, il rispetto della procedura e l'indicazione di argomenti possibili e leciti) ovvero manifestamente abusiva.

Secondo un diverso orientamento, l'art. 2367 c.c. non attribuisce un “diritto incondizionato” del socio alla convocazione dell'assemblea: ne consegue come gli organi sociali nonché, in via sostitutiva, il giudice possano valutare nel merito la richiesta del socio, anche in base a profili di opportunità, al fine di appurare la correttezza dell'iniziativa e così scongiurare il rischio di effetti lesivi dell'interesse sociale.

In evidenza: la giurisprudenza

Gli organi sociali, così come il Tribunale in via sostitutiva, non possono legittimamente opporre proprie valutazioni di opportunità al diritto del socio di chiedere e ottenere la convocazione dell'assemblea, a meno che la richiesta del socio sia priva dei requisiti formali (legittimazione — correttezza procedurale — oggetto possibile e lecito) o sia espressione di abuso del diritto (Trib. Milano, SSIB, 2 aprile 2016, in Giur. Comm., 2017, 6, II, 1038).

Di segno contrario: “Dopo la riforma delle società di capitali non è più configurabile un diritto incondizionato dell'azionista ad ottenere la convocazione dell'assemblea. Gli organi sociali sono invece tenuti ad effettuare una valutazione di compatibilità della richiesta con l'interesse sociale e, se del caso, sono legittimati a opporre un giustificato rifiuto. Ai sensi del nuovo testo dell'art. 2367, comma 2, c.c. il Tribunale può ordinare la convocazione dell'assemblea su richiesta dei soci soltanto qualora le ragioni addotte dagli organi sociali appaiano ingiustificate. La richiesta di convocazione dell'assemblea da parte degli azionisti deve essere adeguatamente motivata, affinché sia consentito agli amministratori di verificarne le potenzialità lesive rispetto all'interesse della società(Trib. Brescia, Sez. Spec. Impresa, 23 ottobre 2015, in Giur. Comm., 2017, 6, II, 1037).

Dopo la riforma del testo dell'art. 2367 c.c., compito dell'autorità giudiziaria non è più quello di sindacare il merito dell'abusività della richiesta di convocazione dell'assemblea da parte dei soci, ma soltanto quello di verificare la presenza di una giustificazione del rifiuto da parte degli organi amministrativi e di controllo, ai quali è demandata la valutazione circa la ragionevolezza della richiesta (App. Brescia, 29 febbraio 2016, n. 6, in Giur. Comm., 2017, 6, II, 1037).

La rilevanza del diritto all'informazione, quale espressione dell'interesse partecipativo del singolo socio, emerge chiaramente da una ulteriore disposizione, l'art. 2374 c.c., che attribuisce alla minoranza qualificata (un terzo del capitale rappresentato in assemblea) il diritto di ottenere il rinvio dell'assemblea regolarmente convocata.

La norma è volta a colmare il deficit informativo dei soci in merito agli argomenti posti all'ordine del giorno, sul presupposto che una sana dialettica assembleare possa stimolare l'assunzione consapevole di deliberazioni nonché un più efficace controllo da parte delle minoranze sulle scelte riconducibili al gruppo di controllo.

Allo scopo di contemperare il diritto all'informazione con l'esigenza di efficiente funzionamento dell'organo assembleare, il legislatore ha previsto che:

  • la richiesta dei soci sia esercitabile, previa dichiarazione “di non essere sufficientemente informati”, una sola volta “per lo stesso oggetto”, e
  • l'assemblea si tenga non oltre i cinque giorni successivi al rinvio.

La richiesta va di regola formulata dai soci intervenuti al presidente dell'assemblea, il quale deve disporre il rinvio, ove la richiesta sia formalmente avanzata nel rispetto dei requisiti di legittimazione e dei limiti legali, trattandosi di atto dovuto, privo di margini di discrezionalità, a fronte di un diritto, ritenuto dalla giurisprudenza potestativo, in capo ai soci.

Il mancato rinvio dell'assemblea, in presenza di valida richiesta, determina delle conseguenze in punto di validità della delibera: in particolare, diverse pronunce hanno concluso nel senso dell'annullabilità della delibera assunta in spregio della richiesta di rinvio, salva l'ipotesi in cui la richiesta stessa presenti caratteri manifestamente abusivi, in quanto espressione, ad esempio, di un intento meramente ostruzionistico.

In evidenza: la giurisprudenza

Il diritto di richiedere il differimento dell'assemblea di una società per azioni, esercitato ai sensi dell'art. 2374 c.c., ha natura potestativa, assolvendo alla funzione di assicurare ai soci una maggiore informazione sui temi all'ordine del giorno che prescinde dal riscontro di una situazione obiettiva di “deficit” conoscitivo in capo ai richiedenti tanto da poter determinare, nell'ipotesi di mancato rinvio, l'annullabilità della delibera adottata. Tale qualificazione giuridica del diritto, tuttavia, non comporta l'assoluta insindacabilità della dichiarazione d'insufficienza informativa, fondante la richiesta, essendo configurabile, come limite esterno al suo esercizio, l'abuso del diritto predicato nell'art. 2374 c.c. nell'ipotesi in cui la richiesta sia stata dettata da un fine, in concreto, del tutto incoerente rispetto a quello per il quale la relativa facoltà è attribuita dalla norma codicistica (Cass. Civ. sez. I, 12 dicembre 2017, n. 29792 in questo portale e in Foro it. 2018, 4, I, 1312).

La richiesta di differimento dell'adunanza formulata a norma dell'art. 2374 c.c. dal socio che si dichiari non sufficientemente informato prescinde dal riscontro ad opera dell'assemblea o del suo presidente di una situazione obiettiva di difetto d'informazione in capo al socio richiedente, con la conseguenza che il mancato differimento dell'adunanza rende annullabile la delibera adottata(Trib. Milano, 25 agosto 2006, in Riv. notariato, 2008, 3, 2, 671)

Resta ferma la facoltà della maggioranza di rinviare l'assemblea anche al di fuori dei limiti previsti dall'art. 2374 c.c., trattandosi di fattispecie rientrante negli ordinari poteri deliberativi ed estranea al tema della tutela delle minoranze.

Un diverso gruppo di disposizioni è volto ad assicurare la regolarità del procedimento di deliberazione assembleare e, in tal senso, costituisce strumento a disposizione delle minoranze per la tutela dei propri diritti mediante un controllo di legalità dell'azione dell'organo. Nell'ambito di tali disposizioni può farsi rientrare anche l'art. 2371, che disciplina il ruolo di presidente dell'assemblea, nominato di regola nello statuto.

L'organo presidenziale è stato felicemente definito quale “garante della democrazia assembleare”, espressione che esalta i tratti di indipendenza insiti nella figura del presidente, chiamato a garantire l'esercizio dei diritti partecipativi del singolo socio, pur nel costante rispetto dell'interesse sociale.

Nell'esercizio delle sue funzioni il presidente dispone di poteri prevalentemente ordinatori, che regolano la partecipazione del socio alla formazione della volontà assembleare, ma anche di poteri disciplinari o di “polizia assembleare”, indispensabili per assicurare l'ordinato svolgimento dei lavori.

Nella prima categoria rientra il potere di direzione, le verifiche sulla regolare costituzione e sulla legittimazione dei presenti, la limitazione del dibattito agli argomenti pertinenti all'ordine del giorno, la raccolta delle richieste di informazioni, la sollecitazione dei riscontri da parte degli amministratori, l'eventuale rinvio dell'assemblea su richiesta dei soci non sufficientemente informati, il controllo sulla fase del voto e la proclamazione degli esiti.

Espressione dei poteri di polizia è invece l'allontanamento dei disturbatori, la sospensione dei lavori ovvero lo scioglimento dell'assemblea, laddove le condizioni ambientali non consentano una discussione basata sul metodo democratico ovvero nelle ipotesi in cui le garanzie procedimentali, anche a tutela delle minoranze, non possano essere rispettate.

Anche il venir meno del presidente al proprio ruolo di garante del diritto di partecipazione dei singoli può determinare l'invalidità della delibera assembleare.

In evidenza: la giurisprudenza

La decisione del Presidente di assemblea di adottare modalità di votazione idonee ad escludere lo svolgimento preventivo della discussione assembleare, come l'ammissione al voto di alcuni soci prima che la discussione sia iniziata, rende illegittimo il procedimento adottato (Cass. Civ. sez. I, 13 dicembre 2002, n. 17848, in Giur. comm. 2004, II, 265).

È annullabile (e non nulla) la delibera assunta in violazione del diritto di ciascun socio di intervenire nella discussione esprimendo, in contraddittorio con gli altri, la propria opinione, a meno che non venga provato l'intento ostruzionistico esclusivamente finalizzato a turbare io svolgimento dell'assemblea - nel caso di specie, il presidente dell'assemblea dichiarava chiusa la discussione sulla nomina dei consiglio di amministrazione senza prima concedere la parola a duecentocinquanta soci che si erano prenotati a parlare. (Trib. Modena, 24 febbraio 2012, in Banca borsa tit. cred. 2013, 4, II, 427).

Con riferimento alle patologie della fase di calcolo dei voti e di proclamazione, in caso di divergenza fra la volontà assembleare effettiva e quella esteriorizzata occorre distinguere due ipotesi:

- se la patologia deriva dal mancato raggiungimento del quorum deliberativo, il rimedio ipotizzabile è quello dell'impugnazione della delibera, volta a ottenere un provvedimento giudiziale con effetti demolitori;

- se non è stata proclamata come approvata una delibera, sull'erroneo presupposto del mancato raggiungimento del quorum deliberativo, appare preferibile la tesi che accorda al socio il diritto di ottenere un nuovo conteggio dei voti, con eventuale correzione degli esiti o, se tale rimedio non fosse praticabile, la ripetizione delle operazioni di voto.

Fra gli strumenti a disposizione della minoranza per presidiare il rispetto delle norme volte ad assicurare la regolarità del procedimento di intervento e voto in assemblea possono poi ricomprendersi gli artt. 2377 e 2379 c.c., che disciplinano le fattispecie, rispettivamente, di nullità e annullabilità delle delibere assembleari, per le quali si rinvia alle apposite Bussole.

In questa sede basti osservare che con riguardo alla natura delle norme prescritte a tutela del contraddittorio assembleare la giurisprudenza maggioritaria ha ravvisato la sussistenza di un interesse generale, non rinunciabile, alla “legalità dell'azione sociale”.

In evidenza: la giurisprudenza

L'eventuale adesione tacitamente prestata dai soci allo svolgimento dell'assemblea con modalità di voto in grado di escludere la discussione assembleare non rende legittimo il procedimento adottato né la deliberazione assunta poiché il rispetto del metodo collegiale, anche nella società cooperativa, deve ritenersi sottratto alla disponibilità delle parti.

Le regole sull'articolazione del procedimento assembleare della società, pur essendo imposte a protezione dei singoli soci, sono finalizzate anche alla tutela di un'esigenza di carattere generale concernente la salvaguardia della legalità dell'azione sociale e non hanno carattere dispositivo: ne deriva l'illegittimità della deliberazione adottata senza che ad alcuni soci sia stato consentito di promuovere la discussione in assemblea (Cass. Civ. Sez. I, 13 dicembre 2002, n. 17848, in Giur. comm. 2004, II; conf. App. Brescia, 13 gennaio 2000, in Giur. it., 2000, 1878).

Secondo altro indirizzo della giurisprudenza “la circostanza che la maggioranza dei soci non abbia consentito alla minoranza un'ampia informazione (e discussione) sull'argomento all'ordine del giorno non può di per sé costituire ragione d'invalidità della deliberazione così adottata, occorrendo a tal fine che si deduca e dimostri che l'indicato comportamento abbia determinato scelte contrastanti con gli interessi della società” (Cass. 27 aprile 1990, n. 3535, in Giur. civ., 1990, I, 2577)

Controlli ex post (o mediati)

A cavallo tra gli strumenti di controllo diretti e quelli mediati si pone la possibilità per le minoranze di designare un proprio rappresentante all'interno dell'organo di amministrazione: trattasi, infatti, di controllo ex ante, in quanto preventivo all'operazione, ma mediato dall'intervento di un soggetto, l'amministratore “di minoranza”, diverso dal socio tutelato in via indiretta.

Al riguardo, sebbene nella prassi, in particolare all'interno delle società chiuse, siano frequenti le interlocuzioni tra gli amministratori e gli azionisti di minoranza più rilevanti, la presenza nel consiglio di amministrazione di componenti espressione delle minoranze costituisce uno strumento particolarmente efficace per assicurare agli azionisti estranei al gruppo di potere maggioritario il controllo sulle principali decisioni gestionali. In tal senso, al di là delle opzioni per l'autonomia privata discendenti dall'utilizzo dei patti parasociali, assume particolare rilevanza l'art. 2368, comma 1, ultimo periodo, che consente la previsione di norme statutarie particolari in tema di elezione di candidati alle cariche sociali.

In particolare, al fine di favorire la nomina da parte delle minoranze di propri rappresentanti nell'organo di amministrazione, così temperando gli effetti del principio maggioritario, lo statuto può prevedere sistemi di elezione basati sul c.d. “voto di lista”, metodo che può ottenere lo scopo suindicato attraverso varie modalità.

Una variante abbastanza diffusa del voto di lista prevede, combinandosi con gli effetti del metodo proporzionale, la presentazione di diverse liste composte da candidati ordinati progressivamente. La votazione avviene per liste e il numero di voti raccolti da ciascuna lista viene diviso per il numero che indica la posizione del candidato nella lista; si ottengono in questo modo i quozienti elettorali di ciascun candidato e i candidati eletti sono coloro in possesso del quoziente maggiore. La variante c.d. “con liste bloccate” prevede invece la presentazione di liste composte da candidati in numero inferiore rispetto ai posti disponibili: ne consegue l'elezione di candidati necessariamente ripescati da liste diverse da quella risultata di maggioranza.

In ogni caso risulta presupposto indispensabile per il corretto funzionamento del sistema di voto in esame che le varie liste non presentino elementi di collegamento tra loro ovvero, in altre parole, che le liste di minoranza siano autenticamente tali.

In evidenza: Giurisprudenza

La previsione della presenza di plurime liste, conseguente al diritto alla presentazione attribuito ad ogni socio o gruppo di soci che rappresentino almeno una ridotta percentuale del capitale, è certamente indicativa della volontà di permettere la partecipazione all'amministrazione della società a più gruppi di soci che individuino interessi comuni tra di loro. Deve ritenersi illegittima un'interpretazione che consenta la sommatoria dei quozienti ottenuti dai singoli candidati nelle diverse liste. Infatti, pur preservando il principio della redazione dopo il voto di un'unica lista con quozienti decrescenti al fine di individuare i candidati che abbiano ottenuto i quozienti più alti e quindi risultino eletti, non possono essere sommati i quozienti derivanti da liste diverse perché, così facendo, non solo si elimina il principio delle liste concorrenti ma, andando contro il principio di democrazia interna, si falsa la stessa volontà di chi quelle liste ha presentato, in quanto il quoziente realizzato da ogni candidato all'interno di liste diverse dipende dalla posizione di questi nella lista presentata. (Trib. Genova, 25 Settembre 2017, in questo portale e in Giurisprudenzadelleimprese.it).

Quando è previsto dallo statuto di società per azioni un meccanismo di voto di lista finalizzato a garantire la rappresentanza della minoranza in seno al consiglio di amministrazione, detto meccanismo deve operare non solo alla scadenza naturale della carica del consiglio di amministrazione, ma anche nel caso di sostituzione del consigliere decaduto. (Trib. Milano, 20 settembre 2007, in Giur. comm. 2009, 5, II, 967)

L'art. 2408 c.c. prevede uno strumento di controllo a disposizione del socio di minoranza, mediato dall'intervento del collegio sindacale. La norma legittima infatti ciascun socio a denunciare al collegio sindacali i fatti ritenuti censurabili.

Le conseguenze immediate della denuncia variano a seconda della percentuale di capitale sociale rappresentata dai denunzianti:

  • se la denuncia proviene da tanti soci rappresentanti almeno un ventesimo del capitale sociale, il collegio sindacale è obbligato a “indagare senza ritardo”, rassegnando le proprie conclusioni all'assemblea. Qualora poi emergano fatti di rilevante gravità ovvero vi sia urgenza di provvedere, il collegio è altresì tenuto a convocare l'assemblea, in linea con quanto previsto dall'art. 2406 c.c.;
  • negli altri casi, il collegio sindacale deve tenere conto della denuncia nella propria relazione annuale all'assemblea.

Con riferimento all'oggetto della denuncia, dottrina e giurisprudenza maggioritaria non ravvisano un rapporto di coincidenza tra i fatti “censurabili” di cui alla presente disposizione e le “gravi irregolarità” rilevanti ai fini dell'art. 2409 c.c., ben potendo la denuncia investire, oltre alle violazioni di legge o statutarie, circostanze rientranti nell'attività gestionale o rivelatrici di scelte economiche contrastanti con i principi di corretta amministrazione, senza che l'eventuale assenza di potenzialità lesive dei fatti in questione possa essere ritenuta di per sé elemento ostativo alla presentazione della denuncia. A livello soggettivo, i fatti denunciati non devono necessariamente riferirsi agli amministratori, ma possono riguardare la condotta di qualunque soggetto operante nell'interesse della società.

La mancata considerazione della denuncia all'interno della relazione del collegio sindacale che accompagna il progetto di bilancio può essere fonte di responsabilità nei confronti della società, ma di regola non determina l'invalidità della delibera di approvazione.

In evidenza: Giurisprudenza

Il potere di procedere alla diretta convocazione dell'assemblea a seguito di denuncia di fatti censurabili da parte di soci che rappresentano almeno un ventesimo del capitale sociale è attribuito al collegio sindacale soltanto in caso di positiva delibazione da parte del medesimo sulla fondatezza della denuncia e se vi è urgente necessità di provvedere (Trib. Roma, 17 marzo 2003, in Foro it. 2004, I, 939)

Per i sindaci non costituisce irregolarità grave il non menzionare nella relazione annuale una denunzia ricevuta, se il collegio ha provveduto tempestivamente ad investigare con esito negativo sui fatti censurabili e ne ha riferito oralmente in assemblea(App. Milano, 10 giugno 1991, in Giur. it. 1992, I, 2, 235).

Un ultimo gruppo di disposizioni comprende gli strumenti di controllo per le minoranze mediati dal ricorso all'autorità giudiziaria.

Vi rientra in primo luogo la previsione di cui all'art. 2393-bis c.c., che consente ai soci di minoranza, ove rappresentanti almeno un quinto del capitale (o la diversa misura indicata dallo statuto, comunque non superiore a un terzo), di esercitare l'azione sociale di responsabilità contro gli amministratori.

Rinviando alla corrispondente Bussola per la trattazione puntuale dell'istituto, in questa sede preme evidenziare i seguenti profili:

  • l'indicazione di un quorum di legittimazione elevato, di regola pari al 20% del capitale sociale, rivelatore della preoccupazione del legislatore di contemperare i diritti delle minoranze con l'esigenza di prevenire azioni strumentali da parte di soci non titolari di partecipazioni significative;
  • l'onere di notificare l'atto di citazione anche alla società, in persona del presidente del collegio sindacale;
  • l'onere di nominare un rappresentante comune dei soci per l'esercizio dell'azione sociale e per gli atti conseguenti, adempimento avente natura processuale finalizzato a semplificare lo svolgimento del giudizio;
  • l'obbligo della società di tenere indenni i soci che hanno promosso l'azione dalle spese del giudizio.

In evidenza: Giurisprudenza

In tema di azione sociale di responsabilità esercitata dai soci, l'art. 2393-bis, comma 3, c.c. ai sensi del quale l'atto di citazione deve essere notificato alla società, anche in persona del presidente del collegio sindacale, persegue lo scopo di raggiungere la società per una strada diversa rispetto alla citazione in persona del legale rappresentante, tutelando anche la società, nella fase di instaurazione del rapporto processuale, da possibili condotte per essa pregiudizievoli del legale rappresentante in conflitto di interessi. Tuttavia, in tale fase non trova applicazione l'art. 78 c.p.c., che ha un mero carattere sussidiario. (App. Genova, sez. I, 14 maggio 2018, n. 148)

Il difetto di nomina di un rappresentante comune ai sensi dell'art. 2393 bis c. 4 c.c. non integra — a differenza della fattispecie dell'art. 2347 c.c. — una carenza di legittimazione attiva, ma un difetto di rappresentanza in senso processuale, che pertanto può essere sanato dalla costituzione in giudizio ai sensi dell'art. 182 c.p.c. del nominato rappresentante (Trib. Milano, SSIB, 05 novembre 2015, n. 5336, in Riv. Dot. Comm., 2016, 3, 443).

Nell'ambito delle tutele esterne i soci di minoranza possono infine ricorrere alla soluzione di tipo giudiziale prevista all'art. 2409 c.c. (anch'essa oggetto di specifica trattazione all'interno della corrispondente Bussola).

Successivamente alla riforma del 2003 l'intervento dell'autorità giudiziaria ex art. 2409 c.c. non pare più presentare i tratti di interesse pubblico che caratterizzavano in precedenza la procedura, sostituiti da un ruolo maggiormente propulsivo riservato dalla legge alla società nella gestione della propria crisi. Al riguardo, se appare forse eccessivo il riferimento alla “privatizzazione” della fase di accertamento delle gravi irregolarità oggetto di denuncia, l'attenuazione dell'interesse pubblico sotteso all'esito della procedura, almeno nelle società chiuse, può essere letta in concomitanza con l'accentuato ruolo dell'autorità giudiziaria quale garante dei diritti delle minoranze, tramite un intervento volto al ripristino della legalità.

Trattandosi, tuttavia, di una reazione forte dell'ordinamento, da parte di soggetto esterno alla società, che inevitabilmente altera il normale equilibrio dei rapporti tra organi sociali, nonché l'ordinaria vita societaria, lo scrutinio dei presupposti per l'avvio della procedura deve essere particolarmente rigoroso. La giurisprudenza richiede pertanto la contemporanea sussistenza dei seguenti presupposti:

  • il fondato sospetto di “gravi irregolarità” ancora in essere, confortato da riscontri probatori ovvero da elementi indiziari a carattere obiettivo;
  • la violazione dei doveri inerenti alla carica di amministratore;
  • l'idoneità lesiva delle irregolarità riscontrate, con riferimento al patrimonio della società o di sue controllate.

Le gravi irregolarità rilevanti ai fini dell'intervento giudiziale attengono a violazioni di legge o statutarie, non potendo invece investire i profili di opportunità o convenienza di una scelta gestionale, rimessi in quanto tali alla discrezionalità degli amministratori. È dubbia la rilevanza delle irregolarità c.d. informative, che si verificano in occasione della redazione di bilanci e di altri documenti a valenza informativa.

Il procedimento rientra tra quelli di volontaria giurisdizione ed è retto dalle norme in tema di procedimenti camerali. La liquidazione delle spese avviene secondo criteri autonomi, che tengono conto delle finalità previste dall'istituto in questione.

In evidenza: Giurisprudenza

Alla stregua dell'intervento normativo del 2003 la denunzia al tribunale ai sensi dell'art. 2409 c.c. deve trovare fondamento sui seguenti elementi di fatto: a) fondato sospetto di gravi irregolarità, b) ingenerato nei soci dalla violazione dei loro doveri da parte degli amministratori; c) capacità di tale irregolarità di arrecare danno alla società o a una o più società controllata. Se è vero che l'attivazione ex art. 2409 c.c. non presuppone la prova compiuta delle irregolarità, è altrettanto vero che il denunziante ha l'onere di allegazione di fatti indiziari comprovati in quanto corredati da elementi obiettivi idonei a renderne quantomeno verosimile la loro sussistenza (Trib. Bologna, 11 aprile 2013, in giurisprudenzadelleimprese.it)

Le irregolarità oggetto di denunzia ai sensi dell'art. 2409 c.c. devono essere intese nel senso di violazione di doveri che, per legge o per statuto, gravano sugli amministratori in funzione della gestione e devono comunque attenere alla legittimità della stessa, quand'anche in termini di ragionevolezza e prudenza minime esigibili, e non investire l'opportunità o la convenienza di scelte imprenditoriali ed economiche. Le irregolarità sulla gestione possono costituire idoneo presupposto di un intervento dell'autorità giudiziaria in funzione di ripristino solo ove siano gravi, nel senso che oggettivamente attengano a comportamenti che differiscono in modo rimarchevole da quelli che gli amministratori avrebbero dovuto tenere, e possano arrecare danno alla società. Il fondato sospetto di irregolarità, che è condizione di ammissibilità del sindacato giudiziario sulla gestione, può essere integrato da indizi obiettivi che rendano verosimili i fatti e i comportamenti oggetto della denuncia; cosicché l'ispezione potrà essere disposta per andare alla ricerca della “prova” di quegli stessi fatti, prova che il ricorrente non è tenuto a dare, e che il tribunale può acquisire d'ufficio per mezzo dello specifico mezzo istruttorio. Benché le irregolarità informative riguardanti il bilancio di esercizio siano di regola prive del carattere di dannosità e dunque inidonee a sorreggere la denuncia ex art. 2409, tuttavia ben può il Tribunale intervenire mediante idonei provvedimenti, qualora dette irregolarità siano funzionali ad occultare una situazione patrimoniale non compatibile con la continuità aziendale e ad evitare l'adozione di quei provvedimenti richiesti dalla legge in caso di perdita del capitale sociale (Trib. Milano, 18 ottobre 2012, in giurisprudenzadelleimprese.it).

Per l'attivazione del procedimento ai sensi dell'art. 2409 c.c. è onere del ricorrente dimostrare la sussistenza del requisito dell'attualità del danno o del pericolo di danno degli atti di gestione oggetto di denuncia al Tribunale. È da ritenersi estraneo al sindacato dell'autorità giudiziaria in sede di valutazione della denunzia ai sensi dell'art. 2409 c.c. il profilo della mera opportunità di procedere o meno a scelte di investimento, quale decisione esclusivamente rimessa alle valutazioni discrezionali degli amministratori con l'unico (possibile) limite di grave imprudenza o manifesta irragionevolezza. La denunzia di gravi irregolarità deve essere accompagnata da concreti riscontri probatori e non può limitarsi alla apodittica prospettazione di meri sospetti (Trib. Milano, 28 novembre 2012, in giurisprudenzadelleimprese.it).

Le spese del procedimento di volontaria giurisdizione promosso ai sensi dell'art. 2409 c.c. sono a carico del soggetto che ha assunto la relativa iniziativa.

Le scelte gestionali dell'organo amministrativo, quando non rivelino il perseguimento di un interesse extrasociale in manifesto conflitto con quello della società, appartengono all'ambito della discrezionalità imprenditoriale e non possono formare oggetto di sindacato giurisdizionale ai sensi dell'art. 2409 c.c. (App. Brescia, 08 febbraio 2001, in Foro it. 2001, I,3383).

Peculiarità della galassia delle società quotate

Meritano un cenno Ie peculiarità assunte dal tema in esame in relazione alle vicende delle società quotate, tenendo presente, in primo luogo, che nella public company le minoranze generalmente detengono una partecipazione che complessivamente, almeno dal punto di vista aritmetico, costituisce la maggioranza del capitale sociale (correlativamente il controllo ben può discendere da una partecipazione di gran lunga inferiore al 50%).

La tutela delle minoranze nelle società aperte passa attraverso la gestione di almeno due ulteriori elementi di complessità rispetto a quanto visto sinora:

  • la natura variabile degli azionisti-investitori, ciascuno mosso da obiettivi differenti (il “cassettista”, che si disinteressa delle vicende societarie, il “disturbatore”, che partecipa alle assemblee con animo bellicoso, il socio-imprenditore, in possesso di una partecipazione rilevante e di significative competenze, l'investitore istituzionale, passivo o attivo, con ottica di breve o lungo periodo);
  • la difficoltà di organizzare masse eterogenee di soggetti all'interno di un processo decisionale unitario.

Probabilmente anche alla luce delle suddette caratteristiche la disciplina delle società quotate si è rivelata spesso un terreno di sperimentazione di soluzioni normative poi estese dal legislatore al diritto comune delle società per azioni: valga per tutti l'esempio della richiamata azione sociale di responsabilità esercitata dai soci di minoranza, già prevista dall'art. 129 del d.lgs. 58/1998 prima dell'introduzione dell'art. 2393-bis c.c.

Un tratto comune della disciplina delle società quotate è innanzitutto la riduzione delle soglie di capitale richieste ai fini della legittimazione all'esercizio di alcune prerogative delle minoranze: tale agevolazione caratterizza numerose disposizioni illustrate in precedenza, come ad esempio gli artt. 2367, 2408 e 2409 c.c., e conferma la consapevolezza da parte del legislatore dell'anzidetta difficoltà di organizzare masse eterogenee di soggetti all'interno di un processo decisionale unitario.

Al di là di tali specificità il potere di controllo da parte delle minoranze è strettamente connesso ai seguenti aspetti:

  • struttura organizzativa complessa, caratterizzata da vari livelli di controllo, e regole di governance che incidono sulla composizione e sul funzionamento degli organi sociali;
  • costante informazione societaria, influenzata anche dagli obblighi discendenti dall'ammissione a un mercato regolamentato;
  • accentuato potere di voice in capo agli azionisti estranei al gruppo di controllo.

Sotto quest'ultimo profilo, in particolare, la disciplina del funzionamento dell'assemblea include taluni meccanismi volti a favorire la coesione delle minoranze (voto per corrispondenza e sollecitazione di deleghe), ovvero una più efficace informazione e dialettica assembleare (integrazione dell'ordine del giorno e formulazione di domande agli amministratori prima dell'assemblea), ovvero ancora la presenza negli organi sociali di componenti eletti dalle minoranze (voto di lista).

Riferimenti

Normativi:

  • Art. 2367 c.c.
  • Art. 2371 c.c.
  • Art. 2374 c.c.
  • Art. 2393-bis c.c.
  • Artt. 2408, comma 2 e 2409, c.c.
  • Art. 2391-bis c.c.
  • Artt. 106, 126-bis, 127-ter T.U.F.

Giurisprudenza:

Cass. 13 dicembre 2002, n. 17848

Cass. Civ. sez. I, 12 dicembre 2017, n. 29792

Cass. 27 aprile 1990, n. 3535

− App. Brescia, 13 gennaio 2000

Trib. Milano, SSIB, 2 aprile 2016

Trib. Brescia, Sez. Spec. Impresa, 23 ottobre 2015

Trib. Milano, SSIB, 05 novembre 2015, n. 5336

Trib. Milano, 28 novembre 2012

Trib. Genova, 25 Settembre 2017

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