Soppressione della posizione lavorativa: la privazione totale delle mansioni non è alternativa al licenziamento

La Redazione
12 Aprile 2019

La soppressione della posizione lavorativa ricoperta dal dipendente obbliga il datore all'assegnazione al lavoratore di altre mansioni professionalmente equivalenti disponibili nell'azienda nonché...

Il caso. La Corte d'appello confermava la decisone del Tribunale che aveva condannato una società datrice di lavoro a risarcire il dipendente per il danno patrimoniale e non patrimoniale derivatogli dalla privazione delle mansioni avvenuta per il periodo precedente il licenziamento.

Avverso la decisione della Corte territoriale la società ha proposto ricorso in Cassazione, deducendo la violazione e la falsa applicazione dell'art. 2103, c.c., per avere la sentenza impugnata errato nell'affermare che il demansionamento costituisce atto illecito anche nel periodo in cui le parti, a seguito della soppressione della posizione lavorativa ricoperta dal dipendente, cerchino con quest'ultimo un accordo per la conservazione del rapporto.

La privazione delle mansioni non è alternativa al licenziamento. La Corte rileva che, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, la soppressione della posizione lavorativa ricoperta dal dipendente obbliga il datore all'assegnazione al lavoratore di altre mansioni professionalmente equivalenti disponibili nell'azienda nonché, previo consenso del lavoratore, anche di mansioni che abbiano un contenuto professionale inferiore.

Laddove non ci fosse la possibilità di assolvere al suddetto obbligo di repechage, allora verrebbe integrato il giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

La privazione totale delle mansioni, invece, non può essere una alternativa al licenziamento.

Nel caso concreto, i Giudici rilevano che dagli atti del giudizio non risulta nell'organigramma aziendale la disponibilità di mansioni inferiori da colmare e neppure una proposta concreta al lavoratore con i relativi modi di svolgimento di quanto deciso nella trattativa.

Per la Corte Suprema, l'impossibilità di ricevere la prestazione può essere causa di risoluzione del rapporto ma non di esecuzione dello stesso in violazione dei diritti del dipendente.

Per tali motivi la Cassazione rigetta il ricorso.

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